giovedì 27 marzo 2014

La felicità, secondo Luca e secondo Lucio

     Siamo al II capitolo, cuore del libro, capitolo che Luca Grecchi titola “Che cosa è (e cosa non) è la felicità". 
L’autore ci ricorda che la parola felicità deriva dal latino felix , che a sua volta rinvia alla radice indoeuropea DHE che compare in parole come “figlio”, “femmina”, “fecondo" (...) Inoltre la parola felicità fa riferimento al rapporto di fecondità/allattamento, e dunque al rapporto del bambino con la madre, che è sempre un rapporto di festa. La stessa radice  DHE è presente anche nella parola “beato” (…) La lingua greca indicava invece tale concetto col termine eudaimonia, cioè con quella condizione di massimo appagamento derivante dall’aver avuto in sorte un buon demone come guida della vita. I due termini hanno un tratto in comune: in entrambi, infatti, la felicità viene pensata all’interno di un rapporto affettivo di dipendenza (dalla madre per i latini, dal demone per i greci)
    In queste due concezioni, secondo Grecchi, verrebbe rappresentata una corretta posizione di centralità della fragilità della condizione umana: è proprio infatti questa originaria condizione di fragilità che rende l’uomo un ente razionale, morale e simbolico, che solo nella relazione  consapevole, affettiva e comunitaria con altri uomini può giungere alla propria piena e armonica realizzazione, alla felicità appunto.
L’autore passa poi brevemente in rassegna le principali teorie della felicità che si sono nel tempo succedute. Mi piace intanto ricordare l’idea di Talete, secondo il quale era felice “colui che ha un corpo sano, una buona fortuna ed un’anima bene educata”. Nel mondo greco comunque si contrapponevano due posizioni: quella di chi riteneva che la felicità derivasse dal piacere e quella di chi riteneva che la felicità derivasse dalla virtù. Aristotele seppe porsi come grande mediatore: egli infatti affermò che gli uomini, per essere felici, necessitano sia dei beni esteriori (ad esempio una buona quantità di ricchezza che consenta di avere tempo disponibile per il pensiero e la buona vita), sia dei beni del corpo (una buona salute), sia dei beni dell’anima.
Trascurando il pensiero latino e medioevale, riportiamo il pensiero di John Locke, secondo cui la felicità è una somma algebrica di vantaggi esistenziali da calcolare in termini utilitaristici di costi e benefici.
Due grandi pensatori (vissuti tra il 1700 e il 1800), Kant ed Hegel affermarono, con accenti diversi che la condizione di felicità per l’uomo è un evento impossibile o altamente improbabile: secondo Kant perché l’uomo è un ente troppo mutevole per trovare una qualche forma stabile di appagamento; per Hegel perchè tale condizione sarebbe possibile solo all’interno di un ipotetico Stato perfetto.
Due poi, secondo Grecchi,  i dati salienti nelle concezioni odierne della felicità: il dato più rilevante è la spoliticizzazione del concetto di felicità, cioè il suo non essere  più pensata come condizione ideale dall’umanità; in secondo luogo il concetto di felicità è stato sempre più trascurato nella sua dimensione qualitativa, subendo addirittura una retrocessione dal piano spirituale a quello materiale nella concezione economicistica di benessere.
                                                                                    (continua ...)
(Grazie alla dritta di Giuditta, ecco il contributo di Lucio Battisti:
                                                                               

1 commento: