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domenica 17 agosto 2025

La prof Ornella Giambalvo e il pozzo a Usolanga (Tanzania)

        Palermo – La professoressa Ornella Giambalvo, docente ordinario di Statistica sociale all’Università di Palermo, una delle circa 3.600 donne (quasi il 19% del totale) che ricoprono quest’importante ruolo nelle università italiane, l’ho già intervistata nell’aprile 2014 (qui il link).
      Mi avevano allora colpita e commossa il suo impegno concreto nel volontariato a Palermo, l’amicizia speciale con Lucio Dalla e il racconto di un viaggio in Tunisia nel 1998, con il ‘miracolo’ di una luna immensa che illuminava sette persone ‘perse’ nel deserto del Sahara, senza tablet e telefonini, in compagnia solo di un ragazzino del luogo e quattro dromedari.
      Ornella è una viaggiatrice instancabile e appassionata: a casa sua c’è un pannello/planisfero con tante bandierine, una per ogni luogo del pianeta che ha visitato. Ma, a marzo scorso, andare in Tanzania, a Usolanga (circa 70 km da Iringa, città del centro-sud del Paese), uno dei ventidue villaggi appartenenti alla missione cattolica di Ismani, è stato un viaggio speciale… E non certo perché, oltre all’aereo per Addis Abeba e poi per Dar es Salaam, ci sono volute quindici ore di macchina in strade sterrate per arrivarci…

Professoressa Giambalvo,  racconti da cosa è nato questo viaggio?

A questa domanda potrei rispondere almeno in 10 modi. Mi limito a 3: dal mio desiderio di conoscenza; dalla mia voglia di “costruire” il bene comune; da don Saverio Catanzaro. Sintetizzando queste tre risposte posso dirti che della missione di Ismani sento parlare da quando sono nata. Don Saverio Catanzaro, prete della diocesi di Agrigento e fondatore della missione, è amico della mia famiglia dal 1962, da prima della mia nascita. Don Saverio, oggi novantenne ma ancora tenace e dinamico, con l’energia di un giovanotto, è partito in missione a Ismani nel novembre del 1972. E quando tornava per un periodo limitato dalla ‘sua missione’, ci raccontava quello che stava facendo (costruiva scuole, chiese, pozzi, casette, strade...), del servizio e della disponibilità offerta alle persone povere. Io lo ascoltavo sempre in religioso silenzio e immaginavo… i miei coetanei di Ismani, la scuola di Ismani… la vita, là. 
Avevo forse dieci anni quando, a un tizio che lo aveva apostrofato così: “Don Saverio, come si sta laggiù con gli zulù?!”  lo sentii rispondere con una battuta secca e definitiva: “Mi sa che i veri zulù siete voi…” che dà l’idea del suo spirito battagliero.
A gennaio, alla sua ennesima proposta ad accompagnarlo in Tanzania, ho detto sì. 
Un sì convintissimo, tanto da lasciare stupito anche lui.

Qual è stata la situazione più difficile da affrontare?

In generale, lasciare i bambini per strada che ci facevano festa, vedere malati in paziente e fiduciosa attesa di cure, incrociare occhi desiderosi di attenzione e pieni di povertà. Fra tutte, la delusione dei bimbi quando andavamo via, era dura da digerire.
E poi mi ha colpito vedere un bambino arrivato con una maglietta bucata, tutta toppe, che non andava bene neppure come strofinaccio, indossare con occhi luccicanti la maglietta azzurra che gli era stata donata. Per riprendere poi da terra la sua vecchia maglietta lercia e strappata… Che gli rividi addosso qualche giorno dopo. Evidentemente la maglietta azzurra era un dono troppo prezioso, da custodire bene, centellinandone l’utilizzo.

E il momento più bello?   (continua su il Punto Quotidiano)

Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 17 agosto 2025

mercoledì 6 agosto 2025

Gertrude Anscombe, niente laurea a Truman

  
     Palermo – Le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki furono rase al suolo da due bombe atomiche lanciate dagli Stati Uniti d’America il 6 e il 9 agosto 1945. I morti furono 140.000 a Hiroshima e 70.000 a Nagasaki, se si contano sia le vittime immediate che quelle decedute nel corso del 1945 per le radiazioni e le ferite riportate. 
     Ad autorizzare le atomiche fu l’allora presidente degli USA Harry Truman.
    Il 20 giugno del 1956 l’Università di Oxford, nel Regno Unito, conferì una laurea ad honorem all’ex Presidente degli Stati Uniti, in riconoscimento del suo servizio agli USA. 

