mercoledì 30 marzo 2016

Non più lapidi, ma aiuole fiorite

       Già dalla strage di Ciaculli, commemorata con una stele nell’omonima piazza dove, nel 1963, morirono sette appartenenti alle Forze dell’Ordine per l’esplosione di una Giulietta carica di tritolo, le vittime di mafia sono ricordate a Palermo con delle lapidi: così serbiamo memoria del procuratore capo Gaetano Costa, del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, del capo della Squadra mobile Ninni Cassarà ucciso con l’agente Roberto Antiochia, del consigliere istruttore Rocco Chinnici assassinato con il portiere e i due uomini della scorta, per citare solo alcuni nomi delle tante, troppe vittime della violenza mafiosa. Dopo le stragi del 1992, Cosa nostra non ha commesso più omicidi eccellenti; ma altre steli continuano a spuntare in città: ora riguardano persone uccise in incidenti stradali o in omicidi comuni. La speranza, dopo i lunghi anni di passione, è che a Palermo diminuiscano i morti per incidenti o violenza umana e alle lapidi subentrino aiuole fiorite.
                                                       Maria D’Asaro:Centonove” n. 12 del 24.3.2016

lunedì 28 marzo 2016

Vivo?!


      Entrare nel mistero della notte santa significa credere nell’impossibile: (...) fino ad un certo momento c’è la tristezza, la tristezza di queste donne che rappresenta in fondo la tristezza della nostra umanità, di tutte le mamme e di tutti i papà di famiglia quando toccano con mano che non c’è più niente da fare, quando la situazione umana è irreparabile, quando ci sembra impossibile che qualcosa possa cambiare! Pensiamo ad esempio anche agli ultimi attentati, ma pensiamo a cose molto più sommesse che compromettono la serenità dei popoli, anzi che la inquinano continuamente, ai tanti fenomeni che compromettono la nostra vita. 
Queste donne ci rappresentano, compiono un gesto molto bello: quello di andare a profumare un cadavere – il rispetto per i morti, almeno questo non vorremmo che fosse toccato – andarono a profumare il cadavere il giorno dopo, perché il sabato non si potevano muovere per motivi di legge, non potevano fare questo ossequio; e fino a qui la tristezza. 
Poi cambia l’atmosfera, compaiono due dal cielo a dire, anche un po’ scherzosamente e sicuramente con tanta gioia: “Ma come mai siete qua? Ma non lo avete capito? C’è un equivoco! Ma non lo sapete che Gesù è vivente? Ma non ve lo ricordate come è stato vivente in tutta la sua vita? E anche nella sua morte? Voi pensavate, allora, che lui fosse un morto fra i morti? Non è così!” 
Gesù è vivente fra i viventi, per dare vita. Tutta la vita di Gesù è nel segno dell’impossibile: i malati che guariscono, il lebbroso che viene risanato, lo storpio e il paralitico che si mettono a correre e a saltare, il morto che torna in vita, le donne perdute che vengono ritrovate e riammesse con la loro dignità, i peccatori che vengono abbracciati, i lebbrosi che vengono toccati, anzi, abbracciati da Gesù; tutte cose considerate impure dalla legge, perché il  malato è un condannato di Dio, la morte e la malattia sono condanne di Dio, tutto è una condanna di Dio. 
Gesù infrange tutte le regole, incluso l’osservazione del sabato e il rispetto del  tempio. E lui vive, si propone come Dio della vita, non il Dio dei morti o dei moribondi. E la vita ce la fa sperimentare, come abbiamo accennato attraverso il Vangelo, che dobbiamo imparare a rileggere continuamente.E Gesù vive anche la sua morte ad occhi aperti dicendo “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Fa finta di non capire, perché sappiamo ciò che facciamo; ma lui dice non sanno quello che fanno, non si rendono nemmeno conto del danno che si fanno loro stessi. “Oggi sarai con me in paradiso” detto al ladrone. “Tutto è compiuto, Padre nelle tue mani affido la mia vita”. 
       Tutta la vita di Gesù è vita ed è resistenza alla morte e a tutte le forme di  morti quotidiane che, appunto, negavano e rinnegavano la nostra umanità ora perché malato, ora perché avevano sbagliato, ora perché era storpio, ora perché era pazzo o indemoniato; tutti venivano  considerati perduti! Gesù vive da vivo e ci rende possibile la vita che invece noi a volte ci rendiamo impossibile e la rendiamo impossibile anche agli altri; noi ce la rendiamo impossibile a partire dalle leggi, a partire dai mille muri che alziamo. Gesù attraversa la morte da vivo. Qui ci vorrebbe una bella risata liberatoria, qui dall’ambone. L’ambone è stato inventato dai cristiani non solo per un motivo ornamentale e funzionale, ma simboleggia il sepolcro vuoto, dove l’Angelo proclama il Vangelo (...)
       Questa sera ci vogliamo portare dentro il cuore questo annuncio ed è l’unica cosa che ci compete come cristiani: i cristiani non hanno altri compiti dinnanzi al mondo, non devono insegnare niente agli altri, non devono dire come fare le leggi dello stato, non devono insegnare cosa è la famiglia. Imparino insieme con gli altri, attraverso la storia anche faticosa, attraverso la ricerca, attraverso il cammino con gli altri. L’unica cosa che devono fare, se la sanno fare, è annunciare che Gesù è il vivente e che la tomba è vuota. (...) 
      E Gesù risorto ci interpella continuamente a fare gesti di vita, a generare novità. Per favore, non condanniamo le novità, tutte le novità hanno a che fare con il Risorto. Il segno della novità all’inizio ci sgomenta, invece poi ci ritroviamo a dire “meno male”. Pensate alle scoperte in campo scientifico, in campo medico-sanitario. La ricerca orientiamola al sevizio dell’uomo. Sperimenteremo anche così la resurrezione, come la sperimenteremo anche nei piccoli gesti quotidiani: risolleviamo una persona dalla sua tristezza, dalla sua angoscia. 
       Questa è risurrezione, care sorelle e fratelli. I piccoli gesti che siamo invitati a scambiarci come frutto dei questo evento completamente aperto, di questa tomba scoperchiata. Gesù risorto è in mezzo a noi questa sera, più del solito; è dentro di noi più del solito. Non ce lo facciamo sfuggire. La sorpresa è lui, l’uovo di pasqua è il Risorto; è sorpresa che ci continua a sorprendere. Non pretendiamo mai di possedere Dio, semmai essere in cammino permanente verso di lui per scoprire  orizzonti sempre più belli della sua vicinanza a noi.

