martedì 23 giugno 2020

La casa, Natalia Ginzburg

Vincent Van Gogh: Case ad Auvers (1890)
       Anni fa, venduto un alloggio che avevamo a Torino, ci mettemmo a cercare casa a Roma; e la ricerca di questa casa durò lungo tempo.
Io desideravo da anni una casa con un giardino. Avevo vissuto, da bambina, in una casa col giardino, a Torino: e la casa che immaginavo e desideravo assomigliava a quella. […]
      Mio marito nei primi tempi si astenne dalla ricerca e mi guardava mentre sottolineavo gli annunci come se fossi stata preda d’una quieta follia […]; gli leggevo forte gli annunci del “Messaggero”, lui ascoltava di solito in un silenzio ironico e sprezzante, che mi scoraggiava e che insieme sempre più mi spingeva sulla strada della follia; siccome comperare una casa mi sembrava impossibile, mancando il suo assentimento, inseguivo sogni impossibili e ombre […]
       Poi vi fu un secondo periodo, nel quale mio marito cercò la casa con me. Quando lui cominciò a cercare con me la casa, scopersi che la casa che lui voleva non assomigliava in nulla a quella che volevo io. Scopersi che lui, come me, cercava una casa simile a quella nella quale aveva trascorso la propria infanzia. Siccome le nostre infanzie non si assomigliavano, il dissidio fra noi era insanabile. […] Noi dunque amavamo due tipi di case nettamente dissimili; ma c’era una sorta di case che detestavamo entrambi: […] le case dei Parioli, semi nuove, sontuose e raggelanti, che guardavano su strade totalmente prive di negozi; […] e detestavamo entrambi le case del quartiere Vescovio, strette in un groviglio di vie e piazze piene di salsamenterie e drogherie, di mercati coperte e di reti tranviarie. Tuttavia andavamo a vedere anche questa sorta di case, che detestavamo. Le andavamo a vedere perché ormai ci possedeva entrambi il demonio della ricerca […].
Tornando stanchi alla nostra casa d’affitto dai pavimenti gialli, noi ci chiedevamo se ci importava tanto, davvero, cambiare di casa.
In fondo, non ce ne importava un gran che. Anche lì, in fondo, si stava abbastanza bene. Io conoscevo, di quella casa, ogni macchia sulla parete, ogni crepa nel muro, gli aloni scuri che s’eran formati al di sopra dei termosifoni; conoscevo il fragore delle lastre di ferro che venivano rovesciate davanti al portone, avendo il nostro padrone di casa, proprio accanto al portone, un’officina: quando andavamo a pagargli l’affitto, ci riceveva tra i bagliori della fiamma ossidrica e il ronzio dei motori. Ogni volta che gli pagavamo l’affitto il nostro padrone di casa sembrava stupito, ogni volta sembrava immemore di averci affittato quell’appartamento […]: sembrava unicamente assorto alla sua officina, e agli arrivi di quei lastroni, che crollavano sul selciato con un sordo fragore.
      Io mi ero scavata, in quella casa, la mia tana. Era una tana dove, quando ero triste, mi rimpiattavo come un cane malato, bevendo le mie lacrime, leccando le mie ferite. Ci stavo dentro come una calza vecchia. Perché cambiare casa? Qualsiasi altra casa mi sarebbe stata nemica e io ci avrei vissuto con ribrezzo. Vedevo sfilare davanti a me, come in un incubo, tutte le case che avevamo visto e che per qualche momento avevamo pensato di poter comprare. Tutte mi ispiravano un senso di repulsione. Avevamo pensato di comperarle, ma nel momento che avevamo deciso di rinunciarvi, avevamo sentito un profondo sollievo, una leggerezza, come chi è sfuggito, per miracolo, a un rischio mortale.
    Ma forse ogni casa, col tempo, poteva diventare una tana? E accogliermi nella sua penombra, benigna, tiepida, rassicurante?
     Oppure non era forse piuttosto che io non desideravo vivere in nessuna casa, in nessuna, perché quello che sentivo di odiare non erano le case, bensì me stessa? E non era che tutte le case, tutte, potevano andare bene, purché le abitasse qualcun altro, e non io?

 Natalia Ginzburg: Mai devi domandarmi,  Einaudi, Torino, pagg. 3-9



2 commenti:

  1. Passo stupendo e tema di grande risonanza interiore: la casa come realtà e metafora del rifugio, ma anche del luogo da cui fuggire (l'io con cui non si riesce a convivere).
    Bellissimo questo passaggio: "Io mi ero scavata, in quella casa, la mia tana. Era una tana dove, quando ero triste, mi rimpiattavo come un cane malato, bevendo le mie lacrime, leccando le mie ferite. Ci stavo dentro come una calza vecchia."
    Grazie.

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  2. @Rossana: grazie a te, cara Rossana, della tua attenzione costante e affettuosa. Amo tantissimo Natalia Ginzburg.

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