    Tale decisione suscitò proteste da parte di alcuni studiosi: l’opposizione più eclatante fu quella della professoressa Gertrude Elizabeth Margaret Anscombe, docente di filosofia.
     Gertrude Anscombe (nata nel 1919 a Limerick, in Irlanda, morta a Cambridge nel 2001) fu allieva ed amica di Ludwig Wittgenstein, di cui aveva studiato, tradotto e pubblicato gran parte delle opere, in particolare le Ricerche filosofiche. È stata poi una studiosa di filosofia della mente, filosofia dell'azione, logica filosofica, filosofia del linguaggio ed etica. Il suo testo principale è Intenzione, e si occupa dei concetti di intenzione, azione e ragionamento pratico.
  Dal testo di Rosella Prezzo Guerre che ho solo visto (Moretti&Vitali, Bergamo, 2025) ecco uno stralcio del discorso pronunciato dalla studiosa per motivare il suo dissenso al conferimento dell’onorificenza a Truman: 
“Nel 1939, allo scoppio della guerra, il Presidente degli Stati Uniti chiese garanzie alle nazioni belligeranti che non sarebbero state prese di mira le popolazioni civili. Nel 1945, quando sapeva che il nemico giapponese aveva fatto due tentativi per ottenere una pace negoziata, il Presidente degli Stati Uniti diede l’ordine di sganciare una bomba atomica su una città giapponese. Tre giorni dopo, una seconda bomba fu sganciata su un’altra città. Prima della seconda bomba, non ci fu alcun ultimatum. Considerati insieme, questi due eventi contrastano a tal punto da richiedere un esame accurato.”
   La filosofa analizza quindi il concetto della cosiddetta “responsabilità collettiva” nel corso di una guerra: “Per un certo periodo, prima della guerra, e con più intensità dopo, nel nostro paese ci fu una propaganda sul tema della ‘indivisibilità’ della guerra moderna. La popolazione civile, ci veniva detto, è in realtà belligerante quanto le forze armate. La forza militare di una nazione comprende la sua intera forza economica e sociale.”  
   Per molti, scrive ancora la Anscombe, infatti: “La distinzione tra le persone impegnate direttamente nella conduzione della guerra e la popolazione in generale non è realistica”. “La conclusione era che non era possibile tracciare una linea di demarcazione tra obiettivi di attacco legittimi e illegittimi.”
   Ma, obietta a questo punto la studiosa: “Non so bene come entrassero in questa storia i bambini e gli anziani: probabilmente applaudivano i soldati e i lavoratori delle fabbriche di munizioni...”
Poi argomenta così: “Ora chi sono gli ‘innocenti’ in una guerra? Sono tutti coloro che non combattono e che non sono impegnati a fornire mezzi a coloro che combattono. Un contadino che coltiva il grano che le truppe mangeranno non sta ‘fornendo loro i mezzi per combattere’. Certo, anche in questo caso, può essere difficile tracciare un confine preciso. Ciò non significa, però, che non se ne debba tracciare uno o che, pur avendo dei dubbi su dove tracciarlo precisamente, non sia chiaro che una determinata cosa vada ben al di là della linea di confine”.
Il presidente Truman
   La filosofa mette poi sul piatto della discussione gli argomenti utilizzati per giustificare l’uso dell’atomica: “Se quelle bombe non fossero state sganciate, gli Alleati avrebbero dovuto invadere il Giappone per raggiungere il loro scopo, e lo avrebbero fatto. Moltissimi soldati da entrambe le parti sarebbero stati uccisi; si è detto – e potrebbe essere vero – che i giapponesi avrebbero trucidato i prigionieri di guerra; e un gran numero di civili sarebbe morto sotto ‘normali’ bombardamenti”.
   Ma, sottolinea la Anscombe, ci sono però da considerare anche altri dati: alla conferenza di Postdam, nel luglio 1945, Stalin informò i componenti del governo americano e britannico di aver ricevuto due richieste dai giapponesi perché facesse da mediatore per porre fine alla guerra. Inoltre, nella formula della Dichiarazione di Potsdam era stata chiesta la resa incondizionata del Giappone, che i giapponesi, sebbene disperati, rifiutarono solo per la fedeltà al loro Imperatore. D’altra parte - aggiunge ancora la studiosa - pare che gli americani “non vedessero l’ora di usare le nuove armi di cui erano in possesso”.
   Allora, continua la docente: “Io ho deciso di oppormi alla proposta di conferire al sig. Truman una laurea ad honorem, qui, ad Oxford”. Perché: “Per gli uomini scegliere di uccidere un innocente come mezzo per raggiungere i propri fini è sempre omicidio e l’omicidio è una delle peggiori azioni umane… Quando dico che scegliere di uccidere un innocente come mezzo per aggiungere i proprio fini è omicidio, sto dicendo una cosa generalmente riconosciuta come giusta… Con Hiroshima e Nagasaki non ci troviamo di fronte a un caso limite. Nel bombardare queste città si è infatti deciso di uccidere degli innocenti come mezzo per i propri fini. Moltissimi innocenti e tutti in una volta, senza vie di fuga o possibilità di rifugi”.
   Quando la docente informò il Procuratore Senior dell’Università della sua intenzione di opporsi all’onorificenza a Truman, le fu chiesto se avesse fondato un partito. “Certo che no…” rispose. 
   E concluse così il suo intervento: “Le proteste di persone che non hanno potere sono una perdita di tempo. Non ho cercato quindi di cogliere l’occasione per fare ‘un’azione di protesta’ contro le bombe atomiche; io mi oppongo con forza alla nostra azione di conferire un’onorificenza al Sig. Truman, perché si può condividere la colpa di una cattiva azione sia con lodi e adulazioni sia difendendola”.
   E la professoressa Anscombe, sebbene unica voce all’interno del Senato accademico di Oxford, dalla cattiva azione di sganciare l’atomica su degli innocenti ha voluto per sempre prendere la giusta distanza.

 Maria D'Asaro, 3 agosto 2025, il Punto Quotidiano





sabato 2 agosto 2025

Lisistrata: tessere fili di pace...

Lisistrata: teatro di Siracusa, 06.25 (regia di Serena Senigaglia)
      “Non è casuale che, in epoca remota (siamo nel 411 a.C.), un uomo non certo femminista come Aristofane abbia messo in bocca alla protagonista dell’unica opera del teatro greco nel quale una donna non è vittima (o destinata a diventarlo) parole potenti e autorevoli di divertita superiorità femminile verso l’incapacità maschile di trarre dal quotidiano le lezioni utili anche nei conflitti più sanguinosi.
         Si tratta di Lisistrata, il cui nome significa ‘colei che scioglie gli eserciti’: scioglie, non distrugge. Ecco cosa afferma la sagace e ironica ateniese di fronte ai nerboruti (e armati sino ai denti) concittadini, in lotta contro i fratelli spartani:

Se aveste cervello trattereste i conflitti come si fa con la lana. Come quando la matassa è ingarbugliata, la prendiamo e la dipaniamo sui fusi, tendendola da una parte e dall’altra così, se ci lasciate fare, sbroglieremo la guerra, lavorando da una parte e l’altra con le ambascerie.
Prima di tutto, come si fa con la lana, togliendo via con un bagno il sudiciume dalla città. 
Poi, stendendola su un letto, toglieremo di mezzo con un bastone spine e malanni. Poi, carderemo quelli che tramano in società per le cariche, e gli speleremo bene la testa. 
Poi, in un paniere, mescoleremo la concordia comune e la pettineremo, mettendo insieme i meteci, gli stranieri che ci sono amici e i debitori dello stato. E le città dove abitano coloni ateniesi dovete considerarle come i bioccoli caduti per terra, lontani gli uni dagli altri. Bisogna prenderli e raccoglierli insieme e farne un solo grande gomitolo, da cui tessere un’unica tunica per il popolo.”

Monica Lanfranco Donne che disarmano VandA Edizioni, Milano, 2024, pag.21

Lisistrata: teatro di Siracusa, 06.25 (regia di Serena Senigaglia (foto Ballarino)


martedì 22 luglio 2025

Noi, che...

Noi,
che conserviamo gli scampoli delle pezzuole 
perché un rammendo, non si sa mai…
noi,
che ci ostiniamo a spolverare anche i Topolini 
acquistati vent’anni fa dai nostri figli…
noi,
che mangiamo yogurt scaduti e scaglie di formaggio ammuffito
perché è grazia di Dio…

noi,
che resistiamo a 33 gradi senza condizionatore
perché sposteremmo il caldo da dentro a fuori…
noi,
che tentiamo di resistere a 37 gradi senza condizionatore
perché mischine le signore e i signori in carcere al caldo cocente…
noi,
che siamo felici perché abbiamo l’acqua e un frigorifero
mentre c’è chi fa i turni per la doccia e beve acqua calda…
noi,
che nonostante i sondaggi e il vento contrario
sappiamo che la guerra nuoce gravemente alla salute (di tutti, pianeta compreso) ...
noi,
nonostante il caldo e l’età che avanza
(ma cosa è il caldo a paragone delle bombe su Gaza?)
andremo a piazza Massimo, a Palermo, il 24 luglio, dalle 18.30 alle 20 
a implorare “Fuori la guerra dalla Storia”…



