sabato 27 novembre 2010

Segni dei tempi

    Meriterebbe maggiore attenzione “De reditu”/Il ritorno, film di nicchia che racconta il punto di vista di Claudio Rutilio Namaziano, prefetto a Roma nel 412 a.C., vanamente impegnato a contrastare l’ineluttabile disfacimento dell’impero romano.
Con sguardo attento, Namaziano coglie i numerosi segnali della fine: la diffusione del culto cristiano, per lui irrazionale e incomprensibile, il sempre maggiore controllo del territorio da parte dei barbari, la chiusura di ciascuno verso il proprio “particulare”…
    Anno domini 2010: in un quartiere periferico di Palermo liti furibonde per un telefonino in offerta presso un nuovo mega-centro commerciale, dove ragazzi inebetiti bivaccano senza meta a tutte le ore. Affollati giorno e notte per il rito quotidiano del gratta-e-vinci i troppi punti Snai della città. Tutto questo mentre i capelli di tante concittadine si tingono di un rosso più acceso della lava dell’Etna.
Dicci, Claudio Rutilio: sono forse i segni premonitori della fine della nostra presunta civiltà?

Maria D’Asaro (pubblicato su “Centonove” il 26-11-2010)


venerdì 26 novembre 2010

MULAN AND ME...

Che cosa è necessario inventarsi per far vedere che anche noi donne valiamo qualcosa!
Nel giorno contro la violenza sulle donne....

Coraggio, Mari...

     Di alcune cose, invece, non aveva affatto paura.
Dei topi, ad esempio. - Che carino! – aveva esclamato, in un tempo lontano, quando i grandi in famiglia davano la caccia a un topolino infiltrato in cucina. Nella grande casa, in paese.
    Non aveva paura degli scarafaggi. Neanche di quelli marrone scuro, con le ali. Glissando su nonviolenza e dintorni, a volte li uccideva spietata, vicino al portone di casa.
   Non aveva avuto paura di partorire tre figli.
  Non aveva paura dei ladri. Né degli zingari. E neppure degli extracomunitari. Non temeva Methody, il bulgaro che chiedeva l’elemosina al semaforo. - Come stanno i tuoi figli? E tua moglie?- gli chiedeva talvolta.
   Era l’esperta, in famiglia, nella caccia di vespe e di calabroni: che afferrava e riusciva a cacciare fuori dalla finestra, regalando loro di vivere. Fedele, questa volta, a Gandhi e a Capitini.
     Non aveva paura di essere in minoranza. A casa. A scuola. In città. Le bastava il sostegno di una sola persona, magari. Non aveva paura di vestire alla buona. Con i jeans e la maglietta. Anche se tutti avevano scarpe e borse firmate.
    Non aveva paura di parlare: anche a trecento persone. Il cuore le batteva forte, è vero, ma questo lo sapeva lei sola. Non aveva paura di cambiare lavoro. Chi lo sa, tra un po’ ne avrebbe fatto un altro, ancora diverso. Non aveva paura di seguire i suoi sogni. Veramente ogni tanto mollava. Ma poi iniziava a sognare di nuovo.
    Non aveva paura di leggere un libro sempre diverso.
   Non aveva paura di scrivere. E infatti scriveva. Anche sciocchezze al quadrato. Senza paura di chiedere scusa, ai suoi sette lettori.

mercoledì 24 novembre 2010

NEL BLU DIPINTO DI BLU


Una signora con un manto marrone, che filava la lana, facendo rumore. Nella penombra notturna della stanza da letto dei suoi. Questa, una sue delle prime paure. Aveva, forse, tre anni.
Poi la paura del diavolo, che - diceva una zia - le sarebbe apparso senz’altro, se si ostinava a guardarsi nello specchio della sartoria di papà. Perché lei amava specchiarsi, nei lunghi pomeriggi da bimba, pieni di silenzio e di niente. Adorna di collane e rosari, cantava inni sacri e profani, con la camicia da notte di mamma e lo scialle di nonna; e in testa improvvisati diademi la trasformavano in una vera regina.
Per fortuna, per quanto sostasse temerariamente allo specchio, il diavolo non si fece vedere. A poco a poco, lei smise di averne paura.

