mercoledì 7 agosto 2019

Finiti, ma affamati di infinito

           Augusto Cavadi, filosofo di strada, mercoledì  pomeriggio 31 luglio, presso la "Casa dell'equità e della bellezza"  (via Nicolò Garzilli, 43/a, Palermo),  ha guidato una riflessione sul tema:  "Accettare con serenità la propria finitudine, riprendendo l’esperimento di dedicare a se stesso e agli interessati uno spazio settimanale di meditazione filosofica (silenziosa e/o dialogata) ascoltando un ospite, leggendo qualche pagina, conversando su una tematica che interroga qualcuno dei presenti o anche meditando con una musica di sottofondo.
          "Si potrà essere in due o tre; oppure in dieci o dodici; qualche altra volta magari il filosofo praticante sarà da solo … l’importante è che ci sia un’oasi a disposizione di tutti. L’essenziale sarà vivere una pausa di pace, di raccoglimento, di dialogo sereno che interrompa il ritmo abituale delle tante cose che facciamo:  non un impegno da aggiungere agli altri, ma una sosta fra un impegno e l'altro per prendere 'fiato'."
      La pratica filosofica infatti, come la vive Augusto, è molto più che esercizio cerebrale: è, per dirla con le sue parole,  "un modo di fare un passo indietro per guardare sé stessi e il mondo con occhi nuovi; una modalità di regalare un risveglio alle nostre potenzialità più intime e di immergersi in un bagno di 'senso' per uscirne più disposti a spendere in maniera dignitosa gli anni che ci restano da vivere sul nostro pianetino.  E’ un’esperienza di bellezza che ci rende meno prigionieri del nostro 'io' e più motivati a rapporti  equi e sereni con le persone, gli animali e l’intera Terra."

Ecco qualche risonanza espressa mercoledì scorso, dopo la lettura del testo “Accettare la propria finitudine”  (dal testo di Augusto Cavadi: La filosofia come terapia dell’anima, Diogene Multimedia, Bologna, 2019, €16, pag.24).
Qui, qui e qui  un assaggio dell’edizione precedente dello stesso testo.


Potrebbe forse essere la carità, la cura per gli altri, a dare un qualche senso alla finitudine umana e a collocare fede e speranza nell’hic et nunc.
E’ fondamentale che ciascun essere umano sia responsabile di sé e delle sue azioni e non deleghi tutto a religione e politica. Essere responsabili può attenuare l’angoscia e la paura.

Se è vero che è da evitare il delirio di onnipotenza del perfezionismo, è comunque necessario fare ciò che è in nostro potere per cambiare in meglio la società.

Non potrebbe forse la morte essere intesa come la restituzione di un debito che abbiamo contratto con la natura? Come il nostro personale contributo perché gli altri abbiano la vita?

Dovremmo tenere a mente l’ammonizione del libro di Qohelet: tutto scorre, tutto è vanità … Dovremmo attribuire una funzione minima ai concetti, alle interpretazioni. Convivere quindi con l’impermanenza e la finitudine, vivendo comunque con serenità le nostre passioni.

La tendenza a misconoscere la finitudine è foriera di disastri: quando nell’individuo non viene elaborata e integrata la fase dell’onnipotenza, avvengono misfatti. La contezza della propria finitudine porterebbe al superamento delle guerre e della violenza.

La finitudine, la morte individuale è il limite assoluto o è solo un cambiamento?

Paradossalmente talvolta il rapporto, anche se doloroso, con la fine delle persone care restituisce una sorta di senso alla vita. Ci rende consapevoli di far parte di un universo finito, che ha un inizio e una fine, ci rende respiro consapevole di una ciclicità.


Certo, è strano non abitare più la terra,
non agire più gli usi da così poco appresi,
e alle rose, e alle altre cose piene di promesse
non dare più senso di un umano futuro;
ciò che eravamo in mani illimitatamente ansiose
non essere più, e anche il proprio nome
abbandonare come un giocattolo infranto.
Strano non desiderare più i desideri. Strano
quel che stretto si teneva vederlo dissolto
fluttuare nello spazio. E penoso essere morti:
un continuo ricercare, faticosamente in traccia
di un poco d’eternità. – Ma i viventi compiono
tutti l’errore di tracciare troppo netti confini.
Gli angeli (dicono) spesso non sanno se vanno
tra i vivi o tra i morti. L’eterna corrente
trascina attraverso entrambi i regni ogni età,
sempre con sé, ed entrambi sovrasta con il suo suono.


(Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, dalla I elegia,  traduzione di Franco Rella;
ringrazio Armando Caccamo per la citazione)

Per chi è interessato, appuntamento oggi 7 agosto alle 18.30 per meditare su:
"Trascendere il complesso di colpa" (senza confonderlo con il senso della colpa) 
(tratto da: La filosofia come terapia dell'anima, pag. 26)

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