domenica 20 luglio 2025

Il tarlo del non finito: ecco l’effetto Zeigárnik

       Palermo – Anche se all’Università abbiamo collezionato vari trenta, l’esame che ricordiamo di più è quello che abbiamo dato due volte. Ci tornano poi alla mente con maggiore insistenza il rebus che non siamo riusciti a risolvere, le note della canzone non identificata e le parole che non siamo riusciti a dire a una persona cara…
    Il meccanismo della nostra mente che tende a ricordare con più facilità i compiti interrotti e ciò che lasciamo a metà è noto in psicologia come effetto Zeigárnik.
      Si deve infatti a Bluma Zeigárnik, psicologa e psichiatra russo-lituana (nata a Prienai, in Lituania, nel 1900, morta a Mosca nel 1988) l’intuizione di questo particolare modo di ‘procedere’ della nostra mente e la sua sistematizzazione teorica.
    La studiosa, all’inizio degli anni ’20, in un ristorante affollato osservò che un cameriere ricordava tutte le ordinazioni eseguite solo in parte, mentre dimenticava subito le ordinazioni già portate a termine.  Decise allora di realizzare uno studio sperimentale affidando a diversi soggetti una serie di 18-22 esercizi da completare (enigmi, giochi, problemi aritmetici) e chiedendo poi quali esercizi ricordassero meglio. L'esperimento  confermò che i volontari ricordavano due volte di più gli esercizi non conclusi rispetto a quelli risolti.
   Nel 1927, avvalendosi anche delle osservazioni di Kurt Lewin, psicologo della Gestalt e professore all’Università di Berlino dove la studiosa completò la sua formazione, Bluma Zeigárnik pubblicò lo studio su tale ‘costante’ della mente, da allora conosciuta appunto come effetto Zeigárnik. La ricercatrice fu poi cofondatrice del dipartimento di Psicologia dell'università di Mosca e, dopo il 1945, nell'Unione Sovietica, anche grazie ai suoi studi, la psicopatologia sperimentale divenne disciplina autonoma.
    Oggi l'effetto Zeigárnik viene molto sfruttato nella narrativa e, soprattutto, nel cinema: in particolare, nelle serie televisive spesso gli episodi si interrompono utilizzando l’espediente noto come cliffhanger (letteralmente: chi rimane sospeso a un precipizio) o finale sospeso, che consiste nel mostrare una scena che crea molta tensione e curiosità e lasciarla irrisolta: così lo spettatore sarà indotto a seguire gli episodi successivi. 
   L'effetto Zeigárnik attesta quindi come la mente umana abbia più facilità a ricordare e proseguire un'azione già cominciata, anziché una da iniziare. Infatti, quando si incomincia qualcosa, si attiva una motivazione per ultimarla e tale spinta rimane insoddisfatta se l'attività viene interrotta. 
Sotto l'effetto di questa ‘molla motivazionale’, un compito incompiuto rimane nella memoria di più e più profondamente di un'attività completata, come se nella nostra mente si creasse uno stato mentale di tensione, una sorta di meccanismo ansiogeno che impedisce, tra l’altro, di concentrarsi su altri compiti o processi.
    Quali le conseguenze per il comportamento e per il nostro equilibrio psichico? 
Innanzitutto che per archiviare davvero un’attività, è indispensabile “concluderla”: la chiusura è essenziale per la nostra salute mentale. Lasciare qualcosa in sospeso non è solo un problema pratico, ma rischia di diventare un peso emotivo significativo. 
Fritz Perls
    Chi ha teorizzato il malessere emotivo delle ‘parentesi lasciate aperte’, le cosiddette Gestalten incompiute, è stato Fritz Perls, uno dei padri della psicoterapia della Gestalt. La psicologia della Gestalt ci aveva già segnalato che il nostro sistema percettivo e la nostra mente tendono a preferire le configurazioni e le situazioni compiute, complete. 
    Se nella nostra vita le situazioni di incompiutezza e sospensione sono numerose e significative, allora il nostro organismo, corpo e mente, può essere sopraffatto da un senso di malessere che può esprimersi attraverso ansia, tensione fisica, stanchezza, umore depresso o irritabile, mancanza di concentrazione. 
     Fondamentale allora valutare quante gestalt incompiute, sia pratiche che emozionali – situazioni irrisolte, progetti non realizzati, cose non dette, conflitti non chiariti – ci siano nella nostra esistenza e cercare di chiuderle: gli addii a metà, le decisioni mai prese e le parole non dette possono trasformarsi in un peso che impedisce di scrivere pagine nuove nella nostra vita.
     Tutti gli psicoterapeuti ci sollecitano alle ‘chiusure’. E ci suggeriscono alcune modalità per liberarci dall’incompiuto: creare dei rituali di chiusura, come scrivere una lettera o una mail (anche senza inviarla) per chiarire o chiudere una relazione; praticare il perdono (verso gli altri e anche verso sé stessi) per lasciare andare il passato; per le faccende più pratiche, concludere gradualmente e affrontare un passo alla volta le situazioni e gli impegni che vanno risolti e conclusi.
    Infatti, solo se ci liberiamo il più possibile delle gestalt aperte, riusciremo a dare alla nostra vita la direzione desiderata. Ed essere noi stessi, qui e ora, con integrità e pienezza.

Maria D'Asaro, 20 luglio 2025, il Punto Quotidiano




mercoledì 9 luglio 2025

Le donne e la guerra...

Carlo Zoli: Ettore e Andromaca (ceramica, 2016)
        “Le donne sono profondamente investite dalla guerra, dal razzismo e dalla povertà, i tre mali nominati da Martin Luther King. Ma quando ci ergiamo per la pace come donne, è (…) per rappresentare una differente visione della forza. 
      Le azioni pensate e guidate da donne hanno una speciale energia, uno speciale potere. Il potere non viene dall’escludere gli uomini, anzi, la maggior parte di queste azioni dà il benvenuto agli uomini come partecipanti, il potere viene dalla gioia e dalla potenzialità della visione che sorge quando siamo insieme come donne a difendere il valore della vita e a prenderci cura di ciò che abbiamo caro. (…)
     Nessun tipo di qualità è esclusivamente o in modo innato ‘femminile’ o ‘maschile’. Gli uomini possono essere compassionevoli, amorevoli e gentili, come le donne possono essere dure, coraggiose o insensibili.
Tuttavia, il patriarcato assegna le specificità associate all’aggressione e alla competizione agli uomini, e relega le donne a ruoli svalutati di nutrimento e servizio. Il patriarcato dà valore al ‘duro’ sopra il ‘morbido’, alla punizione, alla vendetta e al risentimento sopra la compassione, la negoziazione e la riconciliazione. Le qualità ‘dure’ sono identificate con il potere, il successo e la mascolinità e vengono esaltate. Le qualità ‘morbide’ sono identificate con la debolezza, la mancanza di potere, la femminilità, e vengono denigrate.
       Sotto la logica del patriarcato gli uomini vengono svergognati e considerati deboli se mostrano qualità associate con le donne. I politici vincono le elezioni se sono duri contro il terrorismo, duri contro il crimine, duri contro le droghe, duri contro il sostegno economico alle madri. Le richieste di cooperazione, negoziazione, compassione o riconoscimento della nostra reciproca interdipendenza sono correlate alla debolezza femminile. (…) Forza, punizione e violenza sono le risposte del patriarcato ai conflitti e ai problemi sociali.
    Il patriarcato trova la sua espressione ultimativa nella guerra. La guerra è il campo in cui i duri possono provare la loro durezza e i vincitori trionfare sui perdenti. I soldati possono venire indotti a morire o a uccidere quando la loro paura di essere etichettati come simili alle donne o ai vigliacchi supera la loro paura di fronteggiare o maneggiare la morte.
    La guerra rimuove ogni argomento a favore della tenerezza e dissolve ogni biasimo con la violenza. La guerra è la giustificazione per la morsa con cui i dominatori impongono il controllo su ogni aspetto della nostra vita. Le femministe sagge non dicono che le donne siano naturalmente più gentili, più dolci, più compassionevoli degli uomini. (…) Diciamo che il patriarcato incoraggia e ricompensa chi ha un comportamento brutale e stupido. Abbiamo bisogno di voci femministe rauche e incaute che pungano la pomposità, l’arroganza, l’ipocrisia della guerra; che indichino come battersi il petto del gorilla non sia diplomazia, come l’avere la più vasta collezione al mondo di armi falliche a proiettile non costituisca un’autorità morale, come l’invasione e la penetrazione non siano atti di liberazione. 
      E abbiamo bisogno di ricordare al mondo che la guerra moderna non risparmia mai la popolazione civile. Lo stupro è sempre un’arma di guerra e i corpi delle donne sono usati come premio per i conquistatori. In guerra, donne, bambini e anche uomini, che non hanno voce nelle politiche dei loro governanti, subiscono la morte, mutilazioni, ferite e la perdita delle loro case, dei loro mezzi di sussistenza, delle persone amate”. 

