domenica 5 settembre 2010

Nel mare ci sono i coccodrilli


    “Tre cose non devi mai fare nella vita, Enaiat jan, per nessun motivo. La prima è usare le droghe (…). La seconda è usare le armi. (…). La terza è rubare.” Queste le brevi, essenziali raccomandazioni che la madre sussurra a Enaiatollah, il figlio di dieci anni che è costretta ad abbandonare in Pakistan per salvarlo dalla furia omicida dei talebani.
    Dopo aver letto Nel mare ci sono i coccodrilli (Baldini Castoldi Dalai, Milano 2010), € 16)
 il libro in cui, attraverso lo scrittore Fabio GedaEnaiatollah Akbari  racconta la sua personale odissea che dall’Afghanistan lo porterà in Italia, anche lo sguardo più duro e distratto verso chi arriva dalle carrette del mare dovrebbe mutare.   E divenire più  umano e accogliente. Perché dovrebbe capire che è solo per un caso strano e fortunato che, alle nostre latitudini, i ragazzi hanno infanzie serene, mentre Enaiat, per avere una vita degna di questo nome, è costretto a lasciare sua madre e i suoi fratellini, la sua città, i suoi amici con cui giocava a Buzul-bazi … E a lasciare, ancora prima, la scuola, chiusa a forza dalla follia talebana, nonostante l’opposizione coraggiosa del suo maestro “che non alzava mai la voce e quando gridava sembrava spiacesse più a lui che a te”, maestro che viene  ucciso davanti ai suoi attoniti alunni.
Il viaggio lungo e travagliato che Enaiatollah compie dal Pakistan a Torino, quasi una discesa negli inferi dello sfruttamento, della solitudine e della precarietà, non può che essere accompagnato dal nostro sgomento e dalla nostra partecipazione affettuosa. Il lavoro massacrante che Enaiat è costretto a subire nel suo peregrinare, lo fa sentire quasi “mangime per galline” e gli impedisce di dormire, perché “forse la notte conveniva stare svegli, per evitare che le persone vicine sparissero nel nulla”. Viaggio che rischia di farlo morire tra le montagne dell’Asia minore o durante l’incredibile traversata dell’Egeo, compiuta su un canotto, con ragazzini che saranno meno fortunati di lui.
       La vicenda di Enaiatollah è una storia che dovrebbero leggere tutti: uomini e donne, vecchi e scolari, gente di destra e gente di sinistra. Per capire che la speranza di una vita migliore è più forte di qualunque sentimento e di qualunque legge o divieto. Fa parte dei diritti iscritti nella dignità di ogni essere umano. “Mia madre – continua Enaiatollah  – ha deciso che sapermi in pericolo lontano da lei, ma in viaggio verso un futuro differente, era meglio che sapermi in pericolo vicino a lei, ma nel fango della paura di sempre”.
A questa splendida madre-coraggio, ritrovata telefonicamente dopo otto anni, sono dedicate le struggenti righe finali del libro: “Dalla cornetta è uscito solo un respiro, ma lieve, e umido, e salato. Allora ho capito che stava piangendo anche lei. Ci parlavamo per la prima volta dopo otto anni, otto, e quel sale e quei sospiri erano tutto quello che un figlio e una madre possono dirsi, dopo tanto tempo (…). In quel momento ho saputo che era ancora viva e forse, lì, mi sono reso conto per la prima volta che lo ero anch’io”.
                                                                                            Maria D’Asaro

2 commenti:

  1. Avevi ragione: il "tuo" Enaiatollah ed il "mio" Mounir hanno qualcosa in comune. Al loro confronto a me, come profugo, è andata mille volte meglio: sono riuscito anche ad evitare il servizio di leva militare. E quando leggo storie come queste, mi chiedo quale sia la differenza tra loro e me.

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  2. Ecco qui la tua bella recensione, Maruzza. Grazie di avermela segnalata :-)

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