giovedì 29 settembre 2016

Dalla parte di Lazzaro

Caravaggio: Le opere di misericordia corporali
 (...) La nostra società, dobbiamo dirlo molto banalmente, è divisa tra ricchi e poveri; certamente potremmo fare statistiche più raffinate e più precise, ma certamente è una società attraversata da profonde contraddizioni. (...)
Per evitare di fare o discorsi astratti o non impegnativi per noi, ecco, di fronte alla difficoltà che Gesù ci prospetta la sua stessa risurrezione potrebbe non essere sufficiente a convertirci; dice Gesù: “Anche se uno risorge dai morti non ascolteranno.” E la Chiesa stessa che è nata dalla resurrezione di Gesù, si è data purtroppo tante volte forme di questa separazione, considerando la ricchezza e la povertà un fatto naturale, anzi quasi un segno del favore di Dio l’essere ricchi e della condanna di Dio l’essere poveri. Siamo entrati anche in questi cortocircuiti lontani dal Vangelo!
Allora per evitare che noi lasciamo scivolare questa Parola, possiamo distinguere tre livelli di questo Vangelo: intanto il livello personale, se abbiamo fatto una scelta di povertà, oppure no, e qual è il nostro rapporto con i poveri della nostra società. Intanto quindi a livello personale, se abbiamo accolto la prima beatitudine del Vangelo di Gesù: “Beati i poveri”. Magari ci giriamo intorno, tendiamo a spiritualizzarla questa beatitudine … Ma il Vangelo di Luca dice “Beati i poveri” e Gesù si è fatto povero: non aveva neppure una dimora fissa dove poter essere incontrato, Gesù è vissuto per strada, è stato itinerante ... non sappiamo neppure se ce l’avesse una casa …
Il secondo livello è quello politico, anche se oggi non è neppure facile individuare partiti che abbiano fatto scelte di fondo o di parte per la povertà. Con quello che viene fuori di tanto in tanto – scandali a livello personale, fenomeni di corruzione, sistemi di mantenimento della casta (tutti i politici se la passano bene, anche quelli di opposizione), vantaggi personali, non è tanto facile. Non si tratta di scegliere un partito che ci interpreta, ma quello meno lontano da alcune nostre aspirazioni, possiamo scegliere il meno scandaloso, il meno compromesso perché è difficile ritrovarsi, identificarsi interamente in un partito. 
Comunque questo secondo livello è importantissimo perché dovremmo imparare a valutare la storia dal punto di vista dei poveri di questo mondo, perché è il punto di vista che ha scelto Gesù: i diseredati, i poveri, gli ammalati, quelli che vivono per strada, gli sfortunati, o meglio gli svantaggiati della società. Un punto di vista dal quale valutare se le scelte politiche stanno portando avanti i bisogni dell’umanità più deprivata oppure gli interessi consolidati che tendono poi a cumularsi ulteriormente.
C’è poi un terzo livello: quello della mondialità, sul quale non so cosa dirvi. Su questo livello siamo impari, quasi ci confondiamo, avvertiamo questo senso di impotenza. Questo livello mondiale poi non è lontano da noi, perché anche le politiche nazionali risentono degli orientamenti mondiali. Però non ho cosa potervi indicare, se non prendere atto che il vero peccato dell’umanità è questo. Abbiamo investito un sacco di risorse mentali ed etiche per combattere i peccati del sesto e del nono comandamento come se fossero l’unico peccato grave … Credo che faremmo bene a investire buona parte della nostra intelligenza a capire come far sì che migliori la vita su questa pianeta terra, in questo mondo che ci è stato affidato e che ognuno di noi deve contribuire a rendere più umano e più vivibile. Cercare di capire cosa si può fare a livello finanziario, relativamente agli investimenti in armi, relativamente alle sperequazioni che ci sovrastano e di cui spesso non ci rendiamo conto.
Ma il vero peccato, il vero diavolo è quello che rompe: diavolo deriva da dia-ballo, vuol dire colui che rompe: il diavolo rompe i rapporti, le relazioni tra le società, tra i popoli, tra le nazioni, tra i continenti, iniziando dal piccolo delle nostre relazioni personali. Se vogliamo fare tesoro di questa parola che Gesù ci sta consegnando non rinviamo l’esito alla fine, al giudizio finale, rischieremmo di rendere inutile oggi questa pagina. “Ride bene chi ride l’ultimo”, no, non è questo che ci interessa. Perché dobbiamo rinviare? Se possiamo ridere, sorridere sin da adesso il più possibile, tutti … perché non coltivare la nostra storia di uomini, umani e umanizzati perché viviamo relazioni che ci fanno bene. 
Questo desidera Dio per noi. Questa è una parabola che ci anticipa questo punto di vista di Dio, questo giudizio severo di Dio. Ma Dio vuole che noi cambiamo. Il piacere di Dio non è farci la sorpresa/trabocchetto alla fine – Hai sbagliato e ti mando dove dovrai soffrire – Non è questo che Dio desidera. La parabola è per noi oggi perché qualcosa possa cambiare: nel piccolo dei nostri atteggiamenti fondamentali e delle nostre relazioni ravvicinate, nell’ambito più impegnativo della politica, in quello difficilissimo della mondialità, e quindi della globalizzazione del pianeta.
Vogliamo chiedere al Signore che ci faccia trovare le strade giuste per stare meglio tutti, un po’ meglio tutti. E per imparare a guardare dal punto di vista che ha scelto Gesù Cristo, il punto di vista dei poveri, di chi soffre. Cosa fare per alleviare sofferenza, per rimuovere tristezza, per rimuovere disoccupazione, per promuovere creatività?