In Monica Lanfranco Donne disarmanti. Come e perché la nonviolenza riguarda il femminismo
VandA ediz. Milano, 2024 pp. 97-99 (si riporta qui un testo di Miriam Simos, detta Starhawk)

mercoledì 25 giugno 2025

Gent.ma Presidente del Consiglio: il vecchio che avanza...

 
Ho sentito la sua dichiarazione, espressa mi pare in Parlamento: “La penso come i Romani: si vis pacem, para bellum”. Sono rimasta basita: non credevo che Lei potesse manifestare con chiarezza un pensiero - a mio avviso - così  logoro, violento, radicalmente inefficace, espressione di una vecchia  visione del mondo bellicista e sterilmente militarista.
     La invito a pensare invece a un possibile, radicale cambio di paradigma, storico e antropologico insieme. Oggi più bisogna ripartire dal pensare e progettare la Pace. Ci troviamo di fronte a un vuoto teorico e di visione, come se la Pace fosse un ideale non politico …      
   Sa che martedì 24 giugno scorso c’è stata proprio a Roma,  presso l’Auditorium Bachelet della Domus Maria, la presentazione ufficiale della proposta per l’istituzione di un Ministero della Pace? L’evento, organizzato da Fondazione Fratelli Tutti, Azione Cattolica Italiana, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII e ACLI-Associazioni Cristiane lavoratori Italiani e da una rete ampia di associazioni della società civile, promosso dalla Campagna “Ministero della Pace”, è nato dalla volontà di dare un assetto istituzionale e stabile alle politiche di pace, di giustizia e di disarmo nel nostro Paese, perché la pace possa divenire architettura politica e istituzionale, e non solo ideale etico.
    Il Ministero della Pace sancirebbe un cambio radicale di paradigma, un segno tangibile dell’abbandono della logica mortifera e nefasta del principio si vis pacem, para bellum, per abbracciare invece la nuova logica ‘se vuoi la pace, progetta la pace’.
      Perché la pace va pensata e resa possibile, nella consapevolezza che l’oscenità della guerra, anche se spesso ritenuta inevitabile, è in realtà una costruzione umana, frutto del primato della violenza. Ho scoperto che si deve a don Oreste Benzi, il prete romagnolo fondatore della Comunità ‘Papa Giovanni XXII’, la richiesta di istituire un Ministero della Pace, formulata una prima volta nel 1994, durante il terribile conflitto nell’ex Jugoslavia, e poi formalizzata nel 2001 con una lettera all’allora Presidente del Consiglio: «Da quando l’uomo esiste ha sempre organizzato la guerra, è arrivata l’ora di organizzare la pace. Un ministero trasversale per organizzare la pace». 
     Cara Presidente Giorgia Meloni, abbiamo bisogno di nuove architetture del pensiero per pensare e organizzare la pace. Abbiamo bisogno di interconnettere la sfera culturale, quella etica, quella giuridica e quella istituzionale. Abbiamo bisogno di ripartire dalla nonviolenza come mezzo di risoluzione dei conflitti. Ma chi sa parlare e agire con nonviolenza oggi? 
    La nonviolenza è una weltanschauung, uno stile di vita, una visione del mondo sistemica, olistica, che accetta la conflittualità dei rapporti umani senza considerare ineluttabile che il conflitto sfoci nella lite, nella violenza, nella guerra. 
Cara Presidente, è ormai necessario scardinare l’idea radicata che la virtù civica e politica si esprima attraverso il dare la vita in guerra: necessario scardinare il nesso tra guerra e cittadinanza. La patria non si difende con le armi: Lei saprà bene da anni giace in Parlamento la proposta di legge per l’istituzione di una Difesa civile popolare e nonviolenta.
Crediamo fermamente che il dovere di difesa della patria, ribadito dall’art.52 della Costituzione, possa essere agito anche senza le armi, anche senza uccidere.
Lei potrebbe ribattere:  lei è un’utopista senza speranza… Ma sono le idee nuove che cambiano la Storia. Se tante donne non avessero lottato per la loro dignità, idea nuova rispetto al Diritto romano, oggi Lei non presiederebbe il Governo italiano.
     Riporto infine parte del  toccante intervento del compianto dottore Gino Strada a Stoccolma, dove, nel dicembre del 2015, il Parlamento svedese gli ha tributato il Premio Nobel alternativo Right Livelihood  "per la sua grande umanità e la sua capacità di offrire assistenza medica e chirurgica di eccellenza alle vittime della guerra e dell'ingiustizia, continuando a denunciare senza paura le cause della guerra". 
      Ecco le sue parole:  «La maggiore sfida dei prossimi decenni consisterà nell'immaginare, progettare e attuare le condizioni che permettano di ridurre il ricorso alla forza e alla violenza di massa fino al completo abbandono di questi metodi. La guerra, come le malattie mortali, deve essere prevenuta e curata. La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, uccide il paziente. L'abolizione della guerra è il primo e indispensabile passo in questa direzione. Possiamo chiamarla "utopia", visto che non è mai accaduto prima. Tuttavia, il termine utopia non indica qualcosa di assurdo, ma piuttosto una possibilità non ancora esplorata e portata a compimento. 
Come le malattie, anche la guerra deve essere considerata un problema da risolvere e non un destino da abbracciare o apprezzare, dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolire la guerra è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Questo concetto deve penetrare in profondità nelle nostre coscienze, fino a che l'idea della guerra divenga un tabù e sia eliminata dalla storia dell'umanità. (…)  Ancora oggi ci troviamo ancora davanti al dilemma posto nel 1955 dai più importanti scienziati del mondo nel cosiddetto Manifesto di Russel-Einstein: 'Metteremo fine al genere umano o l'umanità saprà rinunciare alla guerra?'. Ѐ possibile un mondo senza guerra per garantire un futuro al genere umano? Molti potrebbero eccepire che le guerre sono sempre esistite. Ѐ vero, ma ciò non dimostra che il ricorso alla guerra sia inevitabile, né possiamo presumere che un mondo senza guerra sia un traguardo impossibile da raggiungere. Il fatto che la guerra abbia segnato il nostro passato non significa che debba essere parte anche del nostro futuro».

