lunedì 30 marzo 2009

"In viaggio con Alex": Fabio Levi, Feltrinelli, Mi,2007


Undici anni dopo il suo tragico commiato, seguito dalle numerose e accorate riflessioni di amici e conoscenti, dopo le preziose e postume pubblicazioni di tanti suoi scritti e discorsi, dopo la nascita, a Bolzano/Bozen, della Fondazione a lui dedicata, dopo le lucide e dolorose parole dell’amico Edi Rabini e la comprensibile richiesta di silenzio da parte della moglie, si poteva ancora dire qualcosa su Alex Langer?
Fabio Levi ha dimostrato che era possibile. E anche necessario.
Se è giusto, infatti, rispettare il silenzio che l’Alex privato ci ha chiesto, è altrettanto doveroso non coprire di oblìo l’Alex pubblico, fondatore dei Verdi in Italia, strenuo difensore delle minoranze, parlamentare europeo, costruttore di ponti e operatore di pace.
Perché c’è il pericolo che Alex venga dimenticato, visto che nemmeno la sua Bolzano – trincerandosi dietro il pretesto della diseducatività del suicidio - ha ritenuto opportuno dedicargli una strada.
Il libro del prof. Levi ci aiuta a tenere viva la memoria di Alex uomo e soprattutto dell’Alex politico, che ci piace immaginare abbia avuto in dono dalla madre, prima donna italiana a laurearsi in Chimica, la prodigiosa capacità di cercare e sperimentare soluzioni nuove, originali e non violente a problemi antichi e moderni: la difficile convivenza interetnica in Alto Adige/SüdTirol, il rapporto tra economia e ambiente, i nuovi conflitti e le nuove guerre, in Europa e nel mondo. Il testo ci propone un Alex Langer affascinante e credibile, che sin da ragazzino si mostrava laboratorio inesauribile di ricerca umana, sociale, religiosa, politica.
Con uno stile sobrio, asciutto e essenziale e con lo sguardo attento dello storico, Fabio Levi compie una puntuale e rigorosa ricostruzione storico-politica del “lì e allora”, dei molteplici luoghi e contesti nei quali Alex si è trovato ad operare: dal Sud Tirolo, alla Firenze anni ’60 di don Milani, di La Pira e dei fermenti post-conciliari, a Francoforte e Berlino, con la nascita dei Verdi/Grünen, dall’Italia, dove fu il fondatore e il leader del movimento ecologista, a Bruxelles dove Alex era parlamentare europeo, a Sarajevo, che lo vide instancabile difensore delle minoranze minacciate dalla pulizia etnica.
Degne di segnalazione le preziose notazioni sul garbuglio del Sud Tirolo, contenute nei capitoli iniziali, come pure la collocazione storica dell’esperienza di “Lotta continua”, cui Alex aderì, e la genesi e l’incontro complesso e sofferto col variegato arcipelago verde e il panorama della sinistra italiana.
Come sottolinea Gianfranco Benincasa (“Alto Adige”, 27/3/07), Fabio Levi “mantiene il distacco indispensabile a chi si propone di raccontare una vita ad altri”: direi che nel libro si avverte una sorta di rarefazione emotiva, originata forse da una sorta di pudore e di rispetto per l’intimità tormentata dell’ Alex uomo.
Se una qualche pecca si vuole proprio trovare nel bel viaggio di Fabio Levi con Langer la si potrebbe , a mio avviso, indicare nella mancanza di un po’ di pathos, che forse qualche pagina avrebbe richiesto. E nell’assenza di immagini che avrebbero contribuito ad arricchire il ricordo di Alex.
Ingenerosa e senza fondamento invece, secondo me, la critica di Karl Ludwig Schiebel (“Altrapagina”, Città di Castello, 11.10.07) che parla del libro come un “incontro troppo superficiale con una persona la cui eredità (…) dovrebbe cominciare a delinearsi come qualcosa di più e di diverso dalla sequenza di viaggi ed incontri”. Lo stesso Schiebel, peraltro, a fine articolo si contraddice giudicando quello di Levi “un libro molto importante e bello, che lascia spazio per un seguito “Al lavoro con Alex”.
Lavoro a più mani che auspichiamo e a cui senz’altro Fabio Levi potrebbe dare un importante contributo.

Caro Alex,

                                               
Caro Alex,

forse tu capiresti perché non aziono il pulsante del semaforo pedonale e aspetto pazientemente, per attraversare la strada, che non ci siano automobili vicine. Quella che agli occhi di un passante può apparire una condotta civica poco adeguata, per me è motivata dal desiderio di non aumentare i livelli di anidride carbonica nell’aria con la fuoriuscita dei gas di scarico di quelle auto che, per qualche decina di secondi, si sarebbero dovute fermare per consentirmi di attraversare. (...)
    Ci manchi da tante estati. Oggi saresti più curvo, con i capelli grigi e qualche ruga in più.
Per te, comunque, essere giovane non era un dato anagrafico, ma una condizione dell’anima: avresti ancora il tuo sorriso “da coniglio intelligente e affettuoso” e "quell’aria ironica, buona, curiosa da eterno ragazzo, “quell’aria eternamente trafelata e provvisoria, i sandali francescani d’estate e il maglione norvegese d’inverno”, come ricordano i tuoi amici. (...)
 
La lettera è stata ripubblicata, nel giugno 2023, in: 
Maria D'Asaro, Una sedia nell'aldilà, Diogene Multimedia, Bologna, 2023

domenica 29 marzo 2009

ALONE AGAIN


(...) E poi, si disse, dovrebbe esserci abituata. In fondo, quando tutti guardavano il cielo a ovest, dove al posto del gran carro dell'Orsa era apparsa una grossa macchia giallo-arancione e lei cercava qualcosa a cui aggrapparsi per non annegare nel vortice della sua ansia, quando suo padre urlava per la gamba rotta e tutto all'improvviso diventava gelato, quando sul muro le appariva la signora col fuso ... Sua madre era sempre di là, a occuparsi dei suoi sette e uno dolori.