 (il testo, pronunciato durante la Veglia di Pasqua nella chiesa di san F.Saverio a Palermo, non è stato rivisto dall'autore, don Cosimo Scordato: eventuali errori o omissioni sono della scrivente, Ornella Giambalvo, che si assume pertanto la responsabilità delle imprecisioni e manchevolezze della trascrizione)


     

sabato 26 marzo 2016

Via Crucis

       Con un pensiero alle vittime delle guerre, delle persecuzioni, del terrorismo, delle mafie, dell’infinita lotta per la libertà a la giustizia: a tutti i crocifissi del mondo.





         La sensazione è difficile da descrivere. Non è ammirazione, o meglio non solo. Non è incredulità, o meglio non solo. 
        Piuttosto ci si sente gnomi davanti a lui, a Reginald Green, l’uomo che da 23 anni ci insegna cos’è la grandezza dell’animo umano. Gli hanno ammazzato il figlio Nicholas, per errore in un agguato sulla Salerno- Reggio Calabria, glielo hanno ammazzato che era un bambino, mentre andavano tutti felici in vacanza. Lui, Reginald, non ha mai ceduto alla rabbia e ha risposto al più atroce degli atti di egoismo, l’omicidio, col più meraviglioso degli atti di altruismo, la donazione degli organi del figlio. Era il 1994 e un pensiero diffuso in Italia era ancora che l’espianto costituisse una sorta di profanazione del defunto. Invece lui disse: «Di Nicholas avrei voluto donare anche le lentiggini». Poi tornò quasi ogni anno in Italia, in Sicilia, in Calabria, nei luoghi di quell’atroce ricordo. Tornò non per prendersi applausi, ma per rincuorare le genti: «Non è stata la Calabria a premere il grilletto».
          Quanto ci sia di religioso in questa sua dedizione per le umane genti non è dato saperlo. Quanto ci sia di irresistibilmente sacrale è prezioso spunto di riflessione per chi lo ha incontrato o ne ha letto. Reginald Green è un uomo come nessun altro, perché nessun altro ha saputo dimostrare al mondo che la sorte avversa non si maledice, si affronta con la solida compostezza dei sentimenti. Che non serve un Cristo in croce per fare una messa. Basta il ricordo di un bambino di sette anni che voleva «fare tutti i mestieri del mondo». Ecco perché ci sentiamo gnomi, indecenti nel nostro imbarazzo, dinanzi all’uomo che insegna il coraggio senza mai nascondere una lacrima.
                                                                                                                G. Palazzotto, "La Repubblica", 05.02.2016