Spero che, prima o poi, potremo confrontarci serenamente su questi temi cruciali. Un saluto cordiale.



mercoledì 18 giugno 2025

Rosella Prezzo: le guerre viste (solo) in TV

 Più che mai attuale lo studio condotto da Rosella Prezzo. Ecco l'annunciata recensione del suo libro:

Cantieri culturali della Zisa, 8.6.25: Rosella Prezzo, II da sinistra
           Palermo – “Le guerre non si dichiarano più e si eternizzano, così come non si sa più quale e dove sia quello che un tempo si chiamava ‘campo di battaglia’… nel mio caso le guerre le ho proprio soltanto viste, nella velocità istantanea dell’ubiquità mediatica”. Prende spunto proprio da “questa comune esperienza da spettatrice attraverso gli schermi” Guerre che ho (solo) visto (Moretti & Vitali Bergamo 2025), saggio di Rosella Prezzo, filosofa, saggista e traduttrice: centocinquanta pagine preziose e assai dense che analizzano acutamente la guerra di ieri, ma soprattutto quella di oggi. E invitano a ‘pensare l’impensato della pace’ alla luce, ad esempio, del pensiero di Simone Weil, Virginia Woolf e Maria Zambrano.
       Emblematici i titoli di due dei capitoli che compongono la prima parte del libro: Dal corpo eroico al corpo osceno del guerriero e alla guerra postumana e Reduci, sopravvissuti/e, profughe/i.
L’autrice sottolinea infatti che, nel passato “Il corpo del guerriero è stato a lungo al centro di una vasta strategia narrativa e simbolica… Attraverso la figura del guerriero, insieme alla retorica del discorso sui caduti in battaglia, si è espressa per secoli l’esemplare virtù civica e politica”. E poi “La rivoluzione francese è il momento in cui il soldato e il cittadino si fondono: il cittadino è tale perché imbraccia le armi per difendere le proprie conquiste rivoluzionarie”. Anche oggi purtroppo: “L’implicito nesso tra attestazione di piena cittadinanza e prova fornita in guerra rimane sottotraccia nel discorso politico pubblico”.
Rosella Prezzo
     Ma, negli ultimi decenni “Si è introdotto un nuovo orizzonte di senso insieme a un nuovo racconto, dove il fronte è diventato globale (privo di spazio e tempo definiti) e soprattutto asimmetrico e iper-tecnologizzato. Alla base sta quello che i teorici del Pentagono hanno battezzato come Information Warfare (IW) o Revolution in Military Affairs (RMA), animata da un vero e proprio millenarismo tecnologico e dalla filosofia della guerra a ‘zero morti’ (ovviamente nelle proprie file).” “Il conflitto armato ad alta tecnologia - annota ancora la studiosa – implica controllo e gestione a distanza del teatro bellico con il minor impegno possibile della variabile umana ma con un’aumentata potenza distruttiva”.
     Siamo nel pieno della ‘guerra post-umana, fatta con i droni e l’Intelligenza artificiale, guerra che aumenta a dismisura il fossato tra sé stessi e le vittime, rendendo sempre più aleatoria la responsabilità individuale.
     Di contro, con una progressione costante e numeri impressionanti, le vittime delle guerre sono sempre di più i civili (si pensi al massacro odierno di civili palestinesi) e, con loro, le crescenti ondate di profughi: così, evidenzia l’autrice “tornano inevitabilmente a mostrarsi i corpi: corpi non combattenti, sfiniti, violati, intrappolati, annichiliti, soprattutto di donne, insieme a bambini e a vecchi. (…) Corpi in fuga, senza luogo, spostati, braccati: ‘comparse’, ammutolite dalla paura e dal dolore, che vengono a occupare l’intera scena della tragedia bellica…
      Da dove ripartire per ripensare e progettare la pace? 
Pensare e dire la pace significa anzitutto pensare l’impensato della pace… “Ci troviamo di fronte a un vuoto teorico e di visione. Basti pensare che non è mai stata sfiorata nemmeno l’idea di un Ministero della pace, come se fosse un ideale non politico”. 
Simone Weil
      Rosella Prezzo ripropone il pensiero di alcune donne del Novecento, che hanno avanzato un’idea diversa di Europa e della convivenza umana. A partire da Simone Weil, che ha sottolineato, tra l’altro, la necessità di una nuova etica verso i bisogni dell’anima: perché, ammoniva Weil, la lotta contro Hitler o il cattivo di turno non mette automaticamente dalla parte dei giusti, ma occorre uno sforzo collettivo «per ricominciare a pensare il destino del mondo», rifiutando «una concezione insufficiente della democrazia», «il male periodico della guerra totale», «la manipolazione più brutale della materia umana».
    Nel 1940, in un rifugio antiaereo, mentre gli aerei tedeschi gettavano bombe su Londra, Virginia Woolf scriveva Pensieri di pace durante un’incursione aerea, chiedendosi cosa potessero fare le donne in guerra e contro la guerra: Fight with the mind, combattere con la mente…Le donne non devono smettere di pensare e lottare attraverso la mente, fabbricando idee nuove.
Virginia Woolf
    Luminose poi le pagine della filosofa spagnola Maria Zambrano: “La pace, dice in sintesi la pensatrice «è un modo di vivere, di abitare il pianeta, di essere umani». «un’intima rivoluzione» che non mira ad occupare il potere per sé stessi, ma muove ciascuno/a a superare una soglia, quella che separa la «storia sacrificale», fatta di idoli e di vittime, per entrare in un processo di umanizzazione della storia. Un processo che non ha bisogno di armi, di parole d’ordine o «ornate di maiuscole» (per usare un’espressione di Simone Weil), ma di parole che fanno riflettere e insegnano a pensare, parole terrestri e alate” sottolinea Rosella Prezzo.  
     Il testo, presentato l’otto giugno a Palermo alla rassegna Una marina di libri, propone anche una ricca antologia di scritti riguardanti la guerra e la pace: pagine che spaziano da Tolstoj a Svetlana Aleksiević, da Bertrand Russell e Albert Einstein alle poetesse Ingeborg Bachmann e Wislawa Szymborska, da Cesare Pavese a Maria Zambrano. 
     Allora, ci esorta infine l’autrice: “Quando vaghiamo come persi in un labirinto di specchi, privi di orizzonte, in un mondo in cui gli eventi sembrano caderci addosso ineluttabili, il pensiero deve servire da guida’ affinché in quel labirinto e in quel buio non ci smarriamo, aprendoci un varco lì dove non sembra esserci alcun passaggio, alcuna via d’uscita. Proprio allora, come ci invita a fare Maria Zambrano, «occorre cambiare atteggiamento: invece di essere divorati in un processo metafisico di distruzione, levarsi a pensare. Non subire la metafisica, ma farla».

