domenica 31 ottobre 2010

L'AMACA


Michele Serra, a mio avviso, è un genio della satira.

(Con quest'andazzo politico, sono imbarazzata di essere una cittadina italiana. Donna, per giunta)


Chi è veramente nei pasticci, a questo punto, è la Caritas. Tirata in ballo dalla ragazza Ruby come competitor di Berlusconi nell´accoglienza delle trovatelle, come farà la Caritas a reggere la concorrenza, di qui in poi, dell´uomo di Arcore? Settemila euro da consegnare lì per lì come argent de poche, più la chincaglieria di lusso, i bravi preti e le brave suore e i bravi volontari, dove li trovano? E un Lele Mora che selezioni le assistite, avviandole a brillanti professioni piuttosto che a quelle tristi Case della Giovane dove al massimo si impara a cucinare, e ti devi pure rifare il letto? E una signorina Minetti (consigliere regionale di Formigoni, non so se mi spiego) che fa il giro delle questure, ogni notte, per ripescare le pecorelle smarrite? E quei ricevimenti con sauna, piscina, vasca con le bolle, bollicine nei bicchieri, vestitini e orologini in omaggio, e al pianoforte mica uno scemo qualunque, ma il presidente del Consiglio in persona, sono forse alla portata della pur volonterosa rete di assistenza cattolica?Dicano la verità, i cattolici, e "Famiglia cristiana" in prima fila: sono invidiosi di Berlusconi perché coprire una ragazza di banconote, come nei film cochon dell´epoca d´oro, non è alla loro portata.
Michele Serra (La Repubblica, 31.10.2010)

sabato 30 ottobre 2010

UOMINI DI DIO

Giovedì sera ho visto un film, a mio avviso, stupendo: Uomini di Dio, che ha avuto a Cannes un riconoscimento speciale. Forse scriverò qualcosa. Intanto vi propongo il trailer.

venerdì 29 ottobre 2010

INGORGO EUCARISTICO


"Le file devono essere distanziate per agevolare il passaggio, altrimenti c’è confusione.” “Per favore: chi è destra, deve confluire nella fila di destra, e viceversa: da sinistra a sinistra. E’ chiaro?” “Come vedete, ci sono due ministri straordinari: non venite tutti al centro, perché le file si ingarbugliano e si scontrano”.
Queste frasi, pronunciate con tono perentorio in tre diverse chiese cattoliche palermitane, hanno suscitato in me una reazione divertita e preoccupata insieme. Divertita, per il paragone spropositato tra le innocue file dei comunicandi e i consistenti ingorghi automobilistici delle strade cittadine. Preoccupata, per la consapevolezza che, in alcuni ambienti cattolici, ci si confonde tra minuzie e sostanza. Magari si sottovalutano la mafia e le scelte razziste di una certa politica; magari non ci si impegna per la salvaguardia dell’ambiente e si perde il contatto con i ragazzi. Ma guai a non essere composti e allineati, nel ricevere la Comunione…

("Centonove": 29.10.2010) Maria D'Asaro

101 STORIE: CI VOLEVA UN DENTISTA


Io ho avuto fortuna: ho avuto dei bravi maestri. Intanto mio padre, che, tra un taglio e un’imbastitura, mi ha insegnato a leggere e a scrivere già a cinque anni. E ad amare la Storia e le storie. E poi la maestra Gaetana, che mi dava insieme istruzione ed affetto. Alle medie, Maria Giovanna Abramo, una forza di donna: da single aveva adottato tre ragazzine veramente sperdute. E poi al ginnasio e al liceo, Dina Di Vita, il prof. Biondo, Tommaso Guarrata, Giuseppina Cibella: dei veri giganti. E’ colpa (o merito) loro, se ho lasciato il mio impiego in banca per diventare insegnante, nonostante il divario economico e la discesa in caduta libera nella considerazione sociale. “Sei pazza, lasciare il posto al Banco di Sicilia per quei quattro soldi che prenderai a scuola…. Iniziare da capo, ora che sei sistemata. Ma chi te lo fa fare?”
I maestri di carne, insieme ai maestri nascosti nei libri: fra gli altri, don Lorenzo Milani. Che scrive di una scuola capace di rendere uomini e donne cittadini consapevoli e non burattini dei potenti di turno. “Perché è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi o intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno.”
[1]
A M. le parole mancavano. – Come si dice, come si chiama. Non lo so dire. Un’ u sacciu, professorè – Era questo il suo ritornello. A M. mancava anche un pezzo di dente. Me lo aveva pure scritto su un foglio. Anche per questo non voleva parlare. E neppure sorridere. Veramente, a M. mancavano anche tante altre cose: una famiglia a modo, ad esempio. Si, aveva un padre e una madre. E due fratelli: il maggiore, disabile grave, con una sindrome difficile persino da pronunciare; il piccolino, nato quando M. era in seconda media. Il padre di M., non l’ho mai visto. La madre, invece, decine e decine di volte. Perché M. a scuola veniva pochino. – E’ malata. Non vuole venire. Ho il bambino ricoverato. Gliel’ho detto, professorè: M. scuola ‘unni voli. M. ha la bronchite. Credevo che fosse a scuola… Ora la vado a cercare – Questa la litania delle giustificazioni della mamma di M., recitate per telefono o pronunciate dal vivo, in uno dei tanti colloqui.
M. l’abbiamo bocciata una volta, in prima. L’anno seguente è passata in seconda. Ma poi ha cominciato a venire pochissimo. Anche perchè era nato il fratellino e la madre lo lasciava alle sue cure se aveva un lavoretto saltuario. E poi perché era troppo insicura. E cominciava a dare fastidio. A punzecchiare e a insultare le sue compagne. A volte la pazienza ai colleghi si esauriva e M. si beccava una punizione. Quell’anno è rimasta in seconda. L’anno dopo, abbiamo tentato di tutto: un laboratorio di recupero, incontri ravvicinati con la madre, il coinvolgimento degli operatori contro la dispersione scolastica del Comune. Ma ormai M. era fuori. Aveva le meche ai capelli e un trucco pesante. Era anni luce lontana dai banchi di scuola. Perché, ormai lo abbiamo imparato, c’è un tempo opportuno, un momento propizio in cui trovare la chiave per i ragazzi difficili. Se perdi quel treno, se non cogli il kairòs li hai persi per sempre. Infatti M. l’abbiamo perduta: è vero, abbiamo chiamato i Servizi sociali. Ma, ormai è cosa nota, se non li acciuffiamo noi i ragazzi, è difficile che li prenda qualcuno.
- Lei è gentile con me – M. mi ha detto una volta, sottovoce.
Forse serviva una gentilezza al quadrato. Sarebbe bastata? Purtroppo ci volevano anche tante altre cose. Intanto, un bravo dentista.

