giovedì 19 giugno 2014

Tic-tac tra stragi e mondiali di calcio

     (Avrei voluto scriverlo io. Quasi tutto quello che scrive Roberto Alajmo vorrei scriverlo io.)

In America tutti quelli che hanno una certa età sanno dove erano e cosa facevano quando uccisero Kennedy. Sia il primo sia il secondo Kennedy. Oppure quando il primo uomo sbarcò sulla luna. E l’undici settembre, ovvio. Sono le tappe storiche che si combinano con la vita privata di ognuno e la spartiscono in modo che anche a distanza di tempo si possa distinguere un prima e un dopo. 
Per il maschio latino esiste un modo meno traumatico/ eroico di scandire l’esistenza: i mondiali di calcio. Ogni quattro anni il tempo batte un colpo, e il maschio latino è portato a sincronizzarsi con questa scansione. In fondo la vita di tutti gli italiani può intendersi suddivisa in blocchi quadriennali compresi fra un campionato del mondo e un altro. Prima di Italia-Germania (Messico) eravamo piccoli, dopo il rigore sbagliato di Baggio (Stati Uniti) siamo diventati vecchi. Con Lippi Primo (Germania) ci siamo innamorati, con Lippi Secondo (Sudafrica) ci siamo disillusi.
Un metodo di scansione del tempo, questo, che a noi siciliani dev’essere parso troppo poco articolato e drammatico, per cui ne abbiamo escogitato più o meno consapevolmente un altro, più consono alla nostra indole e in linea col problematico rapporto che intratteniamo con la morte. Il secondo metronomo che si sforza di incolonnare il nostro tempo è quello dei delitti di mafia. Non che soppianti il primo metronomo, ma lo affianca e lo raffina. Per dire: la mia generazione distingue molto precisamente un prima delle stragi e un dopo le stragi. Non c’è nemmeno bisogno di aggiungere «del ‘92», per quanto quell’annata rappresenta un trauma. Giusto in mezzo ai mondiali d’Italia e d’America, siamo diventati tutti più grandi/ vecchi/consapevoli/incazzati/ depressi/reattivi. Di sicuro i capelli di tutti i palermitani sono diventati più bianchi, nel 1992.
Nessun siciliano riesce a sfuggire a questo riflesso condizionato. Tanto che il ventennio e oltre che è passato da Falcone e Borsellino ci pare una specie di marmellata informe di eventi difficilmente collocabili temporalmente. Niente grandi delitti, niente senso del tempo. È la falsa benedizione che tocca ai siciliani in questi anni. Un lungo dopoguerra che ci sforziamo di scambiare per pace. Un periodo in cui la guerra l’abbiamo solo esportata in casa d’altri.
Dalla combinazione di queste due scansioni (mondiali più grandi delitti) si ricava che l’anno più annoso che si ricordi, almeno per noi siciliani, è il 1982. Impossibile dimenticarlo proprio per il crocevia di eventi tragici e ludici che andò a crearsi proprio allora. L’anno che tutti gli italiani ricordano come quello della metamorfosi di Paolo Rossi, da brocco irredimibile (nella fase preliminare) a implacabile goleador (nella fase finale), assume per i siciliani un sapore agrodolce che lo rende ancor più indimenticabile. Di nessun altro anno sappiamo riassumere l’incedere come per il 1982. Anno crudelissimo ma anche squisito, come tutti quelli in cui l’Italia diventa campione del mondo. Da quell’altalena di emozioni compresa fra primavera ed estate noi palermitani siamo rimasti segnati per sempre. Basta contestualizzare: la corsa a squarciagola di Tardelli (11 luglio) è incastonata fra il delitto La Torre (30 aprile) e il delitto Dalla Chiesa (3 settembre).
La vittoria ai mondiali di Spagna ebbe l’effetto di una rivitalizzazione nazionale che in Sicilia venne annacquata per il fatto stesso di coincidere con la stagione più cruenta della guerra di mafia. Un anno durissimo in mezzo ad anni durissimi, durante i quali i corleonesi rampanti segnavano il territorio di conquista marcando col sangue tutti gli angoli della città. Tutti ricordano sempre che il giornale L’Ora teneva il conto dei morti ammazzati nelle strade di Palermo. Tutti ricordano almeno un titolo: “La morte ha fatto cen-to”, quando venne raggiunta la cifra simbolica dell’ecatombe. Il riflesso condizionato delle istituzioni aveva assunto un ritmo forsennato, persino ridicolo: non si faceva in tempo a indignarsi per un delitto, e subito toccava indignarsi per un altro ancora più grave o feroce. (…)
Su tutto questo pulviscolo di cronaca campeggiano i due morti eccellenti, La Torre e Dalla Chiesa, di cui la Grande Storia si è fatta carico. A suo tempo, un paio di anni dopo i fatti, il regista Giuseppe Ferrara ha contato quei giorni torridi compresi fra fine aprile e primi di settembre, riassumendoli nel numero approssimativo di cento. “Cento giorni a Palermo”, si intitola il film con Lino Ventura. Ma un film non basta, e nemmeno cento giorni bastano per contenere questa città dove la tragedia è sempre contenuta nella commedia, che è contenuta nella tragedia che è contenuta nella commedia. Eccetera.
                                                           (Roberto Alajmo, "La Repubblica" )

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