 (il testo, pronunciato a Palermo il 25.9.2016 nella chiesa di san Francesco Saverio, non è stato rivisto dall’autore, Cosimo Scordato: eventuali errori o omissioni sono della scrivente, Maria D’Asaro, che si assume pertanto la responsabilità delle imprecisioni e manchevolezze della trascrizione)



martedì 27 settembre 2016

Gli zingari e l’uomo nero

Joan Mirò
          I bambini – e non solo! – non vogliono staccarsi da luoghi e persone che danno loro gioia. Questo il dialogo, ascoltato qualche settimana fa in una spiaggia di Palermo, tra nonno e nipotina di sette, otto anni: - Dai, andiamo, è tardi: mamma ci aspetta – No. Voglio rimanere ancora a mare. –  Dobbiamo andare subito. Altrimenti vengono gli zingari e ti portano via. – Così la bimbetta, tra il dubbioso e l’impaurito, dà la manina al nonno e si incammina in silenzio con lui. Ci si chiede quale necessità o assurda valenza educativa possa avere la detta minaccia, peraltro umanamente e “politicamente” falsa e scorretta. Alle prese con i “no” dei figli, purtroppo è abitudine di tanti genitori minacciare, se non l’arrivo degli zingari ruba bambini, quello di un fantomatico uomo nero. A palese dimostrazione di un’odierna, diffusa “Caporetto pedagogica”: l’incapacità di contrastare in modo saggio e sereno i normali capricci dei bambini.  

             Maria D’Asaro:  “100nove” n.35 del 22.9.2016

domenica 25 settembre 2016

E vissero tutti felici e connessi?

