venerdì 12 maggio 2017

Carne mia

Roberto Alajmo
Carne mia (Sellerio, Palermo, 2016, €16) è, per ammissione dell’autore, lo scrittore e giornalista palermitano Roberto Alajmo, il completamento ideale della trilogia noir iniziata con “Cuore di madre (nel 2003 secondo classificato al premio Strega) e continuata con “E’ stato il figlio” (da cui nel 2012 Daniele Ciprì ha realizzato l’omonimo film). Anche in questo romanzo, la vicenda narrata è ancorata nel contesto palermitano: «Palermo, anche se la vuoi tenere sullo sfondo, cerca sempre di entrare nell’inquadratura», ha confessato l’autore nell’intervista a Enrico Deaglio in occasione della presentazione del libro. E, come i romanzi già citati, Carne mia è l’avvincente narrazione di una storia familiare che, in questo caso, ha le sue radici negli anni ’90 a Palermo, nel quartiere di Borgo Vecchio: “un’enclave all’interno della zona residenziale più prestigiosa della città. Duecento metri separano Napoleon, negozio di scarpe extralusso, da una sacca di sottosviluppo che si muove su ritmi e regole diversi, tutti propri”; la narrazione si sposta poi a Murcia, in una cittadina assolata del sud della Spagna, dove trova il suo ineluttabile epilogo.
   Come inizia la storia? Con un caso di “lupara bianca”: un fruttivendolo, Calogero Montana, una sera non rientra più a casa. La moglie Mela ne denuncia la scomparsa solo dopo due giorni, perché a Borgo Vecchio “andare in commissariato normalmente non si usa, rappresenta il riconoscimento di un’autorità che non si riconosce”. Dopo la sparizione del marito, per Mela e per i due suoi figli Enzo e Franco inizia una nuova vita, complicata però dall’insano comportamento di Enzo, il figlio maggiore. L’esistenza di Mela e di Franco diverrà insostenibile quando, accanto ad Enzo, graviteranno anche la fidanzata e poi il loro bambino, chiamato Calò in onore del nonno scomparso.
   Lasciando a questo punto scoprire ai lettori la continuazione dell’ingarbugliata vicenda, ci chiediamo: che tipo di romanzo è Carne mia? Non è un giallo o un romanzo poliziesco, perché alla fine le cose non si mettono a posto, non c’è una distinzione netta tra buoni e cattivi, perché gli interrogativi prevalgono sulle spiegazioni e i nodi etici rimangono irrisolti. Si potrebbe dire, riecheggiando il titolo di una vecchia canzone di Francesco Guccini, che Alajmo conferma la sua vocazione di voce narrante di piccole storie ignobili, di grovigli familiari che sfociano inevitabilmente in tragedie. 
   E’ possibile comunque avanzare un’interpretazione in chiave etica di questo dramma: Carne mia assume le valenze di una tragedia perché i protagonisti, a partire da Franco e da sua madre Mela, rinunciano a dare alla realtà il suo vero nome: “Entrambi sanno, ma non parlarne è un modo per relegare il dolore in un ambito ristretto, senza propagarlo più di tanto. Mettere in comune la consapevolezza vorrebbe dire prendere atto formalmente del problema. Una cosa che nessuno dei due ha voglia di fare”. Franco, in particolare, “rinuncia non tanto alla vendetta (…) ma alla stessa verità. Pazienza: vivrà senza conoscere i dettagli”. E così, a poco a poco “finisce per affezionarsi allo smottamento della realtà”. 
    Toccherà al piccolo Calò ingoiare a forza il rospo amaro della menzogna e provare a sputarlo con un percorso di consapevolezza pieno di rabbia e di dolore, non si sa quanto davvero catartico e liberatorio. Dal punto di vista stilistico, Carne mia ci appare un romanzo “fotografico”, scritto quasi come una sceneggiatura cinematografica, con periodi paratattici e una prevalenza assoluta di dialoghi: tale modalità narrativa cattura il lettore, perché Alajmo mira a tutti e cinque i suoi sensi, facendogli sentire, annusare, vedere, toccare e gustare le varie scene della storia.
  La sottoscritta però, affezionata lettrice del brillante scrittore palermitano, deve infine confessare una cosa: le si è stretto il cuore leggendo il libro … Forse perché è troppo vecchia e non ne può più di quella Palermo che ha abdicato alla verità, alla giustizia, al coraggio di alternative chiare, oneste e “legali” per risolvere i problemi familiari e sociali. E teme che l’ultima pagina del libro possa lasciare non solo i parenti di Calò, ma anche i lettori, privi del “lascito di un’infelicità almeno ammissibile”,compresi in una sfera di angoscia senza futuro”.
  E allora, in punta di piedi, l’affezionata lettrice chiede a Roberto di raccontarci ancora tragedie solo se accadono nella vita reale, cosa che sa fare peraltro benissimo. Ma, con la sua ispirazione caustica e ironica di cronista sapiente, poliedrico e acuto, di regalarci in futuro un po’ di speranza, scrivendo soprattutto storie belle di uomini e donne “capaci di tirare la corda pazza senza strapparla mai, anzi intrecciandola con quella civile fino a farne una gomena a cui ancorare le proprie utopie”.                                   
                                               Maria D’Asaro: “Centonove” n.19 dell’11.5.2017 (pag.30)

2 commenti:

  1. Oggi prendo appunti. Sono digiuna di tutto. E tu hai sempre la capacità di colmare vuoti coinvolgendo con maestria. Grazie Mari :**

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    1. Cara Santa, quando leggo i tuoi post, ricchi e coinvolgenti, sono sempre con la matita - o il mouse! - in mano! Grazie dell'attenzione. Buona domenica. Un abbraccio.

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