Si era illusa che da grande sarebbe stato diverso. Povera piccolina ... Puoi sempre ballare da sola. Soffocare con le tue canzoni il ronzio mostruoso della nuova solitudine. (...)

domenica 22 marzo 2009

LE VAMPE DI SAN GIUSEPPE


Mercoledì sera c’erano tutti: Filippo, Oreste, Antonella, Rosario, Toni, Salvo, Paolo, Nancy….
Concentrati in uno scampolo di marciapiede, a guardare le fiamme che divoravano allegramente le cose vecchie. Che la tradizione vuole che si gettino via, la vigilia di san Giuseppe. I più grandi ronzavano in motorino, volteggiando davanti alle vampe, gli altri ostentavano una silenziosa indifferenza. Nei movimenti e nei gesti di sempre, mi pareva di leggere una certa quieta baldanza: non potevano confessarlo, ma l’antico miracolo del fuoco continuava ad affascinarli e aveva avuto il potere di tenerli fermi per un’ora buona, a contemplarlo. A scuola, spesso, non siamo capaci di tenerli impegnati per dieci minuti. La fiamma della nostra cultura non attecchisce affatto sulle loro menti. Chissà, se mercoledì sera fossimo stati insieme a loro a guardare la vampa, forse oggi avremmo potuto avvicinarli dicendo: “Com’erano alte le vampe ieri sera… Si stava bene vicino al fuoco…”

(“Centonove”: 20.3.09)

venerdì 20 marzo 2009

LA MAFIA SPIEGATA AI TURISTI


      Talvolta due tra le più grandi passioni della mia vita – alberi e libri – entrano in competizione: è noto che i libri si fanno con la carta e che la carta ci viene donata dai nostri preziosi fratelli alberi. Alla visione di un nuovo libro, mi sorge subito la domanda: “Era necessario abbattere un albero per stamparlo?” Non sempre la risposta è affermativa.
     Nel caso dell’agile libretto “La mafia spiegata ai turisti” (Di Girolamo, Trapani, 2008, pp. 54, euro 5.90, edito anche in lingua inglese, tedesca, francese, spagnola e giapponese) credo che il sacrificio di qualche albero sia stato opportuno. In esso, infatti, lo studioso e pubblicista Augusto Cavadi ha ben pensato di fornire risposte sintetiche alle domande più ricorrenti che un turista attento e curioso fa, o farebbe, una volta venuto in Sicilia. Alle tre FAQ principali sul fenomeno mafioso (“Di che si tratta? C’è sempre stata? Ci sarà per sempre?”) sono infatti dedicati i tre capitoletti del libro/pocket, nei quali l’autore offre un quadro chiaro ed esauriente del fenomeno mafioso, sgombrando pregiudizi e luoghi comuni duri a morire non solo nel visitatore di passaggio, ma - come si legge nell’introduzione - anche in tanti italiani e siciliani, “muniti di laurea o addirittura operanti nel campo sociale”.
     Il libro è completato da una rassegna bibliografica e cinematografica sintetica ed essenziale ed è ed arricchito da tre utili schede: la prima, sulla storia emblematica di Giuseppe “Peppino” Impastato, il giovane uomo di Cinisi che ha avuto il coraggio di rompere con la tradizione mafiosa della sua famiglia ed è stato assassinato il 9 maggio ‘78 per le puntuali e lucide denunce sui mafiosi e sui loro affari; la seconda, un’analisi ragionata del passaggio di Peppino Impastato da protagonista di una storia quasi privata e solo siciliana, raccontata da sua madre e da uno degli amici e compagni più cari, a protagonista di “Cento passi”, film dalle molte luci e con qualche ombra, che ha avuto comunque il merito di fare conoscere Peppino a un pubblico più vasto; la terza, sul Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato", primo centro studi sulla mafia sorto in Italia, fondato nel 1977 dallo studioso Umberto Santino, al quale - inseparabilmente dagli altri soci del Centro - l’autore tributa una sincera riconoscenza: “senza il loro impegno intellettuale e senza la loro tensione etica (…) sarei rimasto ad un livello di conoscenza superficiale del fenomeno mafioso e questo libretto non avrebbe mai visto la luce”.
Maria D'Asaro   (pubblicata nella rivista: "Turismo in Sicilia", n.13/maggio 2008, pag.31) 

giovedì 19 marzo 2009

La verità




Dì tutta la verità ma dilla obliqua


il successo è nel cerchio


sarebbe troppa luce per la nostra debole gioia


la superba sorpresa del vero


come il lampo è accettato dal bambino


se con dolci parole lo si attenua


così la verità può gradualmente


illuminare altrimenti ci acceca.



Emily Dickinson

Valore



Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.
Considero valore il regno minerale, l'assemblea delle stelle.
Considero valore il vino finché dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si e' risparmiato, due vecchi che si amano.
Considero valore quello che domani non varrà più niente e quello che oggi vale ancora poco.
Considero valore tutte le ferite.
Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi, provare gratitudine senza ricordare di che .
Considero valore sapere in una stanza dov'e' il nord, qual è il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca,
la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.
Considero valore l'uso del verbo amare e l'ipotesi che esista un creatore.

Molti di questi valori non ho conosciuto.



Erri de Luca - (da "Opere sull'acqua e altre poesie", Einaudi 2002)

mercoledì 18 marzo 2009

PROFONDO SUD


“Abbiamo materassi a molle, con certificato di garenzia…abbiamo lettini a castello, fodere, lenzuola…"Il silenzio sonnolento delle borgate siciliane è spesso rotto da un lapone sbrindellato che abbannìa le sue mercanzie.“Quando mi cercate non mi trovate, ...buono, pulito e raffinato… il sale ci vuole meglio dell’olio”. “Ammolo lame, cortelli, riparo cucine a gas, …”Se sei per strada lo vedi: un lapone, magari senza sportelli, con un uomo senza età, sospeso tra una vicina giovinezza e una precoce vecchiaia. E se vende pollanchelle - “tenera, cavura, pollanchella,,,” – c’è anche qualche ragazzino, triste o sorridente, spesso precocemente spavaldo. Magari anche una bambina con lunghi capelli arruffati, che ti fissa in silenzio senza un perché. Epigoni di una Sicilia immutabile e arcaica, solo sfiorata dalla modernità che si sovrappone pigramente a un sostrato di espedienti e precarietà. Una Sicilia dove la modernità è soltanto il megafono che sostituisce l’abbannio del venditore.

(“Centonove”: 27.02.09)

Un'aliena a Palermo


Sapevo che sarebbe stata dura rimuovere le lattine, le cartacce, i tanti rifiuti che nei vasi soffocavano le rare e sofferenti piantine.
Ma ancora più difficile è stato sostenere lo sguardo stupefatto dei passanti e dei vicini di casa. “Ma a questa, chi glielo fa fare? Tanto domani saranno di nuovo piene di rifiuti. Il negoziante di fronte al quale erano sistemati i vasi mi apostrofa bruscamente: “Ma che fa lei qui?” Gli spiego che non mi piaceva la vista dei vasi sommersi dalla spazzatura e, poiché avevo piantine in esubero nel mio balcone, volevo ripulire e trapiantare. “Grazie” mi dice, ma con uno sguardo che esprimeva disappunto e imbarazzo.
Si perché a Palermo, in una via anonima di periferia, una signora che, con guantoni e paletta, desidera sistemare delle fioriere di terracotta, è un’aliena. E’ impensabile che ci si occupi di un territorio che non sia il balcone di casa.
Tra gli sguardi curiosi e increduli, c’era quello di un mio alunno. Frequenza irregolare, alunno “a rischio”. A lui ho detto semplicemente: “Sai, non mi piaceva che fossero così sporche, mi piacciono le piante, è più bello così”. Mi ha fissato un istante in silenzio. Poi è andato.
Ieri era il 23 maggio: non l’ho detto a nessuno ma in cuor mio dedicavo umilmente a Giovanni Falcone e alla sua scorta i fiori che ho piantato e il mio, piccolissimo e quasi insignificante, tentativo di controllo civico di una particella di territorio.