Maria D'Asaro, 15 giugno 2025, il Punto Quotidiano




giovedì 5 giugno 2025

La pace inquieta di Maria Zambrano: non subire la metafisica, ma farla...


        "Il pensiero della pace è ciò che congiunge i due estremi della vita di Maria Zambrano. (…) In una società dall’ordine musicale come lei la intende, dove la democrazia non può esaurirsi certo in una stanca liturgia elettorale ma riguarda la quotidianità in cui ciascuno/a contribuisce attivamente alla sua realizzazione, la pace non può essere pensata come semplice equivalenza dello stato di non-guerra. Perché ciò equivale a un equilibrio precario, fragile, basato principalmente sulla paura. 
     E una pace del genere, priva cioè di una propria ‘sostanza morale’, può rappresentare solo una tregua. Una pace che aspiri a essere duratura non può neanche tendere alla fine di ogni lotta o al quieto vivere.
      La pace, al contrario, è ‘inquieta’, non ammette l’immobilità, ma deve ridefinirsi di fronte a ogni nuova situazione e circostanza. Non può avere un’unica strategia che non guarda in faccia nessuno, ma ha bisogni di accordi continui, e di un coraggio ben più saldo di quello esaltato e furioso con cui ci si getta in guerra.
     Pace non significa società pacificata, come in quell’immagine della pace eterna promessa alla fine della vita. La pace sta dalla parte della vivacità. Dell’agonismo e del gioco, dell’inquietudine che impedisce il conformismo o ancor peggio la complicità verso un ordine dato solo nella misura in cui ci si adatta alla propria convenienza. La pace non è la fine di tutti i nostri affanni, ma è la vita di un incessante interrogare che ci spinge oltre, in cerca di relazioni rette dalla libertà e dalla giustizia e non dalla paura e dal dominio. La pace, dice in sintesi Maria Zambrano «è un modo di vivere, di abitare il pianeta, di essere umani».
     Per questo è «un’intima rivoluzione» che non mira ad occupare il potere per sé stessi, ma muove ciascuno/a a superare una soglia, quella che separa la «storia sacrificale», fatta di idoli e di vittime, per entrare in un processo di umanizzazione della storia. Un processo che non ha bisogno di armi, di parole d’ordine o «ornate di maiuscole» (per usare un’espressione di Simone Weil), ma di parole che fanno riflettere e insegnano a pensare, parole terrestri e alate.
     Similmente per Hannah Arendt la guerra si produce nell’impotenza della politica, che è per lei il luogo dell’agire politico dove l’atto e la parola non si separano. Sul mito del progresso tecnologico, sempre più invasivo, e del suo rapporto con la violenza, dovrebbero poi far riflettere le sue analisi Sulla violenza, scritto del 1968, dove ragiona su quella che definisce «l’impotenza della potenza». Il riferimento è all’America che, nella sua potenza tecnologica e militare sempre più dispiegata (…), nasconde un’impotenza pericolosa di un fare politico in cui non ha più dimora il pensiero tra l’impeto e l’atto, e che nega per ciò stesso la sfera pubblica in cui si incontrano e si confrontano l’azione e la parola.
       Per questo, a maggior ragione, quando vaghiamo come persi in un labirinto di specchi, privi di orizzonte, in un mondo in cui gli eventi sembrano caderci addosso ineluttabili, il pensiero deve servire da guida’ affinchè in quel labirinto e in quel buio non ci smarriamo, aprendoci un varco lì dove non sembra esserci alcun passaggio, alcuna via d’uscita.
    Proprio allora, come ci invita a fare Maria Zambrano, «occorre cambiare atteggiamento: invece di essere divorati in un processo metafisico di distruzione, levarsi a pensare. Non subire la metafisica, ma farla»."

Rosella Prezzo,  Guerre che ho (solo) visto Moretti &Vitali, Bergamo 2025, pagg. 91,92

Ne discuteremo con l'autrice domenica prossima, a Una marina di libri



venerdì 18 aprile 2025

Il venerdì santo di Rachele: come consolarla?

       "L’urlo di Rachele, l’urlo di ogni madre che perde un figlio risuona nella storia umana sin dagli inizi. Inizia con Eva che abbraccia Abele senza vita, il primo figlio che muore anzitempo rispetto ai genitori. Il racconto biblico – al di là di ogni fede – è un testo fondativo che ripresenta le domande più drammatiche dell’uomo alla Vita (a Dio, agli dei): perché questo tragico dolore contro natura, un figlio che debba morire prima dei genitori?        Perché la morte? Perché il dolore? 
Interrogativi, questi, che non ricevono mai una risposta definitiva, ma si intrecciano con l’altra domanda: come possono continuare a vivere Eva, Rachele con questo dolore? 
     Gli umani, è vero, soffrono ma hanno anche una innata spinta e capacità di consolare e di curare. Gli umani sono umani – soleva dire Margaret Mead – perché si prendono cura di un femore rotto. Ma è possibile curare, consolare chi – come Rachele – non vuole essere consolata perché ha il cuore spezzato? Come consolare chi continua a vivere ma si sente senza vita perché è stata tolta la vita a colui a cui lei ha dato la vita? Come consolare questo genitore che accetta solo una consolazione, e cioè quella di riabbracciare il figlio? 
      Nel fuoco di queste domande si colloca il dono prezioso e fecondo di questo libro della professoressa Agata Pisana. Un libro che assume in pieno la domanda straziante: come consolare ogni Rachele che non vuole essere consolata?"

dalla Presentazione del prof.Giovanni Salonia, in Agata Pisana: La giusta distanza dalle stelle 
(Ancora, MI, 2024)




martedì 8 aprile 2025

Mimma, buona come il pane...

      Siamo proprio fatti male, noi umani. 
    Spesso ci rendiamo conto troppo tardi di cosa sia veramente importante. Ad esempio, capiamo troppo tardi che, ancora più dell’ottima ciabattina acquistata, ci nutrivano il sorriso e il gesto di quelle mani gentili e operose, al panificio sotto casa. 
      Le mani di Mimma, la signora premurosa ed efficiente che, insieme al pane, dispensava sfogline e pesava lo sfincione squisito, da ieri non si muovono più. 
     Qualche anno fa, verso le 16, talvolta la incrociavo per strada: lei stava per riprendere il tuo turno di lavoro, io mi avviavo a scuola per una lunga tornata di Consigli di classe o per un impegnativo Collegio. Ero contenta di incontrarla perché ci scambiavamo un sorriso vero, espressione di una calda corrente d’affetto che scorreva tra le nostre vite complicate: segno di una stima affettuosa, di una cordialità autentica e profonda.
     Se non mi vedeva entrare per qualche giorno a comprare pane o biscotti, poi mi chiedeva, senza nessuna invadenza, con attenzione delicata e sincera: - Come sta? Tutto bene? É stata fuori per caso dai suoi figli? – Partecipe della mia gioia quando li sapeva a Palermo, quando li coccolavamo insieme la mattina con le iris alla ricotta e le ciambelline zuccherate.
      Oltre al dolore per la perdita di una relazione umana comunque significativa e nutriente, c’è il sottile rimorso per non averle espresso forse abbastanza la gratitudine riconoscente per il suo perenne sorriso, la sua cura, la sua professionalità impeccabile: nonostante i 36 gradi d’estate, nonostante pensieri e grattacapi, nonostante il lavoro senza sosta per la vigilia di Natale e per santo Stefano.
     E quanto fosse silenziosamente speciale Mimma lo ha mostrato sino a ieri: al recente rinnovo del documento d’identità, aveva dato il consenso alla donazione degli organi.  
      Anche così Mimma continuerà a vivere in mezzo a noi. 

sabato 8 marzo 2025

Dal femminismo molti doni...