[1] Scuola di Barbiana, Lettere a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1996

mercoledì 27 ottobre 2010

CINQUE W


Who: l’amico-collega and me.
Where: La nostra scuola. All’ingresso dei cessi.
When: Oggi, verso le 12.
Why: Ci scappava la pipì, a tutti e due.
What: Il nostro colloquio, che comincia così:

A.: Ho visto che nel blog hai dato spazio a De Andrè…
M. Lo sai che lo amo, non doveva morire
A. Anche i Negramaro, l’Infinito, le parole sono belle, ma non conosco granchè..
M. Anch’io sono scarsa, ma qualcosa la orecchio…
A. A me piace Fiorella Mannoia
M. Ha una voce stupenda, è bravissima...


Poi mi dice che cosa far scrivere nella lapide mortuaria: è incerto tra due citazioni, Pascoli o Taulkien, mi pare. Gli dico di proporne una terza. Si sceglie sempre tra tre. E poi così ho anch’io qualche idea. Le mettiamo a confronto. – Ma a te non dovrei dire queste cose – Perché? – Tiro fuori Gregory Bateson dal cappello delle citazioni: in ogni discorso c’è un livello di contenuto e uno di relazione. Se la relazione è buona, anche un contenuto doloroso può passare. E poi, aggiunge A., su cimiteri e funerali, ci sono state le gag migliori. Si passa alle carpette. Che cosa gettare e cosa no. Perché si conserva un biglietto d’aereo fatto in gran corsa? Perché si conservano i vecchi giornali? Perché ci si regala la possibilità di scegliere. Cosa fare tra un anno. O tra sette. Cosa avrà senso, la prossima estate? La mia vita è cambiata (lo so, caro A., vorrei chiederti cosa hai fatto scrivere sulla lapide di R. Ecco ho trovato:“Io vissi ammirando, adorando la terra e il cielo./E continuo l'eterno cammino della vita immortale. Edgar Lee Master. C’è sempre un legame..). - Adesso sono un genitore al quadrato . - E’ vero, hai ragione, gli dico, guardandolo in viso.
Ritorniamo al diritto di vita o di morte sui nostri ricordi. Così possiamo scegliere, dice l’amico. Tra un anno, chissà. Forse quel vecchio biglietto non mi dirà più niente. O forse no, chi lo sa.
Un collega ci guarda, con la coda dell’occhio. Parliamo da cinque minuti appoggiati allo stipite della porta del cesso. – Ma in fondo c’è un posto migliore di questo? – Un sorriso e un saluto.
P.S. Avvertenza per i nostri ministri Gelmini e Brunetta. Tranquilli: il collega e io eravamo fuori servizio da una buona mezz'ora. Liberi quindi di giocare con le nostre parole. E di fare pipì, of course.