(La Repubblica, 24.05.08)

L'italiano e gli immigrati

         Ho molto apprezzato il parere autorevole della prof.ssa Mari D’Agostino – che dirige all’Università la scuola di lingua italiana per stranieri - sull’inserimento e l’istruzione degli alunni stranieri nelle scuole. La docente analizza con competenza il problema, denunciando il limite delle ricette governative, dettate da spesso da scarsa competenza o dall’interesse mediatico di “saldare l’allarme scuola con l’allarme immigrazione”. 
       Spero, da cittadina e da docente, che le istituzioni locali, oltre a profondere fondi per la formazione professionale, appoggino e sostengano le iniziative didattiche finalizzate a dare la conoscenza della lingua italiana agli alunni stranieri. Infatti qualsiasi percorso di inclusione sociale e di consapevole acquisizione di cittadinanza passa necessariamente attraverso il pieno possesso della lingua comune. 
       Perché – citando don Milani – “è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui”.

Maria D'Asaro, "La Repubblica", ediz. di Palermo, 22.02.09

Nostalgia


Nostalgia:

di te.

Di complici sorrisi.

Di una mano stretta.

Tornerai?

Agli alunni della scuola serale


Cari Cosimo e Roberto,
il corso per lavoratori dell’88/89, alla “Ciro Scianna” di Bagheria, non fu sicuramente felice. E non solo perché a giugno la scure della bocciatura privò dell’agognato diploma di licenza media voi due più una dozzina di altri corsisti. Erano tante le cose che non andavano bene quell’anno: tra i corsisti c’erano troppi disoccupati senza speranza, con figli da sfamare e affitto da pagare; in III C alcuni ragazzi si assentavano, per motivi non chiari; il sig. Cosimo era triste perché sua moglie, per la terza volta, aveva perso il bambino al quarto mese di gravidanza … la signora M. era angosciata dal fondato sospetto che suo figlio si drogasse; il sig. S. era scoraggiato perché aveva saputo di non potere essere ammesso al corso per aspiranti vigili del fuoco.
Nonostante la sentita partecipazione al dibattito sul sindacato, malgrado l’incontro con padre Lo Bue e la sua comunità di recupero per i tossicodipendenti, sebbene avessimo avuto tra noi un esponente del gruppo “Amici dei Lebbrosi”, che ci aveva donato un infervorato intervento sul perché della lebbra e della povertà nel terzo mondo…...nonostante tutto questo e altre iniziative e incontri, sentivo che quell’anno qualcosa non andava per il giusto verso. Forse mi mancava Mari, collega impareggiabile per capacità didattiche e umanità, già trasferita a Palermo; forse non c’era un’intesa profonda tra noi docenti, forse presentivo l’epilogo che avrebbe dolorosamente segnato la fine dell’anno scolastico……
Eppure devo dirvi che, nonostante l’amarezza di quell’anno, i dieci anni passati ai corsi serali tra Bagheria e Palermo, sono stati i migliori della mia vita di insegnante.
Purtroppo, i miei alunni erano soprattutto disoccupati come voi, o tutt’al più lavoratori in nero, la cui preoccupazione più grande era far bastare i pochi soldi faticosamente guadagnati sino alla fine del mese.
C’erano il panettiere e il fruttivendolo che prendeva la frutta allo “scaro”, che cominciavano la giornata alle tre del mattino. E questo tutti i giorni, senza ferie o congedi per malattia. Alle sei di sera, a scuola, spesso non riuscivano a tenere la mente sveglia e gli occhi aperti.
C’era il pescivendolo ambulante, che portava i segni del mestiere nell’odore delle mani e dei vestiti e, talvolta, nella tristezza degli occhi, quando aveva fatto “’na mala iurnata”, non era riuscito a vendere neppure un chilo di sarde.
E poi i muratori e gli imbianchini, che arrivavano a scuola in ritardo, con i capelli arruffati, gli occhi arrossati dalla polvere e i vestiti sporchi di “cuacina”. Se ne scusavano, avvicinandosi alla cattedra e sussurrandomi: “Professore’, p’un perdiri ‘a scola, nun ci arrivavu ‘a casa a canciarimi…”
Di alcuni non si sapeva bene che facessero: silenziosi e diffidenti, di sé ci offrivano solo il petto in parte scoperto sul quale facevano bella mostra pesanti collane d’oro, osservate da alcuni con sospetto, da altri con invidia.
C’era anche chi faceva la riffa, c’erano gli ambulanti che, per una sorta di deformazione professionale, in classe continuavano ad “abbanniari”, benevolmente presi in giro dai compagni.
C’era anche qualche commesso o impiegato “regolare” che veniva a scuola per migliorare la sua posizione lavorativa e che all’inizio teneva a sottolineare la sua superiorità sociale. Ma che, dopo qualche settimana, rivedeva il suo atteggiamento e metteva i suoi talenti a disposizione degli altri.
Ogni anno c’era poi almeno un fervente testimone di Geova che voleva convertirci tutti alla sua fede e teorizzava una presunta imminente fine del mondo. Ma che finiva per mettere da parte il suo bonario radicalismo religioso per concentrarsi nello studio della storia perché, intanto che il mondo non finiva, le vicende terrene incuriosivano pure lui. E poi voleva guadagnare quel benedetto diploma di terza media.
E c’erano le donne: le trentenni e quarantenni tornate a scuola perché, da ragazze, glielo aveva vietato un autoritario padre-padrone o un giovane fidanzato geloso. Donne che continuavano ad avere la testa ai bambini lasciati a casa o alla cena preparata a metà, ma che scoprivano ben presto il piacere di uscire dalla solita routine. Sera dopo sera, le signore si svestivano del pigro sguardo di spettatrici passive di telenovele e cominciavano a guardare al mondo con occhi nuovi e diversi, più attenti, critici e curiosi.
E infine c’erano i ragazzini, i sedicenni difficili che la cosiddetta scuola normale non aveva saputo o potuto “tenere” al suo interno. “Ho lasciato la scuola perché non sapevo fare niente e nessuno mi aiutava” – era l’esclamazione di molti. Alcuni riconoscevano che “alla scuola di mattina” ne avevano combinato di grosse: chi aveva uscito il coltello e minacciato compagni e professori, chi se n’ era scappato, chi aveva visto circolare la “polverina”, chi aveva mollato perché servivano i soldi per aiutare la famiglia o per uscire la sera,“picchì i ‘me cumpagni eranu troppu picciriddi pi mia”…Vi ricordate? C’era anche Giuseppe che, a 17 anni, aveva già una ragazza incinta da mantenere.
Quasi tutti, col passare delle settimane, cominciavano ad abbandonare la diffidenza verso i professori e la paura di non farcela. E accadevano cose strane e bellissime:
Si leggeva e commentava la Costituzione italiana con chi, come voi, era avvezzo a leggere la “Gazzetta dello Sport” o tutt’al più, sfogliava distrattamente il quotidiano locale insieme alla più allettante “Cronaca vera”… Dopo la lettura dei primi articoli, eliminato l’ostacolo delle parole difficili che erano tutte spiegate e tradotte, ci appassionavamo insieme a quella strana e inusuale lettura.
Si sentivano commenti del tipo: “Non sapevo di avere questi diritti….allora perché non ci danno il lavoro? Professore’, ma ci sta facendo leggere una bella favola?…… “Ma allora il lavoro mi spetta di diritto e non perché ci dò il voto o ci faccio il favore a qualcuno”…“Ma perché, se abbiamo tutti la stessa dignità, a mio nipote di 18 anni, i poliziotti l’hanno fracchiato a legnate solo perché l’hanno scambiato per un sospettato? “ “Se questa è la legge più importante dello stato italiano, perché in Sicilia noi lavoratori non abbiamo diritti e siamo sfruttati?….”
Dalla lettura della Costituzione a parlare di sfruttamento o intimidazioni, di elementari diritti violati, di raccomandazioni, di voti comprati per fame, di chi, al di là della legge, comandava veramente, in Comune e nel proprio cantiere, il passo era breve…I più onesti e coraggiosi elencavano ingiustizie e vessazioni subite e conosciute, altri si limitavano ad annuire in silenzio, stringendosi alle spalle. Ma alla fine qualcuno affermava con tristezza: “Lei dice cose belle, professoressa, ma tanto in Sicilia non cambierà mai niente…”
E invece, pur ascoltando con umiltà e rispetto i vostri interventi, sera dopo sera, i miei colleghi e io cercavamo di scalfire almeno un po’ il muro possente della sfiducia in se stessi, del fatalismo, della rassegnazione a un sistema di illegalità diffusa. La pesante convinzione di essere destinati a rimanere perdenti, senza alcuna speranza di cambiamento e di riscatto, in una città dove trovare un lavoro e una casa decente erano un miraggio.
Qualche volta, in questo muro, siamo riusciti ad aprire una breccia: come quando abbiamo ammesso agli esami C., sedicenne balbuziente, convinto di non essere assolutamente capace di conquistare l’ambito diploma: “Perché non so scrivere – mi sussurrava all’orecchio – e mi vergogno a parlare.” E che invece, ogni sera, ascoltava le lezioni di storia e geografia con occhi e orecchi attentissimi, tanto da essere ammesso agli esami senza particolari problemi. E che, alla fine di giugno, con gli occhi brillanti per la commozione, lui, penultimo di otto figli, mi confidò che il suo sogno era di arruolarsi tra i carabinieri: “Così mi pa…mi pa.. mi pagano giu…giusto e aiu…aiuto la fa.. fa… famiglia”.
O come quando il sig. L., che di mestiere faceva il vetraio, comparando i titoli e i sottotitoli di sei quotidiani, riuscì a comprendere quali giornali erano a favore e quali contrari alla guerra nel Golfo. Ed esclamò trionfante che, se fosse stato attento, nessun politicante o telegiornale avrebbe potuto ingannarlo.