  Forse non siamo ancora del tutto consapevoli della mutazione antropologica causata dall’avvento di internet e smartphone.  Ecco due articoli di Michele Serra che fotografano magistralmente la nuova realtà. (Ringrazio Massimo Messina che li ha proposti su FB)

          Nel corso di ogni singolo viaggio in treno tra Milano e Roma vengo a sapere, della vita dei miei compagni di viaggio, molto più di quanto sarebbe lecito e desiderabile. Si chiamano, in termini tecnici, “dati sensibili”. Pratiche di divorzio, business in corso, liti con i figli, malattie anche gravi complete di diagnosi e terapia, approfondimenti sul carattere di suocere e nuore, problemi di lavoro, progetti immobiliari. Tutto questo avviene non per mia volontà (mai stato pettegolo) ma perché almeno un passeggero su due parla ininterrottamente al telefono dei fatti suoi, ad altissima voce, concedendosi solo brevissime pause per riprendere fiato o per andare in bagno. Si va dal manager in perenne riunione alla mamma preoccupata, al padre che cerca di convincere la figlia di non iscriversi a Filosofia, al portaborse che contatta i suoi contatti, al lobbista che tesse la sua tela, al caciarone ordinario che dà appuntamento agli amici per la sera. Come sia possibile che tutte queste persone facciano, della loro privacy, carne di porco, mettendo a disposizione di almeno una decina di astanti i fattacci loro, è per me del tutto incomprensibile. È come se fosse caduto un argine naturale, come se fabbricassero i cessi senza la porta. Anche volendo sorvolare sul palese disturbo della quiete altrui, com’è possibile che una persona perda pudore e riserbo al punto da farmi sapere (è successo) che forse devono togliergli un rene?         (M. Serra - “Repubblica” 04.02.2016)

            Il fatto che in Francia si sia deciso di stabilire per legge un “diritto alla disconnessione” al di fuori degli orari di lavoro dovrebbe farci riflettere. Quel “diritto” parrebbe infatti talmente naturale da non necessitare di alcuna norma che lo sancisca. Le cose, nei fatti, sono più complicate. La connessione di tipo compulsivo viaggia nei due sensi: è sollecitata dall’esterno che bussa alla nostra porta ma al tempo stesso è cercata con tenacia da noi stessi, come se avessimo il timor panico dell’isolamento. Con effetti tra il comico e il patologico. 
Una signora con la quale ho rapporti di lavoro mi ha scritto questo sms: “Perché non ha risposto alla mia mail?”. Dispiaciuto di una mia eventuale distrazione, le ho domandato, sempre per sms, quando me l’aveva mandata. Mi ha risposto: “Un’ora fa”. La signora non aveva valutato l’eventualità che io, per un’ora filata, non avessi consultato la mia posta. Dev’essere di quelli che ogni cinque minuti — al massimo — frugano nello smartphone per sapere chi li cerca, e cosa vuole da loro. Non concependo la propria assenza come una possibilità, non concepiscono nemmeno l’assenza altrui. L’assenza sta diventando un lusso per pochi — come il silenzio. In forte sospetto di snobismo. Ma guarda quello, che non guarda lo smartphone da un’ora: chi si crede di essere?     (M.Serra - “Repubblica” 07.09.2016)



lunedì 19 settembre 2016

La scopa del sabato sera …

         
Van Gogh: Contadino che zappa
        Kayvan, arrivato a Palermo dallo Sri Lanka quasi vent’anni fa, non si chiede come passare il sabato sera e la domenica mattina: ogni sabato sera, alle 21, non ci sono pub o altri locali nel suo orizzonte, ma, dopo aver posteggiato il suo ciclomotore, tira su la saracinesca di un negozio di parrucchiere, dove spazza e lava i pavimenti, spolvera e rende brillanti gli specchi. Stessa cosa l’indomani mattina alle nove, in una carnezzeria. Non si sa quanto sia pagato, né se ha regolare busta paga. Ma, estate o inverno, il sabato e la domenica Kayvan lo si vede sempre, puntuale nel portare avanti il suo umile lavoro. Forse abbiamo qualcosa da imparare da quest’uomo paziente, che è anche riuscito a portare a Palermo la moglie e i due figli: Kayyan ci insegna cosa siano tenacia e sacrificio costanti. E quanto contino per il conseguimento del proprio obiettivo di vita.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     Maria D’Asaro:  “Centonove” n.34 del 16.9.2016

