martedì 30 novembre 2010

Buon compleanno!



due anni fa, una domenica piovosa del 2008, nasceva il mio blogghino. Il mio primo post: in Palermo in 150 parole.


Mi chiedo se la distrazione e l’incuria che alcuni palermitani mostrano per piante e alberi non derivi anche dall’ignoranza per i loro nomi. “Disegna un albero" - ci viene richiesto da bambini – e non “Disegna un platano, un ulivo, una sterculia”…Pochi sanno che gli alberi hanno un nome e un cognome, proprio come uomini e donne. Appartengono a una famiglia (da cui traggono il cognome) - quella dei Pini, delle Mimose, degli Olmi, delle Betulle… - all’interno della quale hanno una loro specificità (ecco il nome): sig. Pino Cembro, sig. Pino Nero, sig.a Albizia Julibrissin Mimosa, sig. Acero Campestre, sig. Acero Palmato, sig.a Acacia Dealbata Mimosa, …Non abbiamo forse uno sguardo, un riguardo diverso verso chi conosciamo per nome? Forse, quando li conosceremo e li chiameremo per nome, cominceremo a considerare gli alberi Cosa nostra. O, a scanso di equivoci, nostri fratelli minori. O maggiori, viste le dimensioni.

Perchè un blog? Perchè amo scrivere. Perchè amo comunicare. Perchè, come dice Guccini in Cirano:



quando sento il peso di essere sempre sola, mi chiudo in casa e scrivo, e scrivendo mi consolo.


Grazie di cuore a tutte/i per la Vostra attenzione affettuosa.

I DOMENICA DI AVVENTO


(So di essere una donna fortunata. Anche perchè, da più di vent'anni, ho la fortuna di ascoltare e frequentare un prete speciale, don Cosimo Scordato. Ecco la sua omelia di domenica scorsa:)