mercoledì 23 marzo 2016

Le arance della salute

        I libri di Storia ci ricordano che, sino alla fine del 1800, molti si ammalavano di scorbuto, malattia dovuta alla carenza cronica di vitamina C. Ne erano soggetti soprattutto i marinai che, costretti a navigare per mesi, erano privi della quantità necessaria della preziosa vitamina: infatti lo scorbuto veniva detto anche “morbo dei marinai”. Oggi per fortuna tale patologia non esiste più. E’ triste sapere però che molti agrumi in Sicilia non saranno raccolti perché, sia per l’abbondanza di frutti da parte degli alberi generosi sia per la spietata concorrenza dei prodotti esteri, raccoglierli non è redditizio. Fa piacere sapere allora che un coltivatore palermitano ha donato le sue arance a volontari che, col ricavato, aiuteranno persone in difficoltà, soprattutto extracomunitari. Che bello poi che il gruppo scout Agesci di Palermo 15 si sia offerto di raccogliere i mandarini del giardino di un monastero, ricavandone liquori, marmellate e ottimi dolci!
                                                              Maria D’Asaro: “Centonove” n. 11 del 17.3.2016

domenica 20 marzo 2016

Domenica delle Palme: la passione che serve

      "Qualche parola soltanto perché la Passione del Signore si commenta da sé e parla al nostro cuore, sfaccettando questo volto della nostra umanità che accompagna Gesù alla croce: tutti aspetti diversi di una nostra umanità che è capace di morte, di dare morte. E di scontrarsi con questo volto, quello di Gesù, che invece ci vuole dare vita, e ce la dà sino alla fine.
Voi sapete che i quattro evangelisti fanno finire la Passione di Gesù con parole diverse: Matteo e Marco chiudono la passione con quel ritornello che abbiamo citato dal salmo 21: Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato.  (...) Matteo e Marco hanno sigillato così anche tutti i nostri interrogativi dinanzi a Dio, quando abbiamo un senso di abbandono.
Luca, invece, attenua questa sofferenza, la attenua perché mette in bocca a Gesù parole una più bella dell’altra. La penultima parola è che Gesù, innalzato sulla croce, dice: Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno … Gesù fa finta di non capire quello che siamo. Dice che siamo inconsapevoli tante volte di quello che noi facciamo, quando ci facciamo del male. Oppure l’ha capito per davvero: noi non ci rendiamo conto del male di cui siamo capaci. E Gesù dice: Padre, perdona loro … Questa condizione non lo separa dal Padre, ci include col suo atteggiamento di perdono, ci include in questa relazione col Padre: Niente ci può separare da Lui, neppure il nostro rifiuto – poi commenterà Paolo.  (...)
E l’ultima parola è per quell’assassino, che era accanto a lui. Come a dire: La tua vita ormai è finita, tutto potrebbe chiudersi qui, nella condanna che gli uomini ti hanno inflitto … Eppure c’è ancora una possibilità: fino alla fine Dio farà l’impossibile per farsi varco dentro il nostro sepolcro, per inondarci della sua luce, per darci la sua vita: Oggi sarai con me in Paradiso.
Ed è qui che si chiude la Passione secondo Luca. Dicevamo all’inizio che Gesù era stato acclamato come figlio di Davide, come l’imperatore che finalmente deve comandare su tutti. Mentre nel Vangelo di Luca (...) Gesù viene appellato come il figlio dell’uomo, fino alla fine il figlio dell’uomo deve molto patire: se deve stare con gli uomini deve avere tanta pazienza con la nostra umanità.
Ed è qui che Gesù ci dà il suo Vangelo, la sua bella notizia: Lui non è figlio del re, non è figlio di Davide, non è il supremo dominatore che si impone sulla nostra umanità, ma è il figlio dell’uomo che ha voluto essere dentro e accanto alla nostra sofferenza, accanto anche al nostro rifiuto. Tutto questo non è sufficiente per neutralizzare, per annullare la sua passione di amore per ciascuno di noi.
Ed è questa la passione che noi celebriamo. Non la passione come sofferenza, ma la passione d’amore che rende Gesù capace di subire, accettare e superare anche la passione/sofferenza. Non ci interessa la sofferenza: ci interessa la sua passione di amore. 
Ed è quella che stiamo celebrando, quella che è ancora viva, quella che sopravvive anche alla morte e che poi chiamiamo risurrezione: cioè l’amore che non soccombe, l’amore di Dio che non soccombe alla morte. Ed è l’amore che vorrebbe comunicare anche a ciascuno di noi. Ma qui siamo nel miracolo più bello e più grande, dobbiamo solo attrezzarci ad accoglierlo e farlo nostro."