Ma poi bussò all’anticamera dei pensieri una paura diversa. Che le apparisse la Madonna. O il Signore in persona. Forse perché la solita zia ne parlava sovente: la Madonna, già apparsa ai pastorelli in Cova d’Iria, poteva mostrarsi di nuovo. E se fosse stata lei la predestinata a così alto colloquio, rimuginava l’ormai alunna di quarta?
Passavano gli anni: lo spavento per le apparizioni cedette il posto a nuovi timori: che la Morte, con sembianze orrende di vecchia, la prendesse per mano. Solo nascosta nel lettone dei suoi, col respiro caldo e sereno di mamma, riusciva a trovare conforto.
Che vergogna, aveva già la maturità nel cassetto, quando contrasse la paura degli Ufo. Magari erano proprio vicini: magari, dopo che la Madonna aveva deciso di sorridere o piangere altrove, erano loro, adesso a volere parlare con lei…

Poi, furono messi da parte anche gli extraterrestri, e le paure divennero molto terrene. Che non riuscisse a studiare. Che il ragazzo dal nome strano non fosse la persona giusta per lei. Che la guerra da fredda divenisse bollente, con i missili a Comiso. Che a Palermo ammazzassero tutti gli onesti. E soprattutto che morisse sua madre.
Un giorno sua madre morì veramente. Nessun catenaccio aveva fermato la Falce. Già prima era morto suo padre. La morte, ormai l’ha conosciuta. E’ il vuoto assoluto, in un punto preciso del petto, quello che continua a temere di più.

Adesso convive con paure più spicciole. Che un giorno dimentichi tutte le belle parole che usa e abbia lo sguardo sperduto del signore del primo piano. Che i suoi figli sposino persone e cause sbagliate.
Che nessuno, magari per finta, le dica: - Ti amo –
E ha ancora il timore delle onde del mare. E di guardare giù, dal ventesimo piano.
Però ha aperto la porta alle sue mille paure: le accoglie, dice loro: buongiorno. Da personcina educata, offre loro da bere: una granita d’estate e una tisana d’inverno.
E, l’ultima volta, ha preso l’aereo e ha sorriso. Felice di volare vicina alle nuvole chiare.
Nel blu dipinto di blu.

martedì 23 novembre 2010

LE STELLE AND ME


No, non gli astri celesti, peraltro nascosti dalle nuvole gonfie di questo bizzoso Novembre. Ma le stelline di dolore che circondano il capo di Paperino quando prende una botta, in una delle sue tragicomiche disavventure.
Prima l’infiammazione al nervo sciatico. Roba con cui conviveva ogni inverno. Poi quella stupida ferita al mignolo del piede destro, che si era procurata non si sa bene come e perché. Così, non appena calzava anche solo una vecchia ciabatta, un nugolo di stelle ballava dispettoso intorno al suo piede.
“Non andare al lavoro, non avrai di certo una medaglia al valore – suggeriva la Maggiore.
Ma lei si vergognava: chiedere un certificato medico solo per un misero dito escoriato… Mentre qualche valorosa collega andava a scuola col il cancro e la chemio. E poi c’erano i bimbi sperduti che l’aspettavano…

Solo che, a piedi nudi, a scuola era impossibile andare. Così, non appena calzava gli stivaletti, il balletto di stelle riprendeva a danzare vorticosamente davanti ai suoi occhi… Con grande tristezza, per due giorni aveva sparso anche un po’ di CO2, costretta, com’era, ad andare al lavoro con l’automobile.
Perché racconta questa sciocchezza, qualcuno dirà.
Perché, ora che il dolore è quasi passato, lei ringrazia Dio (o il Cielo o il caso o la Natura o la buona sorte) perché ha un corpo sano che le consente di essere autonoma. Che la fa camminare, ridere, persino salire le scale. E ha due mani e due piedi. E venti dita: quasi perfette.

Non è poco, in questi tempi di crisi.

domenica 21 novembre 2010

Maki maku, Goran Bregovic

Dedicato a chi ama anche gli ottoni festosi e le sonorità scomposte di Goran Bregovic.