Etty Hillesum
      "Dal femminismo tutte e tutti ricevemmo la coscienza che vi è una sola umanità  composta di persone tutte differenti le une dalle altre e tutte eguali in diritti.
    Dal femminismo tutte e tutti ricevemmo la coscienza che sfera personale e sfera politica non sono separate da un abisso: sempre siamo esseri umani.
    Dal femminismo tutte e tutti ricevemmo la coscienza del partire da sè.
    Dal femminismo tutte e tutti ricevemmo la coscienza dell'incontro con l'altro.
     Dal femminismo tutte e tutti ricevemmo la coscienza che  è la nascita, l'esperienza e la categoria che fonda l'umana convivenza, l'umano sapere.
    Dal femminismo tutte e tutti ricevemmo la coscienza che la pluralità, e quindi la relazione, è la modalità di esistenza propria dell'umanità.
   Dal femminismo tutte e tutti ricevemmo la coscienza che i corpi contano, che noi siamo i nostri corpi.
   Dal femminismo tutte e tutti ricevemmo la coscienza che ogni forma di autoritarismo, ogni forma di militarismo, ogni forma di dogmatismo reca già la negazione dei diritti umani di tutti gli esseri umani.
   Dal femminismo tutte e tutti ricevemmo la coscienza che la prima radice dell'organizzazione sociale e della trama relazionale violenta è nel maschilismo e nel patriarcato.
  Dal femminismo tutte e tutti ricevemmo la coscienza che solo la nonviolenza contrasta la violenza, che solo il bene vince il male, che solo l'amore si oppone alla morte, che solo l'ascolto consente la parola.
  Dal femminismo tutte e tutti ricevemmo la coscienza che compito comune è generare e proteggere la vita, prendersi cura delle persone e del mondo per amore delle persone e del mondo.
   Dal femminismo tutte e tutti ricevemmo la coscienza che compito comune è opporsi ad ogni oppressione, ad ogni sfruttamento, ad ogni ingiustizia, ad ogni umiliazione, ad ogni denegazione di umanità, ad ogni devastazione della biosfera.
   Dal femminismo tutte e tutti ricevemmo la coscienza che solo l'arte della compassione fonda la lotta di liberazione.
Il femminismo che  è il massimo inveramento storico della nonviolenza.
Il femminismo che  è la corrente calda della nonviolenza.
Il femminismo che è il cuore pulsante del movimento di autocoscienza e di liberazione dell'umanità.
E diciamo femminismo e sappiamo che dovremmo dire femminismi, che dovremmo dire pensiero delle donne e movimenti delle donne.
Ma diciamo femminismo e pensiamo a una tradizione che lega infinite donne che hanno praticato l'etica della responsabilità e della liberazione, da Saffo a Vandana Shiva, da Simone Weil a Virginia Woolf, da Edith Stein a Milena Jesenska, da Etty Hillesum a Ginetta Sagan, da Rosa Luxemburg ad Hannah Arendt, da Germaine Tillion ad Anna Politkovskaja, da Simone de Beauvoir a Franca Ongaro Basaglia, da Olympe de Gouges a Luce Fabbri.
Dal femminismo molti doni tutte e tutti abbiamo ricevuto.
In questo otto marzo di ascolto, di memoria, di lotta, diciamo anche la nostra gratitudine.

(Riflessioni di Peppe Sini, nel giornale telematico La nonviolenza è in cammino)

Inoltre, tra i tantissimi omaggi poetici di Peppe a donne che hanno onorato l’umanità, eccone alcuni:

a Etty Hillesum, o la Forza della verità

Scegliere il bene, pensare col cuore,
condividere il dolore, avere cura
degli afflitti, totalmente ripudiare
la violenza, rifiutare
la salvezza per se' che affoga gli altri.

Fare la scelta della compassione
in nulla cedere al male
salvare tutti dinanzi all'orrore
salvare almeno l'umanita' futura.

Virginia Woolf

La coscienza di Virginia Woolf

Alla corsa per l'accaparramento
sottrarsi, e preferire
altro sentiero, la propria autonomia
l'uso corretto delle tre ghinee
l'analisi serrata che connette
e smaschera per sempre
il maschilismo, il fascismo, la guerra.

E la guerra, il fascismo, il maschilismo
combattere con voce e forme proprie
trovando in  sè la stanza denegata.

E' questo che chiamiamo nonviolenza.

Bertha von Suttner, o della liberazione

Che cosa resta di lei?
Ma la vera domanda è: perché 
a milioni, a miliardi si danno gli umani la morte?

E la vera risposta' ancora quella
che diede allora la saggia e gentile:
giù le armi.

E' il disarmo la scelta necessaria
per aprire la necessaria via.







Anna Politkovskaja

Ci sono le parole
e ci sono le pallottole.
E solo le parole salvano le vite.

Ci sono i corpi palpitanti e fragili
e ci sono le pallottole.
E dopo le pallottole i corpi diventano sasso.

C'è la verità viva
e ci sono le pallottole
che tutto riducono a menzogna, strazio, nulla.

C'è l'umanità fatta di persone
e ci sono le guerre
che l'umanità  estinguono.

Scegliere le parole, i corpi, le persone,
scegliere l'umanità. Salvare le vite. Dire
ancora e sempre la verità. Contrastare
tutte le uccisioni.

É questo che chiamiamo nonviolenza.