 (il testo, pronunciato il 20.3.2016 nella chiesa di san Saverio a Palermo, non è stato rivisto dall'autore, don Cosimo Scordato: errori o omissioni sono della scrivente, Maria D’Asaro, che si assume pertanto la responsabilità delle eventuali imprecisioni e manchevolezze della trascrizione)

venerdì 18 marzo 2016

Antigone: la parità che serve


Un testo imperdibile, che dà parole e sostanza all'auspicio di donne e uomini di buona volontà … (Seguirà recensione.)

           "Si tratta – è la lezione di Antigone – di cambiare radicalmente le forme del vivere insieme tra donna e uomo nella città e nella casa: si tratta di avviarsi verso un reciproco, rispettoso, costitutivo e interessato ascolto dell’altro. L’attualità di Antigone è in questo ricordare – pagando di persona – che la città appartiene anche alla donna, come la casa appartiene anche all’uomo. E’ nel ritrovare nuovi spazi di relazionalità che includano il femminile e il maschile che si può inaugurare un ordine veramente nuovo. Questo è (…) il compito assegnato alla condizione umana dopo secoli di scissione tra il femminile e il maschile. La hybris dell’autoreferenzialità porta distruzione e morte. Antigone è la cifra di ogni rifiuto del pensiero unico, di ogni pretesa di qualsiasi uomo di parlare in nome di Dio. 
L’ordo amoris richiede di ripensare la donna nella città e l’uomo nella casa. Quando la città, le civiltà saranno pensate al femminile o, meglio, al ‘femminile-maschile’ scopriremo possibilità inedite di risposta alle domande della polis: come coniugare gli interessi degli uni con quelli degli altri? E’ ovvio che questo richiede che la presenza della donna non sia episodica o aggiuntiva, ma venga percepita come costitutiva del pensiero politico (…). 
Giusi Nicolini - Sindaco di Lampedusa
Far risuonare nella città la voce dei corpi morti, di coloro che non hanno voce, è passione spontanea e vibrante del corpo femminile, fatto per custodire la vita nel tempo del silenzio. 
Come ci insegna la storia, la città governata solo da maschi (…) imbocca facilmente le strade della prevaricazione e della morte. Sembra che il futuro della città o sarà femminile o non sarà: la città ha estremo bisogno della presenza della donna per essere ripensata nella dimensione dell’oikos, e cioè degli affetti. (…) 
E quando la donna varca la soglia della città, l’uomo ritorna a casa. (…) La presenza, l’avvicinamento (anche fisico) dei padri con i figli, anche in tenera età è – e sarà – una delle novità più luminose e feconde della postmodernità.(…)
 Antigone non è rimasta sola. Quante vite, quante donne debbono essere sacrificate prima che la città apprenda la legge non scritta nella polis, ma inscritta nel corpo di ogni donna: “Sono nata non per odiare, ma per amare”? (verso 523). E’ chiaro, allora, che non è la donna ad avere bisogno di andare nella polis per realizzare pienamente se stessa, ma è la polis che ha necessità della donna per diventare (più) umana."

da:  La Grazia dell’Audacia, per una lettura gestaltica dell’Antigone, di  Giovanni Salonia (Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2012, €8, pagg. 28/31)

martedì 15 marzo 2016

Purity

    - Oh, micetta, come sono contenta di sentire la tua voce, disse la madre della ragazza al telefono. – Il corpo mi tradisce di nuovo. A volte penso che la mia vita sia solo una lunga serie di tradimenti corporali.
- Non è così per tutti? - disse la ragazza, Pip. Ultimamente chiamava la madre a metà della pausa pranzo alla Renewable Solutions. Ciò le procurava un po’ di sollievo dalla sensazione di non essere adatta a quell’impiego, di avere un impiego al quale nessuno poteva essere adatto, o di essere una persona inadatta a qualunque tipo di impiego; e poi, dopo venti minuti, poteva dire con sincerità di dover tornare al lavoro ...