sabato 17 settembre 2016

I jeans di Bruce Springsteen

       Visitare gli USA non è alla portata di tutti. Silvia Pareschi – che traduce in italiano scrittori americani prestigiosi come Jonathan Franzen, Don DeLillo, Claire Messud, Zadie Smith, Cormac McCarthy - con I jeans di Bruce Springsteen, e altri sogni americani (Giunti, Milano, 2016, €15) ci offre un imperdibile viaggio virtuale negli States, attraverso un reportage autobiografico nell’America a stelle e a strisce, che inizia a bordo di un veicolo da lavoro, un pick-up rosso scuro che attraversa Skyline Boulevard “stretta striscia d’asfalto tra foreste e cielo che guarda da una parte l’imbruttita Silicon Valley e dall’altra l’oceano” e, con un geniale capovolgimento temporale, termina nell’estate del 1985, quando Silvia concludeva il suo primo viaggio negli USA con una rocambolesca traversata in autobus da San Francisco a New York, e da qui a Freehold, nel New Jersey, dove il sarto Ralph le donava un paio di jeans di Bruce Springsteen, cantante rock per cui la ragazza sedicenne andava in delirio. 
Col suo sguardo acuto e disincantato, che non ha perduto comunque la freschezza e la curiosità dei sedici anni, e col suo incalzante ritmo narrativo, trascinante come le funzioni gospel alla Glide Church, Silvia Pareschi ci prende per mano e ci fa condividere le sue esperienze: in California, nei pressi della residenza per artisti di Carl Djerassi, incontriamo un puma e la “wilderness”: “un luogo reale, concreto, dove (…) «la terra e la vita che la abita non sono in alcun modo vincolate dalla presenza umana, e dove l’uomo stesso è un visitatore non destinato a restare», respirando “il profumo della California, un po’ americano e un po’ mediterraneo, in cui l’aroma del legno rosso si mescola a quello della salvia, della resina e degli arbusti spinosi”. Con Silvia entriamo nella St. John Coltrane, battendo le mani al ritmo della musica jazz; per incamminarci poi in una marcia pacifista insieme a Jun-san, monaca buddista giapponese “con un asciugamano giallo annodato sopra la testa rasata, una giacca a vento gialla, calzoni da lavoro e stivali di gomma infangati”. A San Francisco visitiamo persino il Palazzo del Porno e conosciamo uno strano ordine monastico: Le Sorelle della Perpetua Indulgenza, a cui appartengono gay, donne e transessuali; nella Grace Cathedral assistiamo al funerale dell’Imperatrice di San Francisco: al secolo Josè Carria, celebre “drag queen” fondatrice dell’Imperial Court System, i cui membri assumono titoli nobiliari.
      Punto privilegiato di osservazione è quindi San Francisco, ormai residenza americana dell’autrice: “culla della new age e delle good vibrations”; “rimasta estrema e un po’ selvaggia come ai tempi in cui era la frontiera della corsa all’oro. Dev’esserci qualcosa nell’aria, la polvere delle ossa dei cercatori d’oro che si mescola al vento dell’oceano e crea un’alchimia che rende tutto estremo, libertà, follia, genio, ricchezza, miseria.” Una San Francisco divisa tra ricchi e poveri, bianchi e neri: dove “due bambini neri si divertono con un gioco pericoloso (in una città) dove molti bambini bianchi girano con il casco anche in casa, perché non si sa mai, gli spigoli”; e sui cui marciapiedi “scorre la lunghissima fila di gente che aspetta il pasto gratuito … e la strada è popolata da figure spettrali, gente con i vestiti stracciati e lo sguardo allucinato.” Infatti: “In un paese dove non esistono reti di sicurezza, dove quando si cade ci si fa male sul serio (…) perdere tutto e finire sulla strada è spaventosamente facile”. Il meglio che può capitare, visti i costi esorbitanti della Sanità, è che la gente comune per curarsi i denti vada in Messico o in India. 
     Perchè talvolta i sogni americani si trasformano in incubi: come per le 918 persone, vittime nel 1978 del fanatismo omicida del reverendo Jim Jones; come per gli abitanti di New Orleans, per i quali salvarsi dall’uragano Katrina – raccontato in modo magistrale attraverso l’odissea “noir” di Lillian e Arthur - fu anche un fatto di classe: “Andarsene era costoso, bisognava avere i soldi per l’albergo e la benzina, e, in una città dove il 22% della popolazione viveva sotto la soglia di povertà (…), la fuga non era alla portata di tutti.”  Alla fine si contarono quasi 2000 morti, in una New Orleans devastata dove “sotto un cielo di ardesia (…) spuntavano i tetti delle case … affollati di persone con le braccia disperatamente tese verso gli elicotteri che li sorvolavano indifferenti. (…) L’acqua … aveva liberato le bare dalle tombe, e adesso quella zona era diventata un cimitero galleggiante.”
     Grati a I jeans di Bruce Springsteen che con “calviniana” leggerezza ci hanno permesso di conoscere gli USA meglio di un libro di Storia, ci congediamo dalla nostra “narrastorie” col desiderio di altri racconti. Cara Silvia, a quando il ritrovamento di altri “jeans”?! 