Nel vostro corso, il sig. B, che faceva l’edicolante, si commosse tanto ascoltando il rappresentante dell’associazione “Amici dei Lebbrosi” che aveva parlato dell’importanza della scuola per andare avanti nella vita, da avere l’ardire di dire in pubblico, davanti a tutti: “Prima di venire a scuola, io che ho solo la seconda elementare, mi sentivo oppresso dalla mia ignoranza, incapace di parlare…. è come se la scuola avesse aperto una finestra nella mia mente e mi avesse liberato….”
Cercavamo di essere ponte tra voi e quella fetta di società civile che a, Palermo e a Bagheria, negli anni ’80 e ‘90 lottava per costruire rapporti umani, sociali, economici, politici più trasparenti e più giusti… Invitavamo missionari, sindacalisti, assistenti sociali, medici, commercianti, persone di buona volontà impegnate nel volontariato, affinché, attraverso la reciproca conoscenza e il confronto, intravedessimo insieme la possibilità di un’altra vita, per ciascuno e per tutti, più degna e più umana…
Alcuni di voi hanno cominciato a pensare di non essere buoni solo per fare da manovalanza alla mafia, e che essere onesti, trovare o inventarsi un lavoro senza baciare le mani a nessuno, forse era possibile. Ne abbiamo avuto la prova quando siamo andati a intervistare quei ragazzi che avevano aperto una trattoria nel centro storico, aiutati solo dalle persone di buona volontà di un centro sociale del quartiere…
O, quando, abbiamo realizzato un video intitolato: “Sognando Palermo, a occhi bene aperti…” nel quale molti di voi hanno cominciato a parlare della Palermo che avevano nel cuore.
Un vostro compagno, che faceva il pasticciere, ebbe il coraggio di dire delle cose molte belle a commento di un articolo di cronaca che avevamo letto insieme. Quello che raccontava di un giudice invitato dalla direttrice dell’asilo del figlio a non prendere il bambino da scuola perché la sua venuta con la scorta disturbava i genitori degli altri bambini. Il sig. S. rifletté insieme a noi sul fatto che la maggior parte dei palermitani sarebbe stata d’accordo con i genitori dei compagni del figlio del magistrato, “perché a Palermo si dice che è colpa di tutte queste scorte se ci dobbiamo scantare… Ma io dico che quello è un padre e ha diritto di prendere suo figlio dalla scuola, la colpa dello scanto delle sparatorie e degli attentati è della mafia….”
E così, a poco a poco il muro del silenzio e della rassegnazione cominciava a incrinarsi.
Nel novembre del 1989, un muro lo abbiamo visto cadere veramente: il muro di Berlino.
Quell’anno, abbiamo provato l’emozione di vivere la storia in diretta: era come se anche noi - carpentieri, disoccupati, professori, muratori, casalinghe, panettieri, fruttivendoli, noi palermitani riuniti assieme dalle sei alle nove di sera per imparare qualcosa insieme - fossimo lì, a Berlino, a demolire gioiosamente quel muro, a gioire per la fine della guerra fredda, delle divisioni tra est e ovest, a sperare in una nuova era di pace e collaborazione tra i popoli. Seduti in classe accanto alla Storia, abbiamo provato a camminarle accanto, affascinati e partecipi del suo nuovo passo.
Si sentivano commenti del tipo: “Bravo Gorbaciov, quello non era comunismo giusto…..I comunisti hanno capito che non si poteva difendere il socialismo con la dittatura….”
Abbiamo festeggiato la riunificazione della Germania e il ritorno della democrazia in Polonia, in Cecoslovacchia, in Ungheria e nei vari stati dell’est.