      Un “lead” intrigante per un libro che sarà bello leggere (e magari recensire): Purity di Jonathan Franzen, (Einaudi, Torino, 2016, €22), traduzione di Silvia Pareschi. 
Ecco cosa scrive Silvia Pareschi su Purity e su Franzen:

       "Con Franzen, per me, è sempre stata una questione di identificazione. Identificazione con il suo stile, con quei periodi lunghi e complessi, piuttosto atipici per uno scrittore americano, che ogni volta affronto con un gusto quasi enigmistico per la ricomposizione della sintassi all’interno del senso. Con le sue parole nitide, mai scelte a caso (– Come hai reso quel «Pussycat» all’inizio di Purity? – mi ha chiesto mentre stavo lavorando alla traduzione. – Micetta, – gli ho risposto. E lui: – Suona un po’ strano in italiano? – Sì. Non sono molte le madri che chiamano la figlia «micetta». – Bene. Lo stesso vale per «pussycat» –. Sollievo. La prima parola del libro aveva ricevuto la sua approvazione). Con le sue idee che ormai, dopo tanti libri tradotti e tante conversazioni, mi scivolano addosso come un vestito comodo, in cui mi sento a mio agio" … (da qui)

sabato 12 marzo 2016

Quote rosa

Laura Boldrini: Presidente Camera dei Deputati

                 La parità, ammoniva anni fa il giornale satirico “Cuore”, non vuol dire fare le stesse stronzate. Purtroppo la maggiore presenza di donne in Parlamento e al Governo non ha cambiato in modo significativo i contenuti della politica: ci saremmo aspettati più attenzione per la pace, la giustizia sociale e un accento più forte sui temi della tutela dei più deboli e dell’ambiente; avremmo voluto maggiore coerenza tra mezzi e fini e un netto rifiuto del trasformismo e della corruzione. Non è andata così: l’ex assessore regionale alla Sanità Lucia Borsellino, che ha denunciato imbrogli e corruzione nella gestione della Sanità siciliana, è stata purtroppo costretta a lasciare la politica attiva. Forse le quote rosa faranno davvero la differenza quando le donne ‘scomode’ non saranno emarginate; e quando la presenza femminile sarà capace di promuovere una politica rinnovata nei metodi e nei contenuti, vicina ai bisogni e alla cura delle persone.

                                                                  Maria D’Asaro: “Centonove” n. 10 del 10.3.2016




 



martedì 8 marzo 2016

Antigone: il potere che serve …

Impariamo da Antigone ad agire al femminile per resistere al potere ingiusto, secondo la lettura gestaltica che ne fa il prof. Giovanni Salonia nel testo La Grazia dell’Audacia (Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2012 €8).
Antigone e Ismene - Rappresentazioni classiche 2013, Siracusa
     Al potere che sfigura e annichila la relazione siamo chiamati a sostituire (…) il potere ‘del’ contatto e il potere ‘dal’ contatto. E’ questo in fondo il potere di Antigone, la signoria che la vergine di Tebe oppone al suo signore arrogante.  E’ dal contatto, dalla storia dei contatti che hanno fatto il suo corpo, che Antigone trae la forza per opporre il proprio diritto e il proprio potere al nomos vendicativo di Creonte. La tragedia di colei che era «nata per amare» (v. 523) svela però allo spettatore la sorte ben più amara di chi vive il potere come arbitrio e insolenza, distruggendo la vita degli altri e disdegnando la legge più forte di ogni altra, quella scritta nell’humus inaccessibile del nostro con-esserci. Chi si pone dinanzi all’altro da conquistatore demolisce il mondo della vita dinanzi a sé e non è soggetto di piacere inesausto, bensì di infelicità e smarrimento. (…) Antigone altresì ci insegna (…) che solo se costruita dentro la relazione, solo se condivisa e costituita nel contatto l’autorità davvero si impone ed esercita un potere riconosciuto e liberante.
(prefazione del prof. Antonio Sichera pagg. 8-9).
         Antigone è colei che resiste. Per definizione (…) ella è colei che è ‘contro’. (…) Antigone è la capostipite di tutti (tutte) coloro che resistono. (…) In lei ritroviamo un suggestivo e antico destino della donna: essere ‘anti’, essere ‘contro’ (…) la resistenza come destino della donna. Paritaria certamente (…) ma di una parità che richiede l’essere di fronte, il fronteggiare. E’ proprio a questo destino della donna, al suo essere ‘contro’, è affidata la custodia dell’ordo amoris. Antigone, con fierezza regale, trasgredisce e si oppone a Creonte in un confronto in cui esplode la diversità ‘tragica’ dei due punti di vista (…) Antigone … con determinazione e audacia tutte femminili nega che la legge del monarca coincida con quella degli dei. Si appella alle leggi non scritte, al diritto che dimora nel grembo dei cuori, nel corpo delle donne. (…)
Antigone si oppone e resiste a Creonte anche sapendo di andare incontro alla morte. (…) Lei sola ha il coraggio di trasgredire, cioè di andare oltre: di dire la parola che è salvezza per la città e condanna per sé. (…) Solo perché lei sacrifica i suoi affetti più cari non scomparirà nella città il diritto degli affetti. Solo perché lei trasgredisce le leggi della polis (maschile) potrà essere salvato il diritto dell’oikos (femminile).
(Giovanni Salonia: pagg. 13-14-15-16-17)

