martedì 9 ottobre 2018

Corradino and me

Picasso: Madre e figlio (1905)

La lettura di “Quattro soli a motore” (Neo.Edizioni, Castel di Sangro, 2012, € 15)  è avvenuta un po’ per puntiglio e per rispetto di un impegno con me stessa (avevo chiesto il libro come regalo di Natale), ma soprattutto perché volevo capire che sostanza e che ‘pasta linguistica’ contenesse l’opera seconda dell’autore, il blogger Zio Scriba, al secolo Nicola Pezzoli, che nel suo profilo si definisce - oltre a “Umorista, Battutista, Poeta Pentito, Gambler Esistenziale, Spirito Libero (…) Peter Pan Dichiarato, Naturalista Contemplativo, Interista Isterico, Bastiancontrario Cronico, Pericolosa Testa Di Pazzo” - innanzitutto “Natural Born Writer”, o semplicemente “Scrittore". Questa presentazione ‘leggermente narcisista’ – come confessato onestamente dal suddetto Nicola – ha fatto sì che iniziassi a leggere il romanzo con una certa diffidenza, col sospetto che il suo autore si rivelasse un pallone gonfiato. Invece, avanzando pagina dopo pagina e distanziando la storia dai miei ingombranti pregiudizi, “Quattro soli a motore” mi ha commosso e convinto.
La lettrice si ritrova, nell’estate del 1978 a Cuviago, paesino sperduto della Lombardia allora inondata da fabbriche e cemento, a fianco di Corradino, protagonista della vicenda, con suo padre, sua madre “che l’alcool non rendeva mai cattiva, solo svampita e più dolce”, la svanita nonna Corinna, la cui esistenza nasconde un mistero, zia Trude, la signorina De Ropp e le altre “millesettecento anime abbastanza stronzolotte” del paese. Come Corradino, ha paura del Cane Nero che abbaia furioso nella notte; si perde con lui nei campi di granturco “dove il vento produceva un fruscio come di sonagli silenziati, di campanellini con l’ovatta, accompagnato dallo stormire di centinaia di nacchere in miniatura”; s’indigna nel vedere tremare il ragazzetto colpito dalle furiose cinghiate di Videla, soprannome affibbiato dal figlio al padre manesco e violento: “Poteva bastare una sua domanda innocua per capire che più tardi le avrei prese (…). Altre volte bastava il suo sguardo, altre ancora una vera e propria dichiarazione di guerra (…). Ricordo quando mi scoppiò la stupidera, e lui mi picchiò per quello, perché ridevo e ridevo senza motivo, perché sembravo … un bambino felice.”
La lettrice si intenerisce per l’innamoramento struggente e senza speranza che il ragazzo nutre per la Marilù del bosco. E lo guarda camminarle vicino, serio e silenzioso “mentre le braci del tramonto … già incendiavano spicchi di cielo, e ciuffi di nuvole in dissolvenza”. Non sopporta la cattiveria crudele con cui Corradino viene trattato dai bulletti del paese, che si divertono a tormentarlo con mille angherie e ad affibbiargli un ridicolo nomignolo. Infine si appassiona nello scoprire l’intricato mistero di villa Kestenholz, di cui il protagonista, assieme all’amico Gianni, alla fine riesce a venire a capo. La lettrice scommette che tutti i lettori resterebbero affascinati, alla fine della vicenda, dal legame delicato e profondo che si istaura tra il ragazzo e il vecchio Kestenholz che vuole saggiamente estirpare dall’anima di Corradino i sensi di colpa che nel tempo si era fabbricato. Ricordandogli che “Chi nasce, nasce perché nel suo albero genealogico ci sono dei rami spezzati e … senza quella legna, segata e spaccata, non ci sarebbe quel fuoco che è la nostra singola, incidentale vita. Siamo solo, e lo siamo tutti, nient’altro che capricci del Caso.”  E rassicurandolo, perchè “le parole scritte non uccidono quasi mai. Le parole scritte uccidono quando vengono considerate verità assolute da qualche fanatico babbeo. “
Infine, tra le pieghe del racconto, ma soprattutto nell’epilogo della vicenda, si percepisce una netta e vibrante denuncia dell’assurdità della guerra, schiava cieca dell’odio e serva della Grande Mietitrice. Si ricorda la morte inutile e dolorosa dei soldati, destinata tragicamente all’oblio quando, dopo una guerra, ce n’è un’altra: “Essere periti in una guerra mondiale dopo che ce n’è stata già un’altra è (…) come esser stati calpestati da un elefante di Annibale durante le Guerre Puniche o decapitati da una scimitarra nelle Crociate.” E il saggio Kestenholz profetizza triste, alla fine della storia, che “Se gli uomini sono destinati ad avere sempre più forza e potenza, ma sempre meno intelligenza, saggezza e capacità di discernimento … e sempre meno bontà … il prossimo secolo saprà essere più buio. E quello dopo ancora, sempre peggio.”
Allora, caro zio Scriba, per scacciare la sacrosanta tristezza che ci rimane a chiusura del libro e per tentare di scongiurare la profezia di Kestenholz, non ci resta che provare a mettere vita e parole - e tu le parole le sai usare con vero talento! - al servizio della bellezza e della bontà.
Maria D'Asaro

4 commenti:

  1. Ecco perché è bello scrivere: perché esistono Lettrici come Te. E se questa splendida recensione servirà a raggiungere il cuore, la mente e l'anima anche solo di un'altra lettrice, per me sarà come un regalo di Natale anticipato. Grazie!

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    1. @Zio Scriba: che parole calde e nutrienti ... Grazie. Buona scrittura e buona vita.

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  2. Bellissima recensione per un libro che sembra davvero meritare.

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    1. @Daniele: ti assicuro che se, a mio sommesso avviso, un libro non merita, non lo recensisco. O recensisco in modo diverso ... Buon fine settimana.

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