Poi, nel ’92, la storia ci ha ancora sorpreso. Questa volta una storia vicinissima al nostro orizzonte, a noi già tristemente nota, la storia della brutale violenza della mafia, che ha ammazzato i giudici Falcone e Borsellino e le loro scorte.
Bisognava essere palermitani per capire la rabbia, lo sdegno, il dolore, lo strazio di quelle stragi. Quell’orrore ci ha svegliato da un lungo torpore e pareva ci avesse definitivamente liberati dalla tentazione di convivere con la mafia.
Siamo andati insieme alle manifestazioni, abbiamo gridato “Palermo è nostra e non di Cosa nostra”, mentre, magari, alcuni di voi Cosa nostra ce l’avevano veramente in casa o nel cortile.
Il sogno di cambiare Palermo è poi sembrato divenire realtà con Orlando, eletto sindaco anche con i vostri voti e con l’aiuto e l’appoggio dei cittadini di buona volontà di ogni classe sociale. Orlando è divenuto il vostro paladino, e ci ha promesso che la nostra città da capitale del crimine mafioso si sarebbe prodigiosamente trasformata in “una città normale”.
E noi tutti gli abbiamo creduto.
Ci è parso che il sindaco avesse fatto il miracolo: far sentire uniti i palermitani nell’unico sogno di riscatto. Si, perché Palermo è una città strana, abitata da anime diverse, estranee, spesso persino nemiche. A scuola a volte, dicevate: “Quelli di viale Strasburgo….Che ti senti un signorino di via Libertà?…” Più che nelle altre città, nella nostra i poveri guardavano male i ricchi, quelli delle borgate si sentivano diversi da quelli del centro, gli impiegati non capivano i disoccupati, i commercianti irridevano gli intellettuali…C’era una Palermo lacerata e smembrata, c’erano pezzi di città che s’ignoravano, non si parlavano, non si capivano. Orlando è riuscito a interpretare gli umori, i desideri, le attese, le speranze dell’anima migliore dei palermitani. E a convogliare in una proposta politica nuova la voglia sincera di pulizia, di legalità, di giustizia di noi tutti, venditori ambulanti e insegnanti, disoccupati e commercianti, impiegati e casalinghe.

C’è voluto del tempo per capire che per creare in città un cambiamento significativo e duraturo non potevano bastare gli slogan, non era sufficiente un buon sindaco-paladino, ma solitario e talvolta un po’ troppo accentratore e ingombrante.
Siamo stati capaci di sognare, ma non abbiamo saputo tradurre il sogno in realtà. Abbiamo fatto sbocciare i fiori di una primavera, ma non abbiamo saputo coltivarne con pazienza i frutti. Ci siamo resi conto troppo tardi che per cambiare veramente Palermo avremmo dovuto portare il cambiamento dentro noi stessi e non solo nelle facce di chi ci amministrava: avremmo dovuto osare di più, diventare tutti più onesti, più trasparenti, se necessario più coraggiosi …
Non ci siamo riusciti. E così, dopo gli anni della primavera, la nostra voglia di riscatto è stata in parte dispersa e annientata e molti purtroppo si sono consegnati agli antichi poteri.
Ancora una volta molti di voi si sono sentiti i soliti siciliani perduti.
Ma voi, cari Roberto e Cosimo, vi eravate perduti già prima.
A scuola non andavate affatto bene: lei, Roberto, si assentava spesso e, quando c’era, si limitava a fare, ogni tanto, un indecifrabile mezzo sorriso. Lei, caro Cosimo, era un ventenne sfuggente e un po’ triste. In una esercitazione di italiano mi ha scritto due righe: “So che non merito la terza media, ma mi piacerebbe tanto averla…”
Voi non avete visto cadere nessun muro né fiorire alcuna primavera: la barriera impenetrabile della morte vi ha sottratto a noi troppo presto e troppo crudelmente.
Lei, Roberto, è scomparso già nel giugno dell’89, per un terribile incidente automobilistico che ha divorato la sua vita insieme a quella di sua moglie e dei suoi due bambini.
Lei, Cosimo, se n’è andato poco tempo dopo, ucciso mentre tentava una rapina maldestra e disperata.
Noi siamo rimasti qui.
Pieni di tristezza e di rimorso.
Dalla vita, dalla società, dalla scuola avete ricevuto davvero poco.
Neppure la terza media.

Pubblicata nella rivista "Segno",  n.252/Febbr. 2004)