In tema di resistenza, una stupenda poesia di Erri De Luca, dedicata a un resistente partigiano iugoslavo: Ante Zemljar (ringrazio Slec, da qui. )

lunedì 7 marzo 2016

Il mestiere delle armi

             Il 29/1 scorso a Carini, paese vicino Palermo, mentre è a casa di parenti, un bimbo di 4 anni, incuriosito da un fucile appeso alla parete, chiede allo zio di mostrarglielo. Convinto che sia scarico, l’uomo prende il fucile: ma dall’arma partono vari proiettili che feriscono gravemente il bambino. Certo, si è trattato di un incidente. Allo zio del bimbo però (come a ciascuno di noi) avrebbe fatto bene leggere l’interessante libretto di Davide Miccione Guida filosofica alla sopravvivenza, che ci mette in guardia dalla presunta neutralità degli oggetti: “Gli oggetti hanno un loro uso preferenziale, tendenziale, vogliono essere usati in un certo modo (…). E’ indubbio che una pistola in sé non uccida, eppure, se dessimo una pistola a ogni famiglia, siamo perfettamente consapevoli che gli omicidi aumenterebbero (…). Gli oggetti vanno ‘umanizzati’. Vanno temuti. Li si rispetta quando si dà loro un’identità, si coglie la loro direzione preferenziale.”
                                                                   Maria D’Asaro: “Centonove” n. 9 del 3.3.2016

sabato 5 marzo 2016

Casa, dolce casa

       Uno dei processi di adattamento, di modificazione attiva ed opportuna dell’ambiente da parte dell’uomo, ma anche degli animali, è costruirsi una casa. Poche cose sono così significative e seducenti nell’esistenza individuale e collettiva quanto l’abitare e poche cose sono altrettanto disperanti quanto il non trovare i luoghi dell’abitare attraverso cui ogni essere minerale, vegetale o animale rivela la sua identità, la sua natura e la sua appartenenza. Così quando parliamo di abitare (…) ci riferiamo all’abitare una casa che sia la condizione di possibilità “di essere a un tempo presso-di-sé, avvolto dal calore di un gesto, custodito dalla maternità di un luogo e dalla paternità di una sicurezza” e in questo intendiamo anche l’abitare altrove nel mondo e nella storia degli altri. (…)
La casa da una parte esprime la funzione di rifugio dal mondo circostante, dall’altra rende anche possibile quest’esperienza dell’essere-con-gli-altri nella condivisione dei significati più profondi dell’esistenza umana. Diventa allora sempre più chiaro che chi manca delle esperienze di calore e di intimità, vissute primariamente nella casa, subisce una grave negazione della possibilità di sognare e del senso del proprio essere-nel-mondo, che allora sarà vissuto in maniera alienata e alienante, perché per abitare il mondo è necessario aver abitato una casa, aver costruito una casa interna che aiuti ciascuno di noi a sopportare gli spazi aperti e diventare abitatori del mondo.
(…) L’abitazione di conseguenza non è un evento esterno, ma appartiene alla dimensione originaria delle persone nel loro costituirsi come esseri relazionali, dove identità e differenza sono momenti di un unico processo di sviluppo della persona che si realizza nel complesso degli aspetti dell’essere-pienamente-nel-mondo, a partire dai rapporti fondamentali con le figure genitoriali per arrivare ai rapporti sociali più globali. (…)