lunedì 25 ottobre 2010

101 STORIE: BELLO E IMPOSSIBILE


Di A. due cose ti colpivano subito: gli splendidi occhi nocciola e il fatto che non stava mai fermo. Era beddu, quel ragazzino: lineamenti regolari, bocca ben disegnata, naso perfetto. Ma gli occhi, però, non ti guardavano mai. Sgusciavano via, a destra, a sinistra, in basso, dovunque. Allo stesso modo, il suo corpo continuamente fluttuava: in bagno, nel corridoio, a dare un calcio a un compagno, a spargere polvere di gesso per aria, a fare una pernacchia al docente.
- E’ proprio impossibile – sospiravano i docenti a una voce sola. Si chiede un colloquio immediato. Si presenta la madre. Una bella signora, alta e bruna, stessi occhi nocciola del figlio. - Signora, che è successo alle elementari? Sembrerebbe che A., in una scuola, non ci abbia mai messo piede…- Ha frequentato una scuola privata. Ma forse era solo un posteggio – aggiunge contrita. - Ma signora, suo figlio è troppo irrequieto, e ha carenze notevoli…- La signora mi guarda, indugia un momento, abbassa il tono di voce: - Dottoressa, è meglio che glielo dico. Ho due figlie grandi, una lavora, lo sa, l’altra è fidanzata in casa con un bravo ragazzo. Mio marito s’ammazza la vita pi vuscarisi un pani. Si nni va ca matinata, e torna ca è scuru (1)…E’ capomastro, non ci fa mancare niente. Ma è sempre fuori. Per questo ci sono io, qua… - Prende voce, si ferma. Intuisco che è un parto difficile. L’aiuto: - Continui, signora: voleva dirmi una cosa importante. - La signora mi guarda negli occhi. Il tono è dolorosamente tranquillo: - E’ successo quando aveva cinque anni. Non voleva andare all’asilo. Piangeva, ma io uscivo a cucire le tende per vuscari qualcosa. Allora mio marito lavorava di meno e c’era bisogno di soldi, in casa. Il bambino stava spesso con un parente… chi lo poteva pensare - .
Ero psicopedagogista da un mese. Prima di allora avevo sempre spiegato la storia e la geografia. La forma attiva e passiva e i modi dei verbi. Non volevo capire. Mi rifiutavo di ammettere che sia veramente accaduto. La signora mi toglie dal limbo. - Professoressa, A. è stato abusato. L’abbiamo capito più tardi. Lo hanno seguito per anni alla Asl. Ma ora A., dalla psicologa, non ci vuole più andare. E lei dice che non glielo possiamo portare per forza. Non ne vuole di scuola. Non sente nessuno. Non sta fermo un minuto…-
A. è stato il mio battesimo di alunno difficile. Il primo anno è stato bocciato. Sono certa di non averlo seguito abbastanza. Il rimorso mi è stato compagno fedele per tutta l’estate. Ma A. era la disperazione di compagni e docenti. Un docente, una volta mi disse: - O te lo porti o non rispondo delle mie azioni. - E io mi sentivo impreparata e impotente. Ma il collega non era cattivo. Era stanco. E poi in classe aveva ventisei ragazzi e almeno altri quattro veramente difficili. A. punzecchiava ogni momento qualcuno e a volte ne combinava di grosse. La mamma non si è dispiaciuta per la bocciatura. – Era giusto: alle elementari non ha mai fatto niente. –
L’anno dopo il collega più stanco degli altri è andato in pensione. E noi abbiamo fatto sistema. Approccio sistemico-relazionale, dicono gli esperti. A. era l’alunno speciale che dovevamo aiutare. E a cui volevamo un gran bene. Ci siamo dati tutti una mano: famiglia, Asl, docenti, compagni. La professoressa di arte si è inventata un laboratorio di ceramica anche per lui. Non so quante volte ho potuto incontrato sua madre: veniva sempre, quando la scuola chiamava.
Così, dopo l’insuccesso iniziale, in terza media A. ci è arrivato. Il suo magma interiore si è un po’ raffreddato. Alla fine ci guardava negli occhi. E gli scappava un sorriso. Agli esami, era ormai un metro e ottanta di uomo.
[1] Per guadagnarsi il pane. Esce di casa la mattina presto e torna a casa che è già buio


venerdì 22 ottobre 2010

La collina ...

La citazione del mio amico, la richiama. E' triste, lo so. Ma bellissima.

SPECIE IN ESTINZIONE


Il pedone, donna o uomo che sia, è una specie rara a Palermo. Forse in estinzione. E’ un essere indifeso, rispetto alla forza arrogante di alcuni esponenti della specie motorizzata. Che vivono il mezzo meccanico - automobile o “motore” che sia – come un potente scafandro, una seconda pelle che li rende distratti e incuranti verso chi cammina a piedi. Parafrasando i versi virgiliani - Rari nantes, in gurgite vasto - si potrebbe dire: pochi camminano, nella grande città. Si passeggia solo in via Libertà, ma non si va a piedi a comprare il pane o le scarpe: per queste e altre incombenze si prende la macchina.
Eppure camminare fa bene al cuore, all’umore, al tono muscolare. Fa bene alla terra, perché consumiamo le scarpe, ma non immettiamo anidride carbonica nell’aria. Chissà se i nostri antichi conterranei non sapessero già queste cose quando affermavano: “Quannu ‘u pedi camina, ‘u cori sciala”.
Maria D'Asaro
(pubblicato su “Centonove” il 22-10-2010)