lunedì 16 marzo 2009

Lo Chopin partiva



Proprio perché oggi ci sono troppe donne convinte dall’imbonitore televisivo di turno che uno dei loro principali problemi sia “quel fastidioso prurito intimo” e molte altre il cui sogno principale è andare a sgambettare da “Amici” o vincere una selezione per fare la velina, la raccolta Lo chopin partiva. Storie di donne, edito dal mensile forlivese "Una città", 2007, Forlì (prefazione di Lea Melandri) è un libro necessario.
In esso, ventisei donne raccontano un pezzettino della loro storia personale che in molti casi si è intrecciata, spesso dolorosamente, con la Grande Storia. Guerre, persecuzioni razziali, eventi personali e collettivi di oggi o di un ieri solo passato prossimo, sono raccontati e filtrati dalla sensibilità, dall’esperienza, dalla materialità complessa che, forse, solo uno sguardo femminile sa esprimere.
Confesso che non sono riuscita a leggere la raccolta tutta d’un fiato. Ho avuto bisogno di sostare, di fermarmi, di prendere una boccata d’aria tra un racconto e il successivo, tali sono le emozioni trasmesse, la forza e l’intensità delle esperienze di vita raccontate. Che puoi gustare e assaporare solo a piccoli sorsi.
Con una prosa essenziale, senza fronzoli, senza retorica, con la naturalezza e la semplicità di chi si racconta mentre è alle prese con una pietanza da sfornare o con una camicia da stirare, Lisa Foa ci fa sentire il clima quasi magico della Resistenza quando “bastava un’occhiata durante un rastrellamento o una perquisizione in treno per capire chi ti poteva dare una mano” (pag.40); Elisabeth Seebacher racconta la realtà dura del maso, in SudTirolo, dove sino a sessanta anni fa, la perdita di una mucca era più grave della morte di una donna per parto; Laura Bonaparte, una madre di plaza de Maio, ci narra la sua lotta ostinata per ritrovare almeno i corpi dei tre figli uccisi e per tramandare la memoria storica della barbarie accaduta in Argentina…
Nelly Norton, ebrea polacca trapiantata in Italia dopo l’inatteso rigurgito antisemita diffusosi in Polonia nel ’67 dopo la guerra dei Sei giorni, col suo accorato narrare ci fornisce la spiegazione del titolo della raccolta: “Chopin si chiamava il treno che partiva da Varsavia e arrivava a Vienna (…) dove c’erano i campi di raccolta organizzati dalle associazioni ebraiche….” Mentre è di Gina Gatto, esule in Italia dopo le torture subite in Cile per l’opposizione alla dittatura di Pinochet, la bella foto di copertina. D’altra parte la raccolta non sarebbe la stessa senza le foto, che permettono a chi legge di dare una volto, una materialità carnale ad ognuna delle donne che raccontano e si raccontano. C’è poi un ulteriore motivo che rende prezioso questo libro: la pluralità dei piani di lettura. La raccolta infatti ha un suo spessore e una sua valenza significativa intanto come composita raccolta di memorie, ma è anche un piccolo, ricco e originale libro di storia, che spazia dalla II guerra mondiale al dramma dei profughi istriani; dalla Resistenza e dalla Shoah all’antisemitismo di ieri e di oggi; dal terrorismo degli anni ’70 al golpe di Pinochet e quello dei militari in Argentina; dalle peregrinazioni di un anarchico bastonato dai fascisti alla battaglia di Solidarnosc contro il comunismo totalitario. E altro ancora…
Perché poi non provare a leggerlo come libro di “genere”? O anche come una poliedrica storia del costume, viste le tante storie con risvolti sociologici: la vita difficile di chi è madre di una disabile, la solitudine dinanzi alla malattia e al disagio psichico, il senso del volontariato oggi, in Italia, in mezzo ai malati di Aids, in Perù, nel doloroso rapporto Nord/Sud…Per non parlare infine dell’implicita valenza didattico-educativa, che, a mio avviso, lo renderebbe necessario nella valigia degli attrezzi di ogni docente di Lettere delle scuole superiori. Docente che, attraverso la lettura de Lo chopin partiva, potrebbe suggerire ed evocare, nuove, altrettanto belle, narrazioni.
Maria D'Asaro

Stanze vuote


Stanze vuote

urlano in silenzio

la tua assenza.

Giano Bifronte


“Avevo fame e mi deste da mangiare, avevo sete e mi deste da bere, ero pellegrino e mi avete dato ospitalità, nudo e mi avete dato vestiti, malato e mi avete curato e visitato….”
Queste azioni pare abbia suggerito di fare gli uni per gli altri un certo Cristo, vissuto in Palestina circa 2000 anni fa. Da molti ritenuto di origine divina. Mi dispiace che le rammenti io, cattolica praticante dalle molte incertezze esistenziali, e se ne dimentichi la maggioranza del Parlamento, proponendo alla nazione il pacchetto-sicurezza che implicherebbe la denuncia degli esseri umani ammalati, non in regola con il permesso di soggiorno.
In questo modo la nostra maggioranza rivela la sua vera natura, più materialista dei tanto vituperati comunisti estinti: quello che conta veramente è tenerci strette le nostre risorse, le nostre medicine, il nostro salotto buono. Gli altri – gli stranieri – se ne stiano a casa loro. O li denunciamo, anche se malati e sofferenti. Al di là delle belle dichiarazioni di principio, siamo strutturalmente e inguaribilmente egoisti e materialisti. Forse, ora e sempre, ci sono Hobbes e Malthus nascosti in ognuno di noi. Sicuramente ghignano beffardi dietro i nostri governanti, che di notte tessono la tela dell’intolleranza e della più bieca esclusione, e di giorno si strappano le vesti per proclamare le radici cristiane dell’Europa.

(Maria D'Asaro; Giornale telematico NONVIOLENZA IN CAMMINO: n. 738 del 21 febbraio 2009)

VACANZA A LINOSA


Fondali trasparenti. Mare dalle mille sfumature di azzurro. Un paesino composto e ospitale: Linosa è un’oasi felice per il fortunato turista in vacanza. Poi, sulla nave che fa la spola tra Lampedusa e Linosa e ritorna a Porto Empedocle, ti accorgi dei carabinieri in uniforme che guardano a vista i clandestini: un mare di sguardi stanchi e spenti, in corpi scarni e senza speranza.
E la bella vacanza ti lascia un retrogusto di inquietudine: ormai sai che, oltre al sole e al mare pulito, ci vogliono nuovi pensieri, nuovi orizzonti, nuove condivisioni. Altrimenti la vacanza non regge.


("La Repubblica": 10.08.08)

sabato 14 marzo 2009

Piedi per terra

Non amo stare con la testa tra le nuvole.

Anzi, che i miei piu' autentici attacchi di panico li ho avuti proprio su un aereo. E che quindi la mia difesa di mezzi di trasporto alternativi potrebbe essere viziata da questa mia personale debolezza. Dico anche pero' che non rifiuto, a certe condizioni, di utilizzarlo, l'aeroplano. Ad esempio, tempo fa sono andata a Londra in aereo. Sorvolando la Francia, inghiottito il penultimo morso di paura, ho contemplato i cirri che riempivano il cielo e ho pensato che si', gli angioletti invisibili, se esistono, dovevano proprio essere li'.
Reso questo tributo alla verita', affermo di essere assolutamente d'accordo con chi si batte per una drastica riduzione del trasporto aereo. Infatti, se servirsi dell'aeroplano ha una "ratio" per recarsi, ad esempio, da Palermo a Londra, a mio avviso, non ne ha alcuna per andare da Palermo a Roma o a Milano. Tutte le volte che le distanze lo permettono, il treno, molto meno inquinante, dovrebbe essere preferito all'aereo, mezzo di trasporto energivoro, responsabile per svariate tonnellate di gas dell'effetto serra e concausa di danni alla salute delle popolazioni che vivono vicine agli aeroporti. Al comitato che si oppone alla realizzazione dell'aeroporto a Viterbo va la mia stima, il mio sostegno, la mia solidarieta'. Il tentativo di riduzione del traffico aereo andrebbe iscritto nella conversione del nostro immaginario dal motto olimpico "Piu' veloce, piu' alto, piu' forte", verso orizzonti e stili di vita "Piu' lenti, piu'profondi, piu' dolci", come ci suggeriva il caro Alex Langer.
Abbiamo tutti fatto esperienza di viaggi in treno - che pero' desideriamo in futuro piu' puliti - dove si puo' leggere, si puo' guardare il paesaggio, si ha contezza delle distanze tra i luoghi e si puo' meditare, dondolati dal vagone "Cara amica il tempo prende, il tempo da', noi corriamo sempre in unadirezione, ma qual sia e che senso abbia chi lo sa...", su spunti di gucciniana memoria.
Certo molti obietterebbero che il treno fa perdere tempo... Tempo per cosa, tempo per chi? Qual e' la nostra destinazione finale, per cui correre cosi' in fretta? Divagazioni esistenzial-filosofiche, che non hanno niente di pratico, di concreto, di economico... E' che mi piacerebbe tanto che in Italia si desse inizio a un nuovo umanesimo che abbia al suo centro le persone, con i loro veri bisogni, e la natura. Un nuovo umanesimo in cui economia e profitti stiano in periferia...
Sto irrimediabilmente volando, anche se con i piedi a terra. Allora, un'ultima affermazione, mutuata da Rudolph Steiner, filosofo e studioso di antroposofia: "Quando l'uomo corre oltre i 50 km. orari, perde il contatto con la propria anima...". Solo strane e improponibili suggestioni antroposofiche? Forse...
Maria D'Asaro (Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino", n. 96 del 21 agosto 2007)