Dal testo Devo sapere subito se sono vivo di Salonia, Conte, Argentino (Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2013,€ 16,00).Il brano riportato è tratto dal capitolo: La casa, l’ambiente non umano e i pazienti gravi. Un contributo teorico-clinico nell’ottica della psicoterapia della Gestalt, a cura di Giovanna Giordano, pagg.251,252,256

giovedì 3 marzo 2016

Il sogno di Ferdinando

Van Gogh: père Tanguy (1888)
Io temo tanto la parola degli uomini.
Dicono tutto sempre così chiaro:
questo si chiama cane e quello casa,
e qui è l’inizio e là è la fine.
A me piace sentire le cose cantare.
(Rainer Maria Rilke)

  Ferdinando, un paziente grave (…), mi era molto simpatico quando con voce altisonante cominciava a delirare raccontando della sua immensa ricchezza economica, delle sue proprietà terriere, delle sue origini nobili e gloriose, della sua servitù ... In realtà era un mendicante e viveva in un tugurio costituito da un’unica stanza contenente letto, cucina e vaso, ed una confusione indescrivibile di roba vecchia e sporca. (…) 
 Da come si presentava fisicamente (sporco, maleodorante, barba e capelli trascurati, occhi strabici, senza denti davanti, grasso e mal vestito) e per i suoi modi relazionali bruschi, invasivi e minacciosi, provocava intorno a sé senso di ripugnanza e paura, con l’effetto di allontanare le persone (…).   Come terapeuta, inizialmente percepii anch’io una reazione di rifiuto, ma quando cominciò a delirare rimasi affascinata, lo ascoltavo veramente interessata e allora decisi che piuttosto che farlo aderire al principio di realtà (era troppo dolorosa la sua realtà) avrei lavorato su questa percezione che nella relazione terapeutica emergeva. Così verbalizzai l’effetto positivo ed affascinante che aveva su di me quando raccontava quelle storie, lodando la sua voce forte e sicura ed il suo porsi distinto e gentile (a differenza del tono di voce aggressivo e offensivo di quando per strada chiedeva l’elemosina). Gli chiesi di poter registrare la seduta terapeutica per fargli riascoltare la sua voce, ed egli entusiasta accettò.
Venne puntuale all’appuntamento (evento rilevante per lui che veniva solo se accompagnato dalle forze dell’ordine). Registrai per circa 15 minuti il suo delirio che poi riascoltammo insieme. Egli nell’ascoltarsi si compiaceva di se stesso, io invece notai che non mi suscitava lo stesso effetto percettivo: mancava l’aspetto visivo. Quando verbalizzai questo, Ferdinando mi chiese: “Dottoressa, sono bello?”. Lo guardai bene, non avrei mai mentito, e sinceramente risposi: “Quando racconta queste storie il suo viso si illumina e sembra più bello, è come se si calasse nell’immagine che offre di nobile ben vestito e curato nell’igiene”. Il giorno in cui accettò di farsi la doccia nei locali del dipartimento di salute mentale, più per una cortesia a me che per sue esigenze, dato che a casa sua aveva un bagno “grande come una piscina”, ho visto che nascondeva una lacrima. E’ vero, rifiutava la farmacoterapia perché lui ‘non era malato, e quando si riusciva a convincerlo (…) questi farmaci sembravano non sortire alcun effetto (resistenza). Ma perché doveva rinunciare al delirio? Per lui era un sintomo funzionale di vita! Sostenendo il suo delirio, considerandolo il suo adattamento creativo alla realtà, è stato possibile ottenere un cambiamento relazionale e un contatto più funzionale con gli altri. (…)         

Dal testo Devo sapere subito se sono vivo di Salonia, Conte, Argentino (Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2013,€ 16,00).Il brano riportato è tratto dal capitolo: La dimensione relazionale della psicofarmacologia: dalla compliance al transfering gestaltico, a cura di  Paola Argentino, pagg.247,248