giovedì 21 ottobre 2010

101 Storie di ragazzi sperduti

     C’era una volta un’insegnante. Piuttosto giovane e di belle speranze. I seni ancora pieni di latte per nutrire il terzo bambino. Mente e cuore traboccanti di cura per i figli degli altri. 
    Un giorno, a scuola, ascoltò un rullar di tamburi: “A tutti i docenti, udite, udite: si cerca qualcuno che sappia trovare i ragazzi sperduti…” 
     Fu così che divenni psicopedagogista. Il mio terzo lavoro. Eravamo alla fine del secolo scorso. A Palermo, i ragazzi smarriti – gli addetti ai lavori la chiamano “dispersione scolastica” - erano dodici, quindici, anche diciassette su cento. A scuola non venivano proprio, oppure venivano un giorno e sei no. O erano destinati a bocciature continue.
     Una delle mie prime bambine disperse è stata I.,: occhi grandi, neri, un po’ tristi. 13 anni, per la terza volta in prima media. Sorriso dolce, guardingo. Capelli lunghi e arruffati, alla buona. Abitini puliti e dimessi. I colleghi mi dicono: “Non è stupida, ma la famiglia non collabora”… “Non puoi cambiarle la testa, non ne vuole di scuola” “Viene, arraffa il buono- libri e poi chi la vede più?” 
    Viene un giorno sì e sei no. “Perché” – le chiedo. Lei mi guarda in silenzio, abbozza un sorriso. “Perché” – le chiedo di nuovo, con la mia più convinta dolcezza. “La mamma deve comprare (cioè, deve partorire) Non si può alzare dal letto. La devo aiutare. Certe volte cucino, lavo i piatti e bado a mia sorella.” 
    Chiamo la madre al telefono: le dico che il posto di I. è a scuola. Altrimenti verrà l’assistente sociale. Che si faccia aiutare da qualche parente. “Professoressa, può venire chi vuole. Io unn’aiu a nuddu: né matri, né soru, né soggira. Me maritu travagghia da matina a sira. Haiu puru natra figghia all’elementari… Lei a scuola ci va. U sacciu c’a scola ci voli, è importante. Ma I. mi serve; comu fazzu i surviza cu stu figghiu chi mori si mi catamiu? (1)” 
    Deglutisco. Non so cosa dire: il diritto allo studio di I. fa a pugni con la solitudine della madre e il diritto di vivere del fratellino. Qualche giorno dopo, I. sparisce per sempre. 
   Sei anni dopo è venuta A., sorellina minore di I. Stessi occhi, stessi capelli. Uno sguardo meno sveglio e sagace. L’abbiamo promossa ogni anno. “Glielo dicevo, dottoressa – sorride la madre – u sacciu ca a' scola è importante. A. ha tutti i libri… 
     L'anno scorso, il nono del XXI secolo, è venuto a scuola il fratellino. I media: occhiali da dottorino, minuto e studioso. 
   Ora ogni tanto viene la madre. Sempre più piccola e curva, gli occhi segnati da occhiaie. Ciuffi bianchi si affacciano senza vergogna tra i lunghi capelli ondulati, senza tinta o meches, al naturale. 
     Per studiare, E. va al doposcuola: “Se ha volontà, mi levo pure u’ pani di mmucca pi iddu. (2)”
      Le chiedo di I.: è sposata, ha un bambino. E. viene spesso a trovarmi: gli manca il libro d’inglese e di scienze. “Tieni, te li presta la scuola.” Me lo guardo in silenzio. Lo accarezzo con gli occhi. E’ un amore di figlio. Forse non sa che ha avuto due madri.

Per i non siciliani:
1) Come faccio le faccende domestiche con questo bambino in arrivo che rischia di morire se mi muovo?
2) Farò a meno anche di mangiare, per farlo studiare.