101 STORIE: IL MARE, DA SOLO, NON BASTA...


Funziona così: dopo i primi giorni di scuola, i colleghi mi segnalano gli alunni che non sanno leggere o scrivere, quelli che non vengono a scuola, quelli che non riescono a stare fermi, quelli che tormentano i compagni. Nella speranza che insieme - docenti, famiglia, Servizi Sociali e Asp[1] (se è il caso) troviamo un modo perché i ragazzi apprendano e le cose vadano meglio.
E’ stato così anche per F.. “Non sta fermo un minuto, non porta né quaderni né libri, non ascolta…puoi per favore convocare i genitori per capirci qualcosa? – mi dice la coordinatrice della classe. Leggo il nome del ragazzino e ho un tuffo al cuore: stesso nome e cognome del ragazzo con gli occhi azzurri che mi hanno ammazzato a Bagheria…
Chiamo papà e mamma di F.: si presentano tutti e due. E’ piccola e magra, con un viso scarno e allungato, occhi castani, mobilissimi e inqueti: somiglia tantissimo al figlio. Il padre è un bel ragazzo biondo, appena trentenne. Anche lui snello e minuto. Un fare a metà tra il rassegnato e l’annoiato. Ha splendidi occhi celesti. E uno sguardo disincantato: senza illusioni e senza pietà.
Parliamo di F: tutta colpa delle maestre, dice la madre. Ne ha cambiate tante alle elementari… Interviene il papà: - Lascia stare le maestre… Sono stato dentro due anni, il bambino, quando mi hanno portato via, aveva sette anni … lui mi cercava e piangeva. Tu e suoi nonni l’avete guastato - . La madre ribatte che non è vero, non è vero che l’hanno guastato… Il fatto è che, con suo marito arrestato, sono andati ad abitare dai genitori di lei: - Come facevo a pagare l’affitto e a mangiare? C’era F. e l’altro bambino, tre anni più piccolo… E’ normale che, con mio marito carcerato, F. sentiva a suo nonno…- Sposto l’attenzione sull’oggi, chiedo come va adesso, se abitano da soli. Mi rispondono che soldi non ce ne sono, quando può il papà di F. guadagna qualcosa andando a pescare e vendendo del pesce. - E quindi abitiamo ancora con i miei suoceri – conclude con una smorfia amara il papà.
Riporto ai colleghi il succo del colloquio con i genitori. Ci sbracciamo tutti, per aiutare il ragazzino. Incontro ancora i genitori. E’ raro che vengano insieme, però. La madre si vede di più: annuisce spesso, quando le parlo, ma non credo mi ascolti davvero.
Il padre, quando viene, sosta di più. A metà anno, un colloquio, solo io e lui. – La sua presenza è importante per F… - gli dico – C’è qualcosa che fate insieme? – Mi guarda, con occhi attenti – Ci sto poco a casa, devo vuscarmi il pane. E poi, uscendo fuori, levo occasioni di lite con i miei suoceri… - Annuisco, ma insisto: - Ma lei per suo figlio è importante …. – Mio figlio – abbassa il tono di voce – me l’ha levato il carcere prima e dopo mia moglie e i miei suoceri, l’amminsigghianu assai
[2] – Lei è il padre: può ancora ricostruire la relazione con suo figlio…C’è qualcosa che vi piace fare insieme? - Un sorriso appena accennato. – Io vado a pescare: poi cerco di vendere il pesce. Mio figlio vorrebbe venire con me. – Lo porti con sè, magari il sabato e la domenica.- Dice di sì, che lo farà. Qualche volta.
Mentre ci salutiamo gli dico che a Bagheria, a scuola serale, anni fa, avevo un alunno, che amava tanto la pesca e il mare, si chiamava come suo figlio… - Era mio fratello – mi dice asciutto e laconico – ha fatto una brutta fine…- Non aggiungiamo parole. Ci salutiamo con una stretta di mano e uno sguardo diretto. Il mio forse più triste del suo.
Gli sforzi per aiutare F. si sono quadruplicati. Gli procuriamo i libri. Perdoniamo quasi tutte le sue monellerie. Promozione d’obbligo in seconda media.
Ma in seconda comincia a venire tre giorni no e uno si. Chiedo spiegazioni: la madre mi risponde: - Ma mio figlio è uscito per andare a scuola.. – Quando la chiamiamo, è sempre di corsa, spesso prende in anticipo F. per chissà quali emergenze. Telefono sempre più spesso per chiedere ragione delle tantissime assenze: la signora sciorina un repertorio infinito di motivazioni: il piccolo ha la febbre, non è suonata la sveglia, siamo rientrati da un matrimonio, mia sorella si è separata, credevo che la scuola oggi non c’era…
Convochiamo l’Ufficio Dispersione Scolastica del Comune. Chiediamo l’attivazione del Servizio educativo domiciliare.
[3] Il servizio tarda ad avviarsi: l’assistente sociale mi spiega che il Comune ha ridotto i fondi per la spesa sociale. I genitori di F., in un primo momento disponibili a collaborare con tale servizio, si tirano indietro.
Dopo un ennesimo periodo di assenze, incontro ancora la madre. Mi dice che lei e il marito si sono separati. – I bambini rimangono con me, il padre, quando vuole, li può vedere… - Chiede il nulla osta per trasferire F. nella scuola più vicina alla loro casa. Chiedo se il padre è d’accordo. Mi dice di si. Lo chiamo, voglio sentirlo da lui: - Si – Ma perché, da noi il ragazzo è seguito…Che importa se deve fare duecento metri di più… - Mi dice che è meglio per F. che vada nella scuola vicina. Aggiunge che forse in quella scuola lo chiameranno di meno…
La collega della segreteria segue la prassi: prima che venga accettata la richiesta di trasferimento, ci si accerta che la scuola accolga effettivamente il ragazzo.
Non mi resta che augurare a F. buona fortuna.
Che la vita, non solo scolastica, possa ogni tanto sorridergli.



