giovedì 2 luglio 2020

Emily e Natalia: l'incontro mancato

           Tempo fa sono stata ad Amherst, il paese della Dickinson: un paese situato non molto lontano da Boston, nel Massachusetts. Ho visto la sua casa. Ho visto anche un suo vestito in un armadio, un vestito bianco avorio a ricami, che sembrava una camicia da notte, e un plaid a lunghe frange che si metteva sulle ginocchia quando scriveva. 
        Ma allora non conoscevo le poesie della Dickinson, né le sue lettere, e il mio sguardo era vuoto e distratto. Avevo letto alcuni suoi versi, e forse anche qualche sua lettera, ma avevo capito poco di lei. Non avevo un solo suo verso nella memoria. Amherst è un paese molto bello, tutto prati verdi, casette verniciate di bianco sparse fra le querce, fra l'edera, le magnolie e le rose. Mi parve però che avesse, nella sua grazia, qualcosa di lezioso e professorale. Dietro a questo aspetto professorale e lezioso c'era una noia desolata e spettrale. 
        L'aspetto professorale il paese deve averlo preso dopo la morte della Dickinson, e in seguito alla coscienza d'esser la patria d'un grande poeta. Lo spettro della noia deve esserci stato sempre. Ricordo d'aver pensato che l'America è cupa e crudele nelle sue grandi città, e dove non è cupa e crudele, soggiace in una noia sterminata. 
      Era estate, e c'erano molte zanzare. Le zanzare dell'America sono diverse dalle nostre. Non hanno quel ronzio pigro e dolce, ma si avventano e sciamano sui visi umani in pieno giorno e in un protervo silenzio. Il silenzio e l'ombra della noia si stendevano a perdita d'occhio su quei prati fioriti e freschi. Così ho visto Amherst pensando delle futilità sulle zanzare, sul caldo e sull'America, e non ho prestato una reale attenzione al luogo dove Emily Dickinson è nata e morta. 
      Devo anche aver pensato varie futilità sulla Dickinson. Devo aver pensato che mi era antipatica. Avevo su di lei alcune nozioni confuse e avevo in mente due o tre cose che mi sembravano irritanti: che amava gli uccellini e i fiori; che andava incontro agli ospiti con una veste bianca (quella nell'armadio) e con in mano due gigli; che usciva poco di casa e tutt'al più andava a trovare una sua cognata che stava a un passo; che a questa cognata usava anche scrivere lettere appassionate; che i suoi soli interlocutori erano i suoi famigliari, un certo signor Higginson a  cui mandava i suoi versi e che le rispondeva con pedanterie, due cugine di Boston, qualche signora; che i suoi soli amori, d'altronde non mai consumati, erano stati il giudice Lord e il reverendo Wadsworth, cioè un vecchietto e un prete. In questi giorni mi son messa a leggere le sue lettere, e poi, nel mio debole inglese, i suoi versi. Che grande poeta era, questa Emily Dickinson. […]
      Di zitelle che passano la vita a scrivere versi nei borghi di campagna, in solitudine, con manie e stravaganze, ce ne sono infinite, e nessuna è un grande poeta; e lei invece lo era. Lo sapeva? non lo sapeva? Scrisse migliaia di poesie e non volle mai stamparle; le cuciva col filo bianco in fascicoletti.
 «Questa è la mia lettera al mondo — che non scrisse mai a me.» 
Era difficile che il mondo potesse scriverle, dato che lei era, e voleva essere, immersa nell'oscurità di una casa. 
Ma certo il mondo non le scrisse mai, in nessuna forma, perché, finché fu viva, non le diede niente. 
E del resto la sua lettera al mondo non chiedeva risposta.


Natalia Ginbzurg: Il paese della Dickinson 
(in Mai devi domandarmi –  Einaudi, Torino, pagg. 28-30)

2 commenti:

  1. Bella anche questa pagina, densa di sfumature, di notazioni tra le pieghe del discorso... Buona serata.

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    1. @Rossana: La Ginzburg era dotata di una sensibilità umana particolare, nella quale mi ritrovo appieno. Buona domenica. Un caro abbraccio.

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