mercoledì 20 ottobre 2010

Gesù e i lebbrosi: l'importanza di dire grazie

   "Avete notato che nel Vangelo troviamo due espressioni diverse per indicare la condizione dei 10 lebbrosi quando eseguono la parola di Gesù. 
    Prima si usa il termine “guariti”, poi solo di uno Gesù dice alla fine “Salvato”. Precisamente, più che guariti, il Vangelo dice “purificati”, perchè veniva considerata contaminazione la lebbra, quindi non solo una malattia, ma addirittura veniva considerata una condanna di Dio dovuta a una qualche colpa da parte del lebbroso. 
     E quindi essere purificati era una condizione già abbastanza buona. Solo però che Gesù soltanto del samaritano che torna a dirgli “grazie” dirà “La tua fede non ti ha guarito, non ti ha solo guarito, ma ti ha salvato”. 
     Come mai? E che cosa cambia in questo quadro che comunque è molto bello: tornarsene a casa purificati senza la lebbra non è una cosetta così, è una cosa importante: immaginate, un malato di lebbra che si trova improvvisamente guarito. Tra l’altro, doveva presentarsi a Gerusalemme per il certificato. Quindi non so se avrebbe avuto tempo per tornare a ringraziare Gesù. Gesù aveva detto loro “Andate al tempio, presentatevi, poi quando avrete il certificato – forse lo avrà detto - se volete tornare, vi incontro volentieri, così verifichiamo la vostra guarigione…” 
      Ripeto, già essere guariti era abbastanza… Ma Vangelo ci vorrebbe far fare un passo avanti e lo lega al comportamento e all’atteggiamento giusto giusto di un samaritano. I peggiori, insomma, quelli che non hanno nome, quelli che sono scomunicati, che poi sono quelli che nel Vangelo fanno bella figura: e questa è una cosa simpatica, dovremmo sottolinearlo sempre con apprezzamento e con ammirazione. Dove uno si aspetta di meno, poi abbiamo la sorpresa. 
      Come mai questa sottolineatura del Vangelo? Il Vangelo usa un’espressione a proposito del samaritano che voi, col vostro orecchio, avete sentito risuonare. Gesù dice che il samaritano tornò indietro lodando Dio a gran voce. Si gettò ai piedi di Gesù per rendere grazie. Come si dice in greco “rendere grazie”? E’ una parola che sapete tutti: si dice “eucarestia”, eucarestein. Il samaritano si pone ai piedi di Gesù per fare eucarestia. Rendere grazie. 
     E perché rendere grazie è salvifico, ci salva? Ecco il Vangelo di oggi. Perché? Perché il rendere grazie ci pone in relazione con qualcuno. Si rende grazie a qualcuno. Si riconosce il legame con qualcuno. Si prende atto della bontà della propria vita: di quel poco o molto di buono che c’è in noi. Si apprezza se stessi. Si riconosce di valere qualcosa. E quindi ci si ferma, si mette in folle: si interrompe la folle corsa e ci si chiede: “Ma da chi vengo? Verso chi sto andando?”
     Purtroppo ci fermiamo raramente: abbiamo sempre qualcosa di urgente da fare, una Gerusalemme da raggiungere, un trattato da compiere,qualcosa da realizzare … Se non ci si ferma mai, non ci si apprezza mai, non possiamo gustare quello che siamo, quel pochissimo o molto che siamo… E’ importante fermarsi e capire che qualcuno ci vuole bene, qualcuno ci ha anticipato con la sua benevolenza: possono essere i nostri genitori, in primo luogo, o le persone che abbiamo accanto. E’ opportuno fermarsi per dire “E’ bello questo”. 
       Questo non solo ci fa vivere, ma dona una qualità diversa alla nostra vita. Ce la fa sperimentare come salvifica: cioè vita amata. Se questo qualcuno poi riconosciamo che è Dio stesso ed è Dio che si rende vicino a noi attraverso la gestualità di Gesù, in carne e ossa, che con la sua parola, in questo caso ci dice: “Andate, presentatevi ai sacerdoti”, cioè fatevi guarire. 
     Ma quello che conta non è essere guariti o essere senza malattie – come comunque auguro a tutti noi – ma gustare la propria vita! Gustarla, riconoscere una qualità alla nostra vita attraverso la relazione che ci fa dire, che ci fa apprezzare quello che siamo, anche quel pochissimo che siamo, e ci fa dire: “La mia vita, oltre a essere frutto del mio agire, del mio fare, è anche frutto di un amore che mi ha sempre preceduto, che mi ha sempre anticipato… Incontrarci qui la domenica è salvifico, perché ci fermiamo; e così come siamo, con tutto quello che siamo, ci fermiamo per dire: “Grazie, Signore, che ci vuoi bene. Prima, sempre prima, e al di là di ogni nostra attesa, di ogni nostro merito. Perché ti piace essere in relazione con noi.” 
     E il dire grazie è la relazione più bella che noi possiamo istaurare. Senza servilismo, s’intende. Anzi, riconoscendo di essere amati e benvoluti. E’ la relazione più bella che ci può dare salute, nel senso pieno, salute come salus, nel significato latino di salvezza. Ecco perché ci fermiamo, almeno la domenica, per guardarci tutti in faccia e dire: Rendiamo grazie al Signore. 
     E’ veramente buono, giusto, degno di lode, fonte di salvezza, che noi ci raccogliamo e diciamo, così come siamo, intanto grazie. Poi riprendiamo la nostra vita. Riprendiamo la nostra corsa, spesso anche forsennata. Ma tornare, guardarsi e dire grazie, e dirlo insieme, ci fa bene. E fa bene anche alla salute, fa bene anche alla nostra salute.
      Che cosa è allora la fede? La fede è la relazione che noi riconosciamo tra Dio e noi. Non che la costituiamo, la riconosciamo. Riconosciamo che Dio è in relazione con noi: è la cosa più bella che noi possiamo vivere. Nonostante le mille difficoltà, i mille problemi in cui ogni giorno ci imbattiamo. Pazienza … ha senso che noi facciamo eucarestia."