                                                                    Maria D’Asaro:“Centonove” n.34 del 16.9.2016 pag.30

giovedì 15 settembre 2016

Quando amare vuol dire patire ...

      Oggi a Palermo – e non solo – ricordiamo il 23° anniversario dell’assassinio di padre Pino Puglisi per mano di sicari mafiosi. Ecco di seguito una sintesi dell’omelia di don Cosimo Scordato (pronunciata a Palermo nella chiesa da san Francesco Saverio domenica 4 settembre 2016) che ricorda come il sacrificio, spesso, sia la conseguenza dell’amore coerente e coraggioso …

"Care sorelle e fratelli, è un brano del Vangelo che si presta facilmente ad essere equivocato anche perché ci ripetiamo a vicenda frasi del tipo: “Devi portare questa croce” o “La tua croce è questa”. E sembra che la croce ce l’abbia lasciata Gesù o il Signore e quindi quella croce è benedetta e abbiamo soltanto il compito di portarla, anche nostro malgrado. Per fugare alcune ambiguità è utile che noi comprendiamo letteralmente quello che ci dice il Vangelo: una folla numerosa stava seguendo Gesù per andare a Gerusalemme (…) lo stanno seguendo perché Gesù ha parlato del Regno di Dio e sono convinti che ormai il tempo è vicino e quindi, da lì a poco, giungendo a Gerusalemme, Gesù finalmente instaurerà il Regno di Dio, comanderà lui e loro potranno fruire dei benefici di questo regno, che Gesù va ad inaugurare a Gerusalemme. Gesù allora dice: Ma cosa avete capito? Siete convinti che questa è una passeggiata? Che andando a Gerusalemme  ci accoglieranno e ci faranno festa e io sarò esaltato, messo in trono? Allora sappiate che – Gesù qui ha un presentimento, una quasi certezza – purtroppo quello che mi aspetta e ci aspetta, se vorrete venire con me, è che saremo rifiutati. 
L’annuncio del Regno di Dio, questa parolina così orecchiata da noi, significa che non abbiamo nessun re sopra di noi, Noi riconosciamo soltanto a Dio ogni bene, ogni ricchezza. Dire che solo Dio è Dio significa dire che nessun potere politico, religioso, sociale si può arrogare questa potestà di potere dominare gli altri. Nessuno. Anche se per secoli noi abbiamo benedetto regni ed armi. 
Ebbene Gesù sente che questo annuncio di libertà che fa crollare tutti i poteri della terra – tutti liberi senza padroni, soltanto  relazionati a Dio come Padre – non è gradito a nessuno; rompe le uova nel paniere. E quindi dice: Guardate che io continuerò ad annunciare questo Vangelo di libertà, ma tutti i poteri si attrezzeranno per rifiutarci, per condannarci e per metterci in croce. Mi tirerò indietro sull’annuncio di libertà? Scappo? O mi sono espresso male? 
No, fino alla fine Gesù continuerà a dire il Regno di Dio è vicino ed è questo regno che dobbiamo avvicinare a noi mettendo in crisi tutti gli altri regni e tutte le altre forme di regalità e di potere che hanno sempre, o che rischiano sempre, di dominare le persone. Gesù sta dicendo: guardate che se volete venire con me dobbiamo attrezzarci a questo rifiuto. 
Gesù non sta cercando nessuna croce, la croce gliela imporranno perché i poteri costituiti si organizzeranno per buttarlo fuori, per calpestarlo. 