[1] ASP: Azienda sanitaria provinciale. La scuola si avvale della collaborazione con l’Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile (che ha nel team psicopedagogista, neuropsichiatra e psicologo) competente per territorio
[2] Lo viziano troppo

[3] S.E.D. è la sigla del Servizio Educativo Domiciliare, attivato dal Servizio Sociale del Comune. Prevede e propone, per le famiglie in difficoltà, la presenza – in genere pomeridiana, due o tre volte la settimana – di un educatore che sta col minore: giocando con lui, aiutandolo magari a fare i compiti, uscendo anche insieme. Il SED si prefigge il recupero e il rinforzo della funzione genitoriale in caso di temporanea difficoltà nell’esercizio della stessa e il rinforzo delle competenze individuali e sociali del minore (quadro normativo L.285/97 art.4, L.328/2000 art.16, L.149/2001).

sabato 20 novembre 2010

INSULTI


“Crastu…‘a ghittari sangu ‘du cori”: questo l’augurio che un automobilista mi ha urlato, mentre mi sorpassava. Forse perché avevo rallentato troppo, sul ponte dell’Oreto, davanti a una pericolosa pozza d’acqua. Il finestrino appannato per la pioggia torrenziale ha celato all’automobilista la mia identità femminile e non gli ha consentito di formulare l’invettiva secondo un’appropriata modulazione di genere. Passata la meraviglia per l’espressione nefasta e colorita, mi domando il perché di tanta ira. Quel signore aveva una tale fretta da non poter pazientare qualche secondo dietro il mio andamento prudente? Stava forse accorrendo al capezzale della madre morente? Mi chiedo cosa frulli nella mente di noi palermitani quando siamo al volante. Mi ritorna il ricordo del litigio furioso tra due automobilisti, avvenuto qualche anno fa, vicino la Stazione Centrale: litigio degenerato in omicidio. Solo per un graffio su un’automobile metallizzata. Morire per niente. Ecco cosa abbiamo nel cuore: un vuoto assoluto.
Maria D’Asaro
(pubblicato su “Centonove” il 17-11-2010)

giovedì 18 novembre 2010

La bella e la bestia

Da romantica inguaribile, chiedo comprensione ...