(don Cosimo Scordato, Palermo, chiesa di San Francesco Saverio, 10 ottobre 2010)

martedì 19 ottobre 2010

RESPIRO


Di Emanuele Crialese, noto ai più per “Nuovo mondo”, ho scoperto e apprezzato “Respiro”, a mio avviso un film molto bello, di rara poesia e intensità. Che unisce una storia, un montaggio, una fotografia e una recitazione davvero convincenti. La storia è quella di Grazia - la brava Valeria Golino - moglie di un pescatore e madre di tre figli, affetta da quello che gli addetti ai lavori chiamerebbero “disturbo bipolare”: a volte è allegra ed esageratamente euforica, a volte è chiusa in se stessa e depressa. Grazia è una madre-bambina, fragile e bisognosa di protezione. E infatti i suoi figli, soprattutto Pasquale, il più grande dei maschi, le offrono aiuto e affetto, in un tenero e per niente tragico capovolgimento di ruoli. Come ci testimonia la canzone di Patti Pravo, che a Grazia piace ascoltare, la storia si svolge all’inizio degli anni ’70. Siamo a Lampedusa, la cui piccola comunità è descritta con sapiente e delicato realismo. Lo svolgersi della storia ci suggerisce un dubbio: che Grazia non sia poi così matta, che gli altri non siano poi così savi... Mentre alcune scene quasi da macchietta stemperano bene il livello del dramma che va a poco a poco salendo. Fino a sciogliersi nella superba scena finale. Nel mare limpido e azzurro, Grazia e la sua famiglia ritrovano il cosmos perduto, una rinnovata pace e armonia. E la catarsi abbraccia e coinvolge l’intero paese: regalo dell’acqua che rende fluidi e rallenta i corpi, il pensiero, il sentire. E addolcisce il respiro.

lunedì 18 ottobre 2010

venerdì 15 ottobre 2010

PALERMO COME AMSTERDAM


Stesso numero di abitanti, più o meno, entrambe in pianura, città sul mare l’una e l’altra. Purtroppo le analogie tra Palermo e Amsterdam si fermano qui. Per il resto le differenze non potrebbero essere più eclatanti e vistose: Amsterdam è attraversata da piste ciclabili e detiene il record europeo per quantità di biciclette: ben 550.000. Palermo ha un’unica, misera, pista ciclabile, dalla Stazione Centrale alla Favorita. Amsterdam ha 220.000 alberi e immensi parchi cittadini: Palermo ha un rapporto superficie/spazi verdi tra i più bassi d’Europa. Amsterdam è una città pulitissima: Palermo no. Amsterdam è percorsa da puntualissimi tram elettrici: Palermo ha un pessimo servizio di trasporti urbani.
Allora una proposta per i candidati a sindaco alle prossime elezioni del 2012: andate ad Amsterdam. Innamoratevi delle cose belle – e funzionanti – di quella città. Poi, tornate a Palermo e, nel programma di governo della città, scrivete: “Perché noi no? Palermo come Amsterdam!”
("Centonove": 15-10-2010) Maria D’Asaro

giovedì 14 ottobre 2010

L'immenso ...

Dedicato alle persone che abbiamo amato. Ma che non abbiamo più accanto.


venerdì 8 ottobre 2010

AUTOBUS 237


Le daresti non più di vent’anni: ma il ventre un po’ gonfio e il ragazzino settenne che la chiama “mamma” ti inducono a dargliene qualcuno di più. Jeans anonimi e trasandati, parla perennemente al telefonino con l’auricolare all’orecchio sinistro. Lo sguardo perso non si sa bene dove. E non per l’evidente strabismo degli occhi: celesti, spenti, arrabbiati. Siamo sul 237: il ragazzino è seduto, lei, in piedi, continua a parlare al cellulare. Quando il figlio l’invita a sedersi, lei dice di no con la testa. Nel breve tragitto ti chiedi se ha un compagno (la mancanza di anello all’anulare suggerirebbe di no) se lavora, perché suo figlio non è andato a scuola, perché è così disperata, se qualcuno l’aiuterà mai a fare la madre. Alla Stazione Centrale scendiamo. Dopo un po’, dà la mano al bambino. Almeno questo lo fa, sospiri in silenzio. Prima di perderli di vista per sempre.
Maria D’Asaro

("Centonove": 8-10-2010)