(…)Siamo per una relazione da figli a Padre nei confronti di Dio? Di Dio che vuole la nostra felicità, la nostra gioia, di Dio che ci vuole promuovere da ogni situazione che ci offende, che ci mortifica, che ci blocca, che impedisce la nostra crescita, la nostra piena realizzazione? … Allora, ci scontreremo con tutte quelle altre forme di resistenza che non accettano questa libertà, perché qualcuno vuole dominare sempre su qualche altro. Il vero peccato originante di tutto è il potere!  (…) L’impatto di questo annuncio di libertà e della regalità di Dio, che è una regalità di amore e di servizio, con tutte le false regalità di questo mondo è un impatto pesante, duro. Ma Gesù non fa un passo indietro, non si tira indietro, anzi porterà fino in fondo il suo annuncio, accettando  e mettendo in conto anche di subire un torto enorme. Lui annuncia libertà, gli altri lo inchioderanno in una croce e lo chiuderanno in un sepolcro. Noi non siamo per il sepolcro. Il Regno di Dio ci convoca a questa libertà, a questa gioia di esserci, una gioia da potere condividere e più la condividiamo più si arricchisce anche per noi.
Nel regno di Dio, solo ciò che doniamo è gradito al Signore. O quello che sappiamo accogliere anche dagli altri, umilmente, riconoscendoci anche bisognosi di quello che ci viene dagli altri. (…). 
Ci stiamo preparando a ricordare padre Pino Puglisi. È stato minacciato, ma non ha fatto un passo indietro, non è scappato. È rimasto lì portando avanti il suo annuncio. Vi ricordate che ha scritto il commento al Padre nostro opponendo, dall’altro lato, la figura del padrino nostro? Gli altri lo hanno capito bene, troppo bene. Credevano di poterlo mettere in silenzio, come hanno fatto altri nei confronti di Gesù. Ma noi vogliamo rialzarci continuamente, con il Vangelo nelle mani, e ... lasciarci attrarre da questa libertà che è amore, è festa, è gioia che il Signore ci vuole continuare ad offrire."

 (il testo non è stato rivisto dall’autore, Cosimo Scordato: eventuali errori o omissioni sono della scrivente, Ornella Giambalvo, che si assume pertanto la responsabilità delle imprecisioni e manchevolezze della trascrizione)

martedì 13 settembre 2016

Sorellina





Sorellina,
dove sei?
Ferita ancora aperta
Il tuo sorriso oscurato.
Arrivederci?  

domenica 11 settembre 2016

La bicicletta rosa

        Vent’anni fa, i genitori di una bimbetta ormai cresciuta non sapevano più che farsene della piccola bicicletta rosa da lei usata. Poiché vicino casa loro abitava una famiglia molto povera, composta da mamma, papà, una bambina dagli occhi verdi e un bambino con handicap, una sera i due lasciarono la bicicletta dietro la porta di casa della famiglia indigente, con un semplice biglietto. Dall’indomani, e per molto tempo, la bambina fu vista pedalare nel quartiere con quella bici rosa. Poi la ragazzina divenne una ragazzona dallo sguardo sfuggente e di lei nel rione non ci fu più traccia. Ma non della bicicletta, che, qualche settimana fa, è stata vista ancora in azione: a usarla però è il canuto papà che, purtroppo, può permettersi solo quella minuscola bici come “rapido” mezzo di trasporto.  Tutto questo accade nel 2016, a Palermo, mentre in altre famiglie magari si acquistano di continuo smartphone nuovi.
                                                                        Maria D’Asaro:  “Centonove” n.33 dell’8.9.2016

