giovedì 13 giugno 2013

Cara Curly


Cara Curly,
    nel percorso casa/ scuola che faccio ogni giorno, mi capita a volte di provare a camminare con gli occhi chiusi, lungo il marciapiede. Malgrado ci provi e riprovi, dopo una dozzina di passi, sono costretta a riaprire gli occhi, perché ho una sorta  di vertigini e comincio a barcollare. 
Ogni volta che faccio questa sorta di “gioco”, adesso penso a te, a te che hai perso quasi del tutto la vista. Penso a te, anche quando “posto” un video o una foto: “Accidenti, questo Curly non può vederlo”…
   Ma tu le cose le vedi e le senti attraverso una sensibilità straordinaria. Sei stata una delle mie prime followers e non c’è un tuo commento che non sia acuto, arguto e affettuoso. Da un po’ di mesi, hai anche aperto un blog: Cuori testardi, in cui racconti di amori travagliati, a volte a lieto fine, a volte no. Dopo il tuo ingresso attivo tra i bloggers, incuriosita dal tuo pseudonimo e vogliosa di un contatto minimo un po’ più vero e più umano, ti ho scritto una mail chiedendo quale fosse il tuo vero nome. Mi hai risposto. Da allora so come chiamarti.
    Da qualche giorno stavo in pensiero: è raro che ti allontani così tanto dal web. Sabato sera scorso, ho letto questo commento anonimo al tuo ultimo post: Questo è stato il suo ultimo post decidendo di lasciarci per ricongiungersi alla mamma. Ora può vedere nuovamente, non solo come nei sogni che terminavano in un incubo con il risveglio. Addio Miky, ci rimarranno i tuoi pensieri. 
    Non posso crederci. Non voglio crederci. Anche se il tuo silenzio, prima o poi, mi farà arrendere all’evidenza. Penso che avrei dovuto esserti più vicina. Mi chiedo che cosa avrei potuto fare di più oltre che scriverti qualche parola affettuosa e di conforto quando mi mettevi al corrente dei tuoi travagli e dei tuoi tristi pensieri. Ti confesso che stai mettendo in discussione anche il mio approccio col web. Che senso ha l’amicizia via web? Come si può essere vicini, solo via web, a qualcuno/a che soffre? Senti cosa scrive  Jonathan Safran Foer:
 "Un paio di settimane fa, ho visto una sconosciuta piangere in pubblico. (…)Una ragazza, forse quindicenne, era seduta sulla panchina di fronte, e piangeva al telefono. L’ho sentita dire: «Lo so, lo so, lo so». E andare avanti così. Che cosa sapeva? Aveva commesso qualcosa di sbagliato? La stavano consolando? Poi ha detto: «Mamma, lo so». E le lacrime si sono fatte ancora più copiose. (…)«Mamma, lo so» ha detto e ha chiuso il telefono, mettendoselo in grembo.
Mi sono trovato davanti a una scelta: potevo intromettermi nella sua vita, oppure rispettare i confini tra di noi. Intervenire avrebbe potuto farla sentire peggio, o risultarle inappropriato. Ma avrebbe anche potuto alleviare il suo dolore, o risultare di aiuto, in modo schietto e ragionevole. (…). Occorreva fare molte valutazioni umane. È più difficile intervenire che non intervenire, ma è infinitamente più difficile scegliere di fare una di queste due cose che battere in ritirata a controllare l’elenco dei propri contatti su qualsiasi iDistraction preferito ci troviamo a portata di mano. La tecnologia celebra la possibilità di entrare in contatto, ma incoraggia a battere in ritirata. (…) L’uso quotidiano che faccio delle comunicazioni grazie alla tecnologia mi sta cambiando, sta facendo di me una persona che ha maggiori probabilità di dimenticare il prossimo. Il flusso dell’acqua scava la roccia, un poco alla volta. E anche la nostra personalità è scavata dal flusso delle nostre abitudini.
Gli psicologi che studiano l’empatia e la compassione ritengono che a differenza delle nostre reazioni pressoché istantanee al dolore fisico, occorre tempo prima che il nostro cervello possa cogliere appieno le dimensioni psicologiche e morali di una data situazione. Più distratti diventiamo, e più importanza diamo alla velocità a discapito della profondità, meno capaci diventiamo di prendere qualcosa o qualcuno a cuore, e meno probabilità abbiamo di farlo. Tutti bramiamo l’attenzione illimitata dei genitori, di un amico, del partner, anche se molti di noi, soprattutto i bambini, si stanno abituando a riceverne molta meno. 
Simone Weil scrisse: “L’attenzione è la forma più rara e più pura di generosità”. Secondo questa definizione, le nostre modalità di relazione con il mondo, gli uni nei confronti degli altri, e verso noi stessi stanno diventando sempre più limitate. Gran parte delle nostre tecnologie della comunicazione sono iniziate come sostituti inferiori di un’attività impossibile. Non potevamo incontrarci sempre a quattr’occhi, così il telefono ha reso possibile mantenerci in contatto anche a distanza (…).
 Queste invenzioni non sono state create per essere sostituti migliori rispetto alla comunicazione faccia a faccia, bensì come evoluzioni di sostituti accettabili, per quanto inferiori. Poi, però, è successa una cosa buffa: abbiamo iniziato a preferire i sostituti inferiori.(…)Il problema dell’accettare – del preferire – i sostituti inferiori è che col passare del tempo anche noi diventiamo sostituti inferiori. Le persone abituate a dire poco si sono abituate ad avere poche sensazioni. (…) Spesso utilizziamo la tecnologia per risparmiare tempo, ma sempre più ciò assorbe il tempo che abbiamo risparmiato, oppure rende quel tempo risparmiato meno presente, intimo e ricco.  (…) Il più delle volte, la maggior parte delle persone non piange in pubblico, ma tutti hanno sempre bisogno di qualcosa che un’altra persona può dare loro, che si tratti di attenzione incondizionata, di una parola cortese o di una profonda empatia. Non c’è niente di meglio da fare nella vita che prestare attenzione a queste esigenze. (…)
     Curly carissima: perdonami. Per non averti donato l’attenzione affettuosa che meritavi. Per essermi tenuta cucita, nelle nostre mail private, quella corazza che, da un po’ di tempo, fatico a lasciare. Per non averti invitato ad assaggiare la granita di gelsi, a Palermo.
    Ho un sogno: di risvegliarmi dall’incubo della tua assenza con un tuo commento che mi rassicuri. Che dica, a me e a tutti quelli che ti conoscono e ti vogliono bene, che è stato solo un equivoco. Che tu ci sei ancora, con la tua voglia di vivere e di lottare.
   Un forte abbraccio. E mari di arcobaleni colorati.
                                                                                   Maruzza

3 commenti:

  1. Maria, non ci posso né ci voglio credere. Ho notato anche io da un po' la sua assenza, veniva sempre a commentare i miei post di arte perché diceva che erano i suoi preferiti. E da qualche giorno non lo faceva più. Io aspetto un suo commento, non è possibile quello che è stato commentato sul suo blog!

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    1. E poi i suoi post, anche gli ultimissimi, mi sono sempre sembrati pieni di speranza!
      E io pure continuo a sperare!

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  2. Ho letto le tue parole, quelle di Doc e quelle di Vero.
    Non frequentavo il blog in questione, ma è comunque una vicenda che mi ha colpita. Continuo a sperare anch'io, come Vero...

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