giovedì 7 ottobre 2010

On the road

   Era un martedì, il giorno delle cenette filosofiche: un momento di incontro e confronto tra amici, sgranocchiando un biscotto o un pezzo di pizza. Quella sera bisognava trovare la nuova sede. La signora, che non ha ben guardato Tuttocittà o Google maps, posteggia alla cieca a comincia a cercare il 28. Attraversa la via e una moto si ferma per farla passare. Ma continua a star ferma anche dopo che lei ha attraversato. Dalla moto, una voce maschile: “Mi chiamo Giuseppe… Non ho mai visto una donna col suo fascino…” La signora cammina, cercando con gli occhi il 28, ma risponde, sorridendo distratta: “Mi chiamo Maria, grazie del complimento…Buona serata anche a lei!”
   Il signore in motocicletta le si accosta di più e, passando a un tu repentino, le chiede: “Vediamoci stasera”. La signora non mette subito a fuoco, continua a camminare e a cercare la casa: adesso sta zitta. L’uomo continua, pressante: “Dammi almeno il tuo numero di telefono: ecco ti dò il mio, voglio incontrarti…” Ora la signora è confusa, in allarme, il passo veloce. Uno strano ronzio le attraversa le orecchie. La voce dell’uomo è calda, vibrante, imperiosa e supplice insieme. Parla all'uomo, forse sbaglia, ha sbagliato già prima? “Guarda che qui vicino mi stanno aspettando: adesso li chiamo…” Tira fuori il cellulare, convulsa: “A quale 28 siete?” “Devi andare alla piazza…- risponde l’amico - il nostro 28 è in piazza, non è quello della via – “Un tizio mi sta dietro” – “Adesso scendiamo..”
     La moto è ancora vicina, adesso inverte la marcia. La signora ha paura. La paura della preda all’odore del predatore. Gli amici sono stati avvertiti: ma quando verranno? La moto le si accosta di nuovo. Questa volta l’uomo non parla: ma la guarda, beffardo e insistente. “Vai in macchina”, le dice la vocina interiore… Già la macchina, non era lontana. Riattraversa di corsa. Un signore al bancoposta. “Non sono sola, se si avvicina di nuovo”. 
    Corre, nella mano le chiavi. La portiera si apre. Il cuore batte veloce. Dentro. Sicura. E’ un’antilope fortunata perché ha un’automobile. Raggiunge la piazza. Di amici, in strada, ce ne sono già tre. “Ma guarda che mi è capitato, sono solo le nove di sera, ….”
    Non mangia, ma discute con gli altri: mangiare carne, allevamenti intensivi o scelta vegetariana? Perché mangiare i maiali e non i cani? Stasera si sente diversa: si sente - ma lo è sempre stata -una specie a rischio. Anche se è un esemplare insignificante, con una gonna jeans alle caviglie e una maglietta appena appena scollata. E ha cinquant’anni… Un amico sorride e sdrammatizza, scherzando: “Certe trentenni non le guarda nessuno, non è da tutte essere abbordate, a cinquant’anni…”
    Dentro, molta tristezza Qualcuno l’accompagna alla macchina. Il pensiero corre a sua madre: mamma avrebbe disapprovato le sue uscite, la sera. Suo padre, invece, non era contento che il suo essere donna le dimezzasse la vita. Magari, qualche volta le avrebbe fatto compagnia, ascoltando in silenzio, col suo intelligente e luminoso sorriso, le discussioni dell’allegra brigata.
    Certo, uscirà ancora, da sola, la sera. Ma le prossime cenette non avranno lo stesso spensierato sapore.

lunedì 4 ottobre 2010

Starry starry night

Una delle mie canzoni preferite, when I was young ...
Assieme agli splendidi quadri di Van Gogh.

(testo in italiano e in inglese: Stellata, stellata notte che dipingi la tua tavolozza di blu e grigio Osservi in un giorno d'estate con occhi che conoscono l'oscurità della mia anima Le ombre sulle colline abbozzano gli alberi ed i narcisi Cogli su una tela la brezza ed i geli invernali di un paesaggio nevoso Starry, starry night paint your palette blue and grayLook out on a summer's day with eyes that know the darkness in my soulShadows on the hills Sketch the trees and the daffodils Catch the breeze and the winter chills in colors on the snowy linen land Ora comprendo quello che provavi a dirmi E in che modo hai sofferto per il tuo equilibrio interiore Come provasti a renderli liberi Non volevano ascoltare, non sapevano come Forse ascolteranno adesso Now I understand what you tried to say to me And how you suffered for your sanity How you tried to set them free They would not listen, they did not know how Perhaps they'll listen now Stellata, stellata notte fiori fiammeggianti che ardono brillando Turbinanti nubi in aura viola si riflettono negli occhi di porcellana blu di Vincent Colori che cambiano tonalità in campi mattutini di grano ambrato Visi esposti alle intemperie scavati dal dolore consolati dalla mano amorevole dell'artista Starry, starry night flaming flowers that brightly blaze Swirling clouds in violet haze reflect in Vincent's eyes of china blue Colors changing hue morning fields of amber grain Weathered faces lined in pain are soothed beneath the artist's loving hand Ora comprendo quello che provavi a dirmi E in che modo hai sofferto per il tuo equilibrio interiore Come provasti a renderli liberi Non volevano ascoltare, non sapevano come Forse ascolteranno adesso Now I understand what you tried to say to meAnd how you suffered for your sanity How you tried to set them freeThey would not listen, they did not know how Perhaps they'll listen now Perché loro non potevano amarti tuttavia il tuo amore era sincero E quando in te non era rimasta alcuna speranza in quella stellata, stellata notte Prendesti la tua vita come spesso fanno gli amanti, potrei avertelo detto Vincent Questo mondo non era stato pensato per uno bello come te For they could not love you but still your love was true And when no hope was left inside on that starry, starry night You took your life as lovers often do but I could have told you, Vincent This world was never meant for one as beautiful as you Stellata, stellata notte ritratti appesi in sale vuote Teste senza cornice su pareti senza nome con occhi che osservarono il mondo e non possono dimenticare Come gli sconosciuti che tu hai incontrato, uomini logori, in logori vestiti Una spina d'argento, una rosa sanguinante giacciono schiacciate e rotte nella neve vergine Starry, starry night portraits hung in empty halls Frameless heads on nameless walls with eyes that watch the world and can't forget Like the strangers that you've met The ragged men in ragged clothes A silver thorn, a bloody rose lie crushed and broken on the virgin snow Ora penso di sapere quello che hai provato a dirmi E in che modo hai sofferto per il tuo equilibrio interiore Come provasti a renderli liberi Non vollero ascoltare, ancora non ascoltano Forse non ascolteranno mai.. Now I think I know what you tried to say to me And how you suffered for your sanity How you tried to set them free They would not listen, they're not listening still Perhaps they never will... (la canzone era cantata da Don McLean)

