sabato 28 dicembre 2013

Il papa che mi piace

Nel ventre di Buenos Aires sulla metro di Jorge Mario Bergoglio. 
Stazione Bolivar, a due passi dalla cattedrale. Linea “E”, destinazione piazza Virrey. Si va verso una delle Villas Miseria, le borgate di baracche e case abusive che il futuro pontefice visitava regolarmente nel corso dei mesi. Il convoglio arriva lentamente con rumore di ferraglia, i vagoni ricoperti di graffiti. Fa caldo tra i pendolari assiepati. Intorno a Jorge c’è chi rimugina i suoi pensieri, fissa le pareti del tunnel scandite dalla luce al neon, ciondola la testa assonnato, guarda nel vuoto con lo sguardo rassegnato. Qualcuno, anche se giovane, porta negli occhi uno sguardo duro, feroce. A ogni fermata una scossa e uno stridio assordante di freni.Quaranta minuti di metro nel rimescolamento di razze, origini, storie che è Buenos Aires. Discendenti di spagnoli, italiani, giapponesi, cinesi, africani, tedeschi, francesi, autoctoni dell’America centrale, immigrati sudamericani di ogni specie. Impiegati attenti al bilancio familiare, giovani aggrappati a un’occupazione qualsiasi, masse sul filo della sopravvivenza. 
Bergoglio non usava né l’auto né l’autista, così come rifiutò sin dall’inizio il palazzo arcivescovile, scegliendo per sé due stanze al terzo piano della curia diocesana. Sapeva guidare, ma da primate d’Argentina ha scelto di immergersi nel flusso quotidiano della gente sui mezzi pubblici. Metro e autobus. A piazza Virrey risalgo i 35 gradini che l’ultrasettantenne si faceva con le sue scarpe ortopediche e l’anca indolenzita. Arrivo sotto una grande tettoia – aria afosa d’estate, fredda e umida d’inverno – in attesa della pre-metro, uno scalcinato trenino urbano che si inoltra verso le periferie. Ci vuole un’ora in tutto per arrivare a destinazione. Un’altra ora per tornare. E infinite ore durante l’anno per raggiungere i più vari luoghi dove era richiesta la sua presenza. Non c’è prelato di curia in Vaticano o cardinale o vescovo di piccola città di provincia disposto a sottoporsi a questa snervante routine. 
“La povertà s’impara toccandola” Spostarsi così non è una prova di ascesi, è uno stile di vita a contatto con l’umanità affannata di megalopoli. Nel ventre di Buenos Aires si sperimenta il groviglio di esistenze di una città, che oltre ai tre milioni di abitanti del suo nucleo ne ha altri dieci, che gravitano sul centro. Anzi, sui “centri” così variegati di una metropoli, in cui si passa dai palazzi, che riecheggiano la Parigi di fine Ottocento, ad eleganti edifici anni Trenta, modernissimi grattacieli in vetrocemento per finire nelle giungle di case popolari senz’anima e precipitare nella galassia delle baraccopoli. “Villa Ramon Carrillo” è l’ultima borgata abusiva in cui Bergoglio ha voluto impiantare una parrocchia. Case abusive lasciate a metà o cresciute per successive superfetazioni. A pochi metri dalla fermata del trenino urbano si interrompe la strada asfaltata, si entra in terra di nessuno, terra battuta e rigagnoli perpetui che odorano di fogna. Qui finisce la legge. Nella maggior parte di queste baraccopoli i taxi si rifiutano di entrare. 
Padre Bergoglio arrivava a piedi in queste borgate, tra gli sguardi degli abitanti ora affettuosi e festosi ora diffidenti. Strade in terra battuta piene di buche o dall’asfalto frantumato. Dove stazionano macchine fuori corso rappezzate mille volte, i bambini giocano accanto ai rigagnoli che odorano di fogna, una madre spulcia la figlia, i cani randagi girano da un crocicchio all’altro. Un labirinto di case malfatte, in cui sul primo piano intonacato se ne è costruito un secondo fatto di mattoni e poi un terzo. Balconi improvvisati, stanze non finite e senza tetto. Bidoni, scheletri di tavoli e letti buttati per strada. Al di là di un cavalcavia si raggruma una borgata ancora più precaria, si chiama Villa Esperanza. Vicoli stretti dove passa appena