“Quel che si consuma in Wonderland è la rivincita del linguaggio infantile, poetico (e folle) nei confronti della parola senza vita e senza contenuto esperienziale. In Alice diventa chiaro come insegnare troppo presto ai bambini il nome delle cose e delle esperienze rappresenti una contraddizione insopportabile: se le parole, infatti, hanno il compito di dare il nome alle esperienze, come possono essere apprese prima dell’esperienza?
Dio – racconta la Genesi – prima crea il mondo e (solo dopo!) chiede ad Adamo di dare un nome alle cose. Nella nostra educazione operiamo in senso contrario: prima insegniamo i nomi e poi speriamo che avvenga l’esperienza (che sarà comunque perimetrata dalla definizione semantica e non aperta alla creatività).
Nel Paese delle Meraviglie, senza vincoli semantici, nascono parole nuove: «Stranissimissimo», «Bruttificare», la «poesia de Topo»… parole che possono sconvolgerci ma che trasmettono con maggiore luminosità l’esperienza. A pensarci bene, ad esempio, se per esprimere la nostra sensazione di sorpresa usiamo la parola «strano», abbastanza scontata, attutiamo l’originalità della nostra esperienza. Non si può trasmettere con una parola che non sorprende un’esperienza di sorpresa!
Da qui la necessità dei poeti, che ridanno la vita e il fuoco dell’esperienza alle parole svuotate. Da qui il messaggio cifrato dei folli, che rimane fuso con l’esperienza e toglie alla parola il compito di separare e unire. Da qui il verbo originale dei bambini che, se rispettati, sono capaci di creare parole nuove.
Dobbiamo dircelo con onestà: di fronte al linguaggio dei bambini e dei folli il nostro impulso immediato è quello di correggere, decriptare, e ricondurre alla normalità. Senza accorgerci che queste operazioni di adultizzazione (se non esiste questo sostantivo, Alice ci dà il permesso di inventarlo) non fanno altro che svuotare le parole. (…)
È certamente questa una delle intuizioni più geniali di Carroll: la caduta delle parole (Battaglini). (…) Bisogna apprendere un altro percorso: quello di lasciar cadere i nomi e assaporare la nudità dell’esperienza e delle cose. Oh, se i grandi fossero disponibili a riscrivere i loro vocabolari facendosi guidare dai bambini, dai poeti e dai folli: il nostro linguaggio (ri)aprirebbe orizzonti nuovi o dimenticati!"
Giovanni Salonia Sulla felicità e dintorni (Il pozzo di Giacobbe, Trapani, 2011) pp.124-126
(A mio avviso, un testo imperdibile: l’ho recensito qui)