domenica 3 ottobre 2010

sabato 2 ottobre 2010

2 OTTOBRE: GIORNATA INTER.LE DELLA NONVIOLENZA


Attingo a “Conflittualità nonviolenta”, ottimo testo del prof. Andrea Cozzo, per offrire qualche riflessione in occasione del 2 ottobre, anniversario della nascita di Gandhi e Giornata internazionale della nonviolenza.
Il prof. Cozzo ci ricorda che “cosa è ciò a cui si applica la violenza (…) Nella prospettiva culturale l’abitudine a considerare le persone e i viventi come cose può essere combattuta da un esercizio in senso contrario, che … ci abitui a considerare le cose come persone” (p.149). “Una pietra, una cosa, qualsiasi materia inerte è completamente alla nostra mercè; nel trattarla noi, in ascolto, è meglio attribuirle, in certo qual modo, una volontà: perciò possiamo chiederci se vuole questa pietra essere mossa o distrattamente calciata nel corso della nostra passeggiata o questo filo d’erba o ramo d’albero essere spezzato da noi solo per gioco” (p.153).
E infatti Aldo Capitini, citato dal prof. Cozzo nelle pagine seguenti, ci ricorda che “la nonviolenza è una presa di contatto col mondo circostante nella sua varietà di cose, di essere subumani, e di esseri umani, è un destarsi di attenzione alle singole individualità di tutti questi oggetti circostanti (…) E’ la sospensione dell’attivismo che consideri tutto come mezzo … Sospensione di attivismo che è attivissima moltiplicazione d’attenzione, d’interesse, d’affetto, potenziamento della vita interiore proprio mediante questo collegamento in atto di tutto il reale nelle sue innumerevoli individuazioni con l’intimo nostro (…) Ecco allora che apertura significa vedere in un essere singolo qualsiasi, umano o subumano, qualcosa di più di quello che si vede ordinariamente: una interiorità, una capacità di dare e di fare, una possibilità per oggi e per il futuro, una forza di miglioramento e di rinnovamento, di integrazione di ciò che già è, di partecipazione con gli altri… Esistere e curarsi degli altri e delle cose è rendere grazie”.
Anche un altro profeta nonviolento, Danilo Dolci, sottolinea l’importanza di una relazione significativa “con qualsiasi creatura e materia … pur se mute”. Mentre Capitini prosegue: “Si fa violenza al tempo quando lo si usa male, si fa violenza alla luce quando ci debba servire per facilitare una cattiva azione. E così l’acqua, così i prodotti della terra”. Sulla base di queste considerazioni, Andrea Cozzo sottolinea che “la civiltà industriale e della massima velocità possibile trova la sua condanna totale, e sulla base di essa una pietra ci insegna la nonviolenza” (p.153).
Mi piace che il 2 ottobre coincida anche con la festa cristiana degli Angeli Custodi. Che ognuno di noi possa, nell’orizzonte nonviolento, divenire messaggero di pace e di luce per l’umanità, gli animali, le piante e per l’universo intero.

(Foglio telematico: Nonviolenza in cammino, n.325 del 26.9.2010)

Maria D’Asaro

venerdì 1 ottobre 2010

BOTTIGLIETTA KILLER


Sembrerebbe l’oggetto più innocuo del mondo: una semplice bottiglietta di plastica. Che tanti comprano ogni giorno, con treccina o pizzetta. Senza pensare che, solo in Italia, ogni anno se ne producono circa dodici miliardi. Di cui si ricicla appena il trenta per cento. Il resto inquina discariche, mari, campagne. Ecco allora il mio sogno: abolire le bottigliette di plastica. O, almeno, trovare un modo sicuro per riciclarle. Augusto Cavadi, ne “I Siciliani spiegati ai turisti”, ci dice che in Croazia ogni supermercato dà mezza cuna (15 centesimi) per ogni bottiglia restituita. E auspica che anche in Italia “si possa ricavare qualche vantaggio economico da una politica ecologicamente favorevole”.
Il sogno continua immaginando Palermo pulita, con noi cittadini che ricicliamo le bottigliette. O che, ancora meglio, utilizziamo una borraccia di zinco. Come gli scout. Facendo una buona azione per la nostra Terra, la cara vecchietta che dovremmo aiutare a star meglio.
Maria D’Asaro
(pubblicato su “Centonove” l’1-10-2010)