venerdì 13 marzo 2009

Flags of our fathers


C’è un gioco che gli uomini continuano a fare da millenni: la guerra. Attraverso le immagini suggestivamente scolorite dello scontro tra americani e giapponesi nel Pacifico, Clint Eastwood sembra dirci che chi fa questo gioco perde sempre. Anche i vincitori. E infatti non vogliono essere promossi a eroi neppure coloro che hanno piantato la bandiera americana sul monte dell’isola giapponese di Iwo Jima: i tre soldati immortalati da un fortuito scatto cinematografico, rivelatosi di enorme impatto mediatico. Rimpatriati anche se la guerra non è ancora finita, i tre sono costretti a parodiare sino allo sfinimento psicologico la posa della bandiera, per commuovere gli americani e convincerli a continuare a finanziare lo sforzo bellico. Con un sottofondo musicale eccellente, il film mescola sapientemente le atrocità della guerra e le smargiassate della sua esaltazione retorica in patria: il fragore delle bombe si confonde con il rumore dei fuochi d’artificio della vittoria, le luci della festa si sovrappongono ai bagliori dei razzi esplosivi. Ma ci vuole una coscienza anestetizzata o asservita al successo e al potere per potere sopportare il costo del gioco e della sua assurda replicazione scenica: il soldato indiano non ce la fa a sopportarlo. “Maledetta quella terra che ha bisogno di eroi”, affermava Brecht. E il regista è d’accordo: se nel gioco della guerra ci sono degli eroi è solo per amore e pietà verso i compagni, come l’umile soldato/infermiere che tenta disperatamente e con infinita compassione di lenire le sofferenze e lo strazio dei soldati.

Il dubbio


“A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si indovina”, la massima, di andreottiana memoria, potrebbe essere scelta come quintessenza del film “Il dubbio”, ottimamente recitato da Meryl Streep e Philiph Hoffman. Ambientato nella New York degli anni ’60, il film ci racconta uno squarcio di vita in una parrocchia americana, con scuola annessa, gestita da una congregazione di suore cattoliche. La cui vita ovattata ha un sussulto quando la suora/preside è attraversata dal sospetto che le attenzioni del parroco per un allievo di colore siano interessate “a scopi non pertinenti all’educazione del ragazzo”.
Il film - ma spesso si dimentica di essere al cinema e sembra di assistere a una piece teatrale - si gioca tutto sul chiaroscuro tra l’arcigna superiora, che però sembra conoscere a fondo l’anima umana, e il simpatico parroco progressista, che forse cela tendenze che oggi non esiteremmo a chiamare pedofile. Sono i particolari che danno senso e sapore alla pellicola: le unghie troppo lunghe e ben curate del parroco, il clima esterno ostinatamente freddo e ventoso, quasi specchio del paesaggio interno dei religiosi, l’indugiare della macchina da presa sulle pareti scalcinate della canonica … Come a suggerire il rischio di un universo a rischio di frane.
Si esce dalla proiezione con uno strano retrogusto. Forse perché, nonostante i protagonisti siano religiosi, non c’è nessun afflato verticale che si respiri al suo interno. Forse perchè il film non riesce a coinvolgerti emotivamente. E comunque non se ne esce delusi o scontenti: il regista Shanley ha offerto un buon prodotto, che solletica al massimo la dimensione razional-raziocinante dello spettatore/spettatrice.

The Reader


Difficile dire, per la ricchezza poliedrica dei temi trattati e per la sua toccante intensità, cosa sia “The Reader”, splendido film di Stephen Daldry. Se un film sull’orrore di Auschwitz e sulle banali e inquietanti complicità che lo hanno reso tragicamente possibile (come non ricordare Hanna Arendt e il suo saggio “La banalità del male”?) e sulle assillanti domande che la Shoah pone al Tribunale della Storia, domande destinate a non avere risposte univoche e chiare - O semplicemente un film sull’iniziazione: al sesso e all’amore in primo luogo - Oppure un film sulla letteratura e il suo immenso potenziale catartico: un racconto sull’iniziazione al piacere di leggere (o farsi leggere) le storie narrate dai libri.
Libri che nel film sono un diaframma, un filtro, una barriera protettiva, un topos virtuale dove trovare protezione e rifugio, specie se la realtà è troppo dura e vuota. Ma “The Reader” è anche il film che racconta la difficoltà di uscire dalle proprie iniziazioni, siano esse l’ubbidienza incondizionata agli ordini nazisti o solo le dolci carezze di una sconosciuta bigliettaia di tram: iniziazioni che si trasformano, per Michael e Hanna, in prigioni esistenziali. Non del tutto redente e salvate dalle tante pagine lette, in mancanza di uno sguardo affettuoso, di una pietas superiore che avrebbero forse potuto riscattare la loro sconfinata solitudine.
La vicenda coinvolge pienamente lo spettatore e sembra suggerirgli uno sguardo, pur se non assolutorio, profondamente compassionevole e nonviolento: nel film infatti, vittime e carnefici non sono poi così lontani e diversi, ma mostrano simili pulsioni, paure, condizionamenti e sentimenti. Quasi a dirci che potrebbero essere l’uno il negativo del volto dell’altro.
Magnifica l’interpretazione di Kate Winslet, che, impeccabile anche nel ruolo di moglie infelice in “Revolutionary Road”, a questa prova deve la statuetta dell’Oscar.