(In fondo si tratta di una resurrezione suscitata dall'amore. Quando guardiamo qualcuno con amore lo facciamo vivere...)

mercoledì 17 novembre 2010

Quindici anni e tre mesi

     Bastava un bambino che vociava più forte del solito, nel parco giochi del palazzo. O un’amica che non smetteva di commentare la pagella della figlia. E quel tarlo silenzioso si riaffacciava all’improvviso, nel balcone disordinato dei pensieri. Quasi obbligandola, ogni volta, a un conteggio. 
Che faceva piano, calcolando ogni volta anni e mesi con la punta delle dita, come una bambina lenta coi numeri. Per ricordarsi quanto sarebbe stato grande, ora, quel lui o quella lei che non era mai nato.
     Era successo tutto troppo in fretta. Prima l’agonia del suo matrimonio. Franato senza un motivo preciso, per il groviglio di non detti, per la distanza che nessuno dei due era riuscito più a ricomporre. Da una parte l’immobilismo di Andrea, i suoi ingombranti silenzi e i suoi troppi pensieri, la sua incapacità di scherzare. Dall’altra, la sua insofferenza per la cappa ammorbante dei suoceri, il fastidio quasi fisico per l’irresolutezza di fondo del marito. E l’indifferenza crescente, la voglia di mollare e andar via. Con Roberta, l’unica figlia, ormai sullo sfondo. Sempre più grande e lontana. Con Fabrizio era iniziata per caso: affascinata dalla sua cinica spensieratezza, dalle migliaia di foto, dal suo catturare ogni scorcio e ogni sguardo, senza mai rubare l’anima a niente e nessuno. E lei, così attenta, aveva dimenticato qualche volta la pillola. Positivo, il risultato del test, fatto solo per scrupolo. Ma la ferita della separazione non si era del tutto richiusa. E poi questo compagno, così provvisorio… 
    Di certo c’erano invece il concorso all’università, inseguito da quasi vent’anni, e la collaborazione al giornale, finalmente con contratto firmato. E i suoi quarant’anni, che l’aspettavano al varco. Quest’altro figlio, adesso, no, non se lo poteva permettere.
Solo che ogni tanto tornava. Qualche anno fa, con Fabrizio che non voleva parlarne e lo stress del libro in cantiere, il ricordo era diventato ferita infetta. Che pulsava così forte da non farla dormire. Tant’è che le occhiaie e il tremore erano divenuti evidenti. Se n’era accorto persino Saverio, il compagno di università da decenni missionario in Brasile, quando un giorno l’aveva incontrata in stazione. “Ti offro un caffè – Volentieri.” “Che succede, Francesca…” – le aveva chiesto, discreto. Le aveva detto di Andrea, del matrimonio finito. Del nuovo compagno. E poi, guardandolo dritto negli occhi, aveva accennato a quella possibilità rifiutata, agli anni e ai mesi che continuava a contare. Lui le aveva sorriso, con uno sguardo dolce e un po’ triste. Le aveva sfiorato appena appena i capelli. Aveva poi sussurrato il nome di un medico, un ex compagno: “Hai bisogno di dormire. Perché non vai a trovare Luigi? A volte un farmaco è miracoloso…”. E poi, salutandola, le aveva lasciato l’indirizzo della casa-missione, a Recife: “Caso mai hai voglia di adottare uno dei miei bambini di strada…”.
      Con le pillole era andata un po’ meglio. Adesso dormiva, la notte. Le adozioni a distanza erano state poi due. Un bambino e una bambina. Il legame con Fabrizio si era ormai assestato sulle tranquille rotaie di una sopportabile diversità. Chissà, forse sarebbero persino invecchiati insieme.
Anche oggi però si era ritrovata a contare: quindici anni e tre mesi.
Poi, lo squillo del cellulare. La redazione: il pezzo su Voltaire. Subito, per favore. Domani sarebbe andato in cinquantottesima pagina. Francesca richiude le dita e ripone delicatamente il ricordo nel suo ripostiglio segreto. Adesso l’aspetta il suo fragile, provvisorio figlio di carta.

Maria D'Asaro