una persona. Su una cella di cemento spicca un cartello “Si vende”. Dappertutto le inferriate che costellano ossessivamente porte e finestre, verande e l’atrio minuscolo del verduraio. Anche l’edicola di san Gaetano, patrono del pane e del lavoro, è coperta da un reticolato di metallo così fitto che non si vede nemmeno l’immagine. “La povertà teorica non interessa, la povertà si impara toccando la carne di Cristo povero”, ha sempre sostenuto Bergoglio e lo ha ripetuto da papa ancora recentemente. Qui, spiega padre Pedro Baya Casal, 43 anni, che regge insieme ad un altro prete la parrocchia dell’Immacolata, Bergoglio veniva ogni anno per la festa della Vergine e poi in occasione di riunioni dei preti di borgata. E questo in ognuna delle varie baraccopoli di Buenos Aires. Veniva a piedi con la sua cartella, chiacchierava con la gente, partecipava alla processione, vedeva crescere i figli della donne che aveva cresimato anni prima. Una chiesa “ospedale da campo” Non aveva paura di entrare in strade dove droga e violenza scandiscono la giornata. “A volte ho sentito letteralmente le pallottole intorno a me”, spiega padre Baya. Ai funerali di un ragazzo ucciso in uno scontro tra bande, il prete – abbracciato dai coetanei piangenti della vittima – avvertiva il calcio duro della pistola sotto le loro giacche. “A tratti mi dico esasperato: ma cosa si può fare? Poi riprendo a lavorare…”.
 A un centinaio di metri dalla parrocchia la casa annerita del presunto responsabile della pallottola mortale testimonia la vendetta dei parenti dell’ucciso. Qui e nelle altre baraccopoli circolano armi che anche i giovanissimi si procurano facilmente e circola la droga pazza, il paco, estremamente a buon mercato e rapidissima nel provocare dipendenza. “Brucia il cervello”, dicono a Buenos Aires. Allucinato, il tossico deruba prima i parenti del poco che hanno, poi va per le strade e uccide per un nonnulla. Mentre sono in Argentina, leggo di una giovane madre, che spingeva la carrozzella del pupo, sgozzata in provincia perché difendeva il suo borsellino. Qui, al contatto con la miseria quotidiana – e non davanti alla televisione o ai convegni di sociologia – Bergoglio ha maturato la sua idea di Chiesa “ospedale da campo”. Padre Baya mi racconta che seguiva da vicino l’opera dei preti delle baracche. Convogliava in queste zone parecchi sacerdoti. Durante il suo periodo di guida delle diocesi ha raddoppiato da undici a ventidue la presenza di preti nelle Villas miseria. 
I poveri meritano il meglio, era solito dire”, racconta Baya. Concreto e determinato aiutava sistematicamente questi avamposti di umanità a realizzare doposcuola, centri per anziani, laboratori di formazione professionale, scuole di recupero, centri di riabilitazione per tossicodipendenti. In queste zone perdute Bergoglio ha forgiato la sua pastorale della misericordia. “Non dire mai domani, ci esortava, se qualche fedele viene a chiedere di confessarsi o un’estrema unzione”. E non dire “domani” se si tratta di ascoltare un genitore in difficoltà, aiutare economicamente una famiglia, portare qualcuno all’ospedale o facilitare un’operazione”. “Bergoglio – dice un altro celebre prete di borgata, padre Pepe Di Paola, nominato da lui primo vicario episcopale per le baraccopoli – non ha mai guardato alla realtà dalla prospettiva di Plaza de Mayo (la piazza della cattedrale e del palazzo presidenziale), ma dai luoghi del dolore, della miseria, della povertà: dal basso di una borgata o di un ospedale”. C’è un grande equivoco in Vaticano: Francesco non viene dalla “fine del mondo”. È il primo papa che viene dalle viscere pulsanti di una metropoli. Nessuno, da Pio XII a Benedetto XVI, ha mai fatto un’esperienza così drammatica e moderna.
                                    Marco Politi          (da “Il Fatto quotidiano”,  27 dicembre 2013)

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