Caos calmo: una panchina in stand-by


Arriva prima o poi nella vita di ogni uomo/donna un tempo in cui è necessario premere, come in un computer irrimediabilmente ingolfato, il tasto “reset”. Per Pietro Paladini, professionista di successo, questo momento arriva quando - proprio mentre si era gettato in mare a salvare una donna che stava annegando – muore all’improvviso sua moglie. E il protagonista viene catapultato nell’imbarazzante condizione di vedovo a fronteggiare la sua solitudine e la condizione di genitore unico della figlia ragazzina.
A questo punto Pietro sceglie come luogo fisico della sua “riformattazione” la panchina del giardinetto posto sotto la scuola della figlia. Da cui osservare insieme se stesso e il microcosmo che ha vicino: la belloccia a passeggio con il cane, i genitori che portano a scuola i figli - compresa la mamma di un ragazzino down per il quale Andrea si ritrova a compiere una sorta di quotidiano gioco rituale che riesce a farlo sorridere - il barista che, all’occorrenza, cucina un buon piatto di pasta con i broccoletti….
E accade che, dall’immobilità inusuale e un po’ folle della sua panchina, quasi suo malgrado, riesca a mettere pian piano in movimento tutti quelli che gli si avvicinano. E alla fine, a “riavviare” anche se stesso.
Film delicato e convincente: felice l’intuizione di mostrare il mondo interiore del protagonista attraverso la lettura ad alta voce dei suoi pensieri in libertà, buona la sceneggiatura, azzeccata la recitazione di Nanni Moretti, che ci offre una prova da attore quasi complementare a quella, magistrale, de “La stanza del figlio”. Dove il lutto e la sua quasi impossibile elaborazione erano elementi tragici, mentre nell’ossimorico “Caos calmo”, Nanni/Pietro riesce a raccontare e a dissolvere la sua solitudine nei toni lievi di una gradevole commedia.

Muse inquietanti


(...) Mentre ascoltava quella loro musica, si chiese quando era successo. Quando avesse cominciato a tradirla. Quando si fosse stufato della musica comune, di una sintonia e di una complicità vissute come logore, consunte, insufficienti. Se lo chiese in silenzio, senza rancore, con dolcezza. Come quando ci si rivolge amabilmente a un bambino che piange perchè gli è scoppiato il palloncino azzurro, dopo la festa. Si chiese che musica cercasse in V., J., F., S., D., L. .... Nel caleidoscopio di volti nei quali, ora, disperatamente anelava a nuovi rispecchiamenti. 

     E si disse che sicuramente c'era l'intervento di nuove Muse. Muse inquietanti, impenetrabili, che giocavano a escluderla. Eppure era certa di conoscerle, queste Muse. Di averle, una volta, incontrate. E pensò che poteva anche, domani, guardarle negli occhi. Senza averne paura. La musica, la loro musica, l'avrebbe protetta e cullata. (...)

giovedì 12 marzo 2009

Mimose? No, Grazie.

     "Uguali, ma non per fare le stesse scempiaggini e soperchierie!", ci ammoniva anni fa - con espressione piu' rozza - una vignetta del glorioso e rimpianto settimanale satirico "Cuore" .L'amara attualita' della vignetta e' confermata da tanti dati: a scuola si registra uno sconcertante aumento di bulli, ma anche di "bullette"; in politica, nel mondo del lavoro, nell'esercito le donne in carriera sono spesso belle copie del cinico, duro e rampante modello maschile. E intanto i canoni pubblicitari continuano a rimandarci un'immagine di donna che va in estasi se trova l'ammorbidente piu' profumato e permette che il suo corpo seducente venga accostato alla sagoma di un'inquinante automobile perche' il cliente maschio, confuso nei suoi molteplici desideri di possesso, sia invogliato a comprarla.Uguali, dunque. Ma - complice anche l'aria pesante di destra che tira -quando c'e', si tratta quasi sempre di un'uguaglianza al ribasso. Dopo la necessaria e radicale stagione delle rivendicazioni degli anni '60 e '70 e il nulla odierno popolato da "veline" e da un nugolo sempre crescente di aspiranti al palcoscenico di "Amici" o del "Grande fratello", noi donne abbiamo bisogno di un colpo d'ala. Di sognare un orizzonte in cui uomini e donne insieme inventino e sperimentino nuovi stili di vita: piu' dolci, piu 'lenti, piu' profondi, nonviolenti ed ecologicamente orientati.La mia speranza e' che, rifiutando mimose sciaguratamente scempiate,riusciamo a inventare insieme nuovi, piu' attraenti e colorati, paradigmi esistenziali, culturali, socio-economici. Con l'altra meta' del cielo protagonista di una inedita joint-venture tra uomini e donne ricchi d icreativita' e di buona volonta'. In cui le donne, grazie anche al loro maggiore bagaglio di sofferenza che ne ha accresciuto la sensibilita', facciano da avanguardia e da lievito. Evitando, se possibile, di ripetere laStoria coniugata al maschile: monotona, triste, violenta. Gia' vista.

(Supplemento giornale telematicode "La nonviolenza e' in cammino": n. 163 del 7 marzo 2009)

CREMA DI MAIS E TAPIOCA


A volte qualcuno mi rimprovera perché metto in ordine la stanza dell’oltre-cucciola 22enne. Oppure perché rispondo, sollecita, alle richieste serali – mi porti l’acqua? mi rimbocchi le coperte? mi accendi la lucina? - dell’ex-cucciolo 13enne e sorrido al fantasioso cazzeggio verbale dell’irrequieto grande-cucciolo 18enne.Non sa che c’è una vocina interna che me lo suggerisce. La sensazione che i grandi-cuccioli abbiano ancora il disgusto per quella pappina - insipida, inconsistente, insapore - con la quale sono stati svezzati, dopo lo scarso latte materno: la crema di riso. E più ancora la crema di mais e tapioca. Che ha lasciato in loro, insaziata, la voglia di cibo più appetitoso.Cucinare allettanti lasagne, rimboccare coperte, dispensare ascolto e sorrisi, far trionfare calzini puliti dal magma di notte e caos della stanza di I., mi pare cosa buona. Nutriente, opportuna. Sapendo che ormai sono altrove. Loro ovviamente. E anch’io… Capita però che escano dall’altrove e abbiano fame. E vogliano succo di arancia e cioccolata calda. E persino torte e timballi. Che prontamente cucino. Con sale e pepe e zucchero a velo, però. E con abbondanti sorrisi.

martedì 10 marzo 2009

ALTROVE


Altrove

spaventosamente libera,

curiosa, volteggio, stupita.

Affrancata da ogni amore.

Sola.