Stiamo entrando nella I domenica di Avvento. Il tempo dell’Avvento ci fa subito pensare con gioia al Natale del Signore. Lo vorrei legare tutto questo a un termine che il Vangelo ci consegna. “State svegli, state pronti”: sapete come si dice in greco? Farà piacere a Gregorio: si dice Gregoreo. Il verbo gregoreo in greco significa stare sveglio, stare desto. Siamo invitati a destarci dal sonno. Credo che sia un appello di grande rilevanza, care sorelle e fratelli, perché tendiamo ad assopirci, ci abituiamo troppo facilmente a tutto quello che avviene. E soprattutto pensiamo a un certo momento che, quasi quasi, non ci sia più nulla da fare, perché i fatti ci sopraffanno, ci sentiamo impari. E scadiamo in un atteggiamento quasi naturalistico, come se la storia fosse ormai scandita da fatti naturali, inevitabili. E’ naturale che avvengano le cose…
Mentre c’è una differenza fondamentale tra futuro e avvento. La parola futuro deriva dal greco fusis, che significa natura. Futuro è quindi tutto quello che si può prevedere: quando sorge il sole, se deve piovere, etc. Nella previsione degli eventi naturali, per grazia di Dio, conosciamo sempre più cose. La storia invece non ha a che fare col futuro – se non per certi aspetti, direi, banali – la storia ha a che fare con l’avvento: qualcosa che non possiamo prevedere e a cui dobbiamo puntare perché non è ripetizione del passato, non deve essere ripetizione del passato: ci apriamo verso una possibilità sempre nuova che è affidata alla nostra libertà, alla nostra responsabilità, da un lato, e alla promessa di Dio.
Ecco perché durante l’Avvento leggeremo continuamente i testi più belli dei profeti. I profeti che ci rinnovano questa promessa di Dio, che ci vogliono svegli, che non ci vogliono fare addormentare, ci vogliono invece aprire a un sogno, che è il sogno di Dio nei confronti della nostra umanità: che è quella di pensare a un’umanità diversa da quella che è.
Ecco perché ricominciamo di nuovo da capo, con l’Avvento. E’ inevitabile, questo: perché non siamo contenti del mondo, così come è. E allora cominciamo di nuovo a farci chiamare dal Signore, attraverso l’appello dei profeti: un mondo di pace, un mondo dove dimenticheremo le arti della guerra, le arti marziali…
Incominciamo a pensare, a immaginare una realtà che è poi quella che noi desideriamo, dove siamo invitati a costruirci di pace, dove rifiutiamo di farci riassorbire dal passato, che tende a risucchiarci, come se non avessimo più niente di nuovo da fare e dovessimo assistere impotenti di fronte a tutto ciò che avviene… no: l’avvento è appello alla libertà dell’uomo ed è promessa di Dio.
La nostra libertà è la cosa più bella che abbiamo o che siamo. Non può rinunziare a se stessa. Nonostante tutto quello che è avvenuto. Nonostante tutto quello che continua ad avvenire. La nostra libertà si trova di fronte a questa promessa di Dio: e questa promessa di Dio ci rende corresponsabili, tra noi e Dio. Perché Dio non rinunzia a interpellarci: fa appello alla nostra libertà. E non vuole portare a compimento la sua promessa senza di noi.
Ma contemporaneamente ci dice che, nonostante tutto, nonostante le promesse disattese quotidianamente, noi continuiamo a credere nella promessa che è possibile oggi, un mondo di paradiso. Senza fuga in avanti a un dopo, che in ogni caso resta sempre sull’orizzonte, senza fughe in avanti, ma con l’appello a rispondere adesso a questa promessa.
Allora, per quel frammento che può dipendere da noi, come singoli e come comunità, essere pronti, svegli, vigilanti, in piedi, attenti, risorti, perché il verbo gregoreo è vicino a un altro termine egeiro che significa resurrezione, sono due termini molto belli .
Vigilanza è essere svegli. Mettersi in piedi, avere la schiena diritta, non soccombere, ma essere lucidi, pronti a fare la nostra parte. Non è un atteggiamento titanico, ma è un atteggiamento responsabile. Perché il mondo dipende da noi: non da forze impersonali a cui vogliamo demandare le cose, né da coloro che ci governano, che hanno la responsabilità di interpretare il sogno dell’umanità, ma dipende da tutti noi.
E Dio continua a rimetterci il mondo nelle mani, questa cosa grandiosa che tante volte ci trova impreparati, lo so. Ma non possiamo rinunziarci. E Dio ce lo promette un mondo autentico, ce lo continua a promettere: come possibilità che sia per davvero il regno della pace, dell’equità, della giustizia, della verità, della trasparenza, della partecipazione di tutti, della convivialità, di tutte le cose belle… il mondo di tutti i nostri sogni.
A cui non dobbiamo rinunziare. E non dobbiamo invece assopirci e farci assonnare dalle mille falsità dalle quali veniamo inebetiti, senza renderci più conto di quello che avviene.

lunedì 29 novembre 2010

Don Chisciotte

Dedicato a chi non si rassegna alla realtà così come è. A chi, a costo di apparire matto e visionario, vuole cambiarlo, questo mondo.
A mio figlio Riccardo che è andato alla manifestazione a Roma, contro i tagli all'Università.
Dovrei tirarmi indietro perchè il male e l'ingiustizia hanno un aspetto così tetro....


Vorrei

A mio avviso, una delle più belle canzoni d'amore di Guccini.




sabato 27 novembre 2010

101 STORIE: VOGLIO ANDARE A LIVORNO


Il problema di K. erano soprattutto le assenze.
Che ne hanno causato la bocciatura, in II media. E poi un altro insuccesso in terza, a un passo degli esami. Peraltro K. aveva buoni voti solo in Italiano: scriveva benissimo. Nelle altre materie, sempre scena muta
In seconda, avevo provato a inserirla in un laboratorio dal titolo impegnativo “Un altro mondo è possibile”. E’ venuta due volte, poi niente. Appena in tempo per dirmi che il suo sogno più grande era andare a Livorno. In terza è stata anche seguita da un’assistente sociale. Mi ha chiamato, un paio di volte. - Viene a scuola K.? - A volte si, spesso no. - Le chiedo un incontro. Mi dice di si. Ma, poi, non se ne è fatto più niente: - Troppi casi più urgenti – si scusa.
Intanto K. ha 15 anni: è ancora in obbligo scolastico. Ripete ancora la terza. Però, a scuola non viene. Non se ne sa niente. Il cellulare della madre è spento. Irraggiungibile. - Non vuole più venire – confida la compagna ben informata. Invio la solita segnalazione di mancata frequenza all’Ufficio Dispersione Scolastica del