martedì 6 settembre 2016

San Francisco

Silvia Pareschi (foto dal suo blog ninehoursofseparation)
     "Lo dicono tutti: da quando sono arrivati i techies, San Francisco non è più quella di una volta.
Ora, tanto per cominciare, bisognerebbe capire cosa si intende per “quella di una volta”. La Beat Generation risale ormai a due generazioni fa, e sono passati cinquant’anni da quando gli hippy si divertivano con le droghe leggere prima di finire massacrati dall’eroina. Da allora la città ha cambiato pelle ancora tante volte, sempre fedele alla sua vocazione di frontiera, (…) San Francisco è rimasta estrema e un po’ selvaggia come ai tempi in cui era la frontiera della corsa all’oro. Dev’esserci qualcosa nell’aria, la polvere delle ossa dei cercatori d’oro che si mescola al vento dell’oceano e crea un’alchimia che rende tutto estremo, libertà, follia, genio, ricchezza, miseria. E tutti vengono qui attratti dall’estremo, ma dopo che hanno smesso di diventare beat, hippy o predicatori folli sono tornati a cercare quello che cercavano i cercatori d’oro: la ricchezza. (…) 
Oggi i gonfiatori della bolla hanno un nome: techies. Per gli abitanti della San Francisco pre-bolla, i techies sono i giovani automi che lavorano per i leviatani della tecnocrazia e guadagnano stipendi sproporzionati a quelli della gente in carne e ossa. I techies sono i responsabili della follia immobiliare che ha trasformato la città in un dormitorio per ricchi. I techies sono gli occupanti dei pullman privati dai finestrini oscurati, i famigerati “Google bus” che rubano le fermate agli autobus puzzolenti e ritardatari del trasporto pubblico. La frontiera di oggi, il nuovo esperimento in atto nel luogo dove nasce il futuro, è la corsa alla tecnologia che sostiene di voler rendere il mondo un posto migliore, ma che qui, per il momento, ha solo contribuito a spazzare via la classe media e a creare un mondo brutalmente diviso a metà tra ricchi e poveri."

(da: I jeans di Bruce Springsteen, e altri sogni americani (Giunti, Milano, 2016, €15) di Silvia Pareschi: imperdibile raccolta di storie che, sotto una veste scanzonata e leggera, ci svela dell’America a stelle e a strisce molto più di un libro di Storia.
Leggere per credere! Segue recensione)


venerdì 2 settembre 2016

Il villaggio dei balocchi

     Se si è ospiti di un villaggio turistico, si ha il dovere di divertirsi: la parola, derivante dal latino “diverto” che significava allontanarsi, separarsi, oggi indica il “congedo” da occupazioni e trantran quotidiani. Ma il divertimento proposto dagli animatori del villaggio è a senso unico: balletti a tutte le ore, gioco-aperitivo, ridicoli giochi da spiaggia che, scimmiottando le Olimpiadi, sono battezzati “agostiadi”; senza far mancare il tormentone della colonna sonora, nei giorni feriali sino all’1 di notte, nei festivi sino alle 2 e oltre. Ci si chiede se si esca ritemprati da vacanze così chiassose e prive di stimoli se non demenziali. Una proposta allora per i formatori degli animatori turistici: inserire giochi che sollecitino la mente, oltre che i muscoli delle gambe. E ritmi sonori che rispettino chi, a mezzanotte, vorrebbe dormire perché l’indomani vuole “divertirsi” contemplando la natura, fare in silenzio una passeggiata, e magari leggere un libro.
                                                                         Maria D’Asaro: “Centonove” n.32 dell’1.9.2016