(e la voce potente di Fiorella Mannoia, evocata dalla carissima amica Maria Di Naro)

lunedì 3 marzo 2025

Da Bertha von Suttner no a tutte le guerre

       Palermo – È sua la frase “Fuori la guerra dalla Storia”, utilizzata da donne di varie associazioni palermitane che, dopo l’inizio della guerra in Ucraina, da tre anni manifestano ogni 24 del mese contro tutte le guerre. 
       Scrittrice, amica di Alfred Nobel, sostenitrice del disarmo totale e dell’istituzione di una corte d'arbitrato internazionale per risolvere i conflitti internazionali, chi era Bertha von Suttner che, nel 1905, fu la prima di diciannove donne che da allora hanno ricevuto il premio Nobel per la Pace? 
     Nata a Praga nel 1843, Bertha rimane presto orfana di padre, un feldmaresciallo asburgico. La madre, che scrive poesie, le fa studiare musica, ma anche storia e filosofia. Costretta a lavorare per l’esaurimento dell’eredità paterna, nel 1873 si trasferisce a Vienna e si guadagna da vivere come insegnante delle figlie del barone Carl von Suttner.
    In casa von Suttner, il figlio del barone Arthur Gundaccar e Bertha si innamorano. Scoperta la loro relazione, l’istitutrice viene costretta a lasciare l’incarico e si reca a Parigi, dove lavora per poche settimane come segretaria e governante di Alfred Nobel. Nobel ne apprezza subito l’intelligenza: con lui Bertha intavolerà un fecondo rapporto intellettuale che durerà sino alla morte dello scienziato.
Alfred Nobel
Poco dopo però ritorna a Vienna per sposare segretamente Arthur e, per l’ostilità della famiglia Suttner, la coppia si stabilisce nel Caucaso, dove gli sposi danno lezioni private e si dedicano alla scrittura. 
Nel 1885 si riconciliano con la famiglia e rientrano in Austria. Intanto Bertha comincia a interessarsi di tematiche pacifiste anche grazie all’International Arbitration and Peace Association, fondata a Londra nel 1880 dal pacifista inglese Hodgson Pratt con lo scopo di promuovere gli arbitrati e la diplomazia di pace per scongiurare tutte le guerre. 
   Dal contatto con quest’associazione e dalla lettura dei rapporti sugli orrori delle guerre presentati al Congresso Internazionale di Ginevra del 1863 da Henry Dunant (poi fondatore della Croce Rossa e primo destinatario nel 1901 del Nobel per la Pace), Bertha trae i motivi ispiratori per scrivere nel 1889 il suo romanzo Abbasso le armi!, tradotto in venti lingue e presto uno dei libri più venduti e più letti del tempo. 
    Abbasso le armi! è una storia d’amore che si intreccia alla tragedia della guerra: infatti la protagonista Martha Althaus attraversa dolorosamente quattro guerre dell’800. Il romanzo, che inneggia alla pace mostrando l’assurdità della guerra, dà alla sua autrice grande notorietà internazionale. Bertha diviene un'attivista energica e instancabile: nel 1891 promuove l'Austrian Peace Society, che presiede sino alla sua morte e con la quale organizza il suo primo congresso internazionale per la pace. 
     Nel 1891 il marito fonda l’Associazione per il rifiuto dell’antisemitismo; nel 1892 Bertha collabora con il pacifista tedesco Alfred Hermann Fried per la fondazione della ‘Società pacifista germanica’ e scrive, dal 1892 al 1899 per il giornale Die waffen Nieder/Giù le armi.
Bertha von Suttner

     Continua intanto i contatti epistolari con Alfred Nobel al quale espone le sue convinzioni contro la guerra e gli sviluppi del movimento pacifista. Così, prima della morte avvenuta il 10 dicembre 1896, nel suo testamento Nobel inserisce una clausola per dedicare un premio anche agli operatori di pace: menziona Bertha von Suttner, a suo avviso meritevole, per impegno e volontà, di tale premio. 
    Nel 1899 Bertha pubblica il romanzo L’era delle macchine, nel quale prende posizione contro il nazionalismo predominante in Europa e contro la corsa agli armamenti. Nello stesso anno, appoggia le iniziative della tedesca Margarethe Selenka, pacifista e attivista per i diritti delle donne, per la quale la questione femminile e il problema della pace coincidono e "ambedue nella loro interna natura costituiscono una battaglia a favore della forza del diritto contro i diritti della forza". Insieme promuovono la prima manifestazione pacifista internazionale dell’Aia;  l’anno successivo, Bertha e il marito compiono diversi viaggi internazionali per promuovere la Corte permanente di arbitrato, istituita proprio dalla Conferenza di Pace dell'Aia.
    Nonostante il dolore subito nel 1902 per la morte dell’amato compagno, sempre a suo fianco nelle lotte contro la guerra, Bertha continuerà ad adoperarsi per la pace, con viaggi, iniziative e vari scritti. Nel 1905 riceve il Premio Nobel per la Pace.
      Nel 1906 ha un ruolo fondamentale nell'organizzazione del "Comitato di Fratellanza Anglo-Tedesco", patrocinato dalla Conferenza di Pace del 1905 con l'obiettivo di riavvicinare i due paesi. In questo periodo tiene diverse conferenze per sottolineare i pericoli della militarizzazione della Cina e il pericolo dell’uso degli aerei come velivoli da guerra. Al Congresso per la Pace del 1908, che si tenne a Londra, proclamò la necessità dell'unità europea come unico mezzo contro la catastrofe della guerra.
Nell’agosto del 1913, sebbene già molto malata, partecipa alla Conferenza Internazionale di Pace dell'Aia. Muore il 21 giugno 1914, una settimana prima dell'attentato di Sarajevo che avrebbe portato allo scoppio della prima guerra mondiale. L’Austria ha onorato la sua cittadina Bertha von Suttner facendo incidere la sua effige nella moneta di 2 euro.
    Ecco ancora alcune notizie tratte dal libro di Monica Lanfranco Donne disarmanti (Intra Moenia, Napoli 2003). Alle critiche e a chi la invitava a occuparsi di ‘cose di donne’, Bertha rispondeva: “Le donne non staranno zitte, professor Dahn. Noi scriveremo, terremo discorsi, lavoreremo, agiremo. Le donne cambieranno la società e loro stesse”.
Monica Lanfranco sottolinea poi che insieme all'industria bellica, nel 1909 Bertha denuncia il ruolo della stampa nella formazione di un'opinione pubblica favorevole al conflitto armato: sono i due potenti gruppi che lavorano a sostegno degli ambienti militari: "Anche la cosiddetta stampa liberale, moderata, favorisce il sistema militarista, in modo più passivo, ma non per questo meno efficace. (...) questa specie di stampa evita, sì, di aizzare direttamente alla guerra e di pronunciarsi apertamente a favore del potenziamento degli armamenti, ma tratta tutto il vigente sistema della pace armata come qualcosa di immutabile, di naturale...". Bertha osserva anche con amarezza come sia censurata con disprezzo ogni voce che si leva a favore della pace da parte di singoli o associazioni.
      Monica Lanfranco scrive infine che “In un tempo in cui molti lacci imprigionavano il corpo e la mente delle donne, Bertha ha saputo muoversi con passo lieve e deciso, senza arretrare, senza scoraggiarsi, mostrando sempre e ovunque, al fondo della sua lucida denuncia del presente, una fiducia nel futuro che giunge affettuosa fino a noi e ci commuove. Quando le operaie di Vienna nel 1911 organizzano una gigantesca manifestazione per il voto alle donne e chiedono la fine degli armamenti e una destinazione civile per i fondi destinati alle spese militari, Bertha scrive: "Politica femminile? No: politica per l'umanità. E il contributo iniziale della metà finora diseredata del genere umano è soltanto uno dei sintomi del fatto che si avvicina il tempo in cui il bene e i diritti dell'umanità saranno considerati come massimo criterio per la politica".

Maria D'Asaro, 2.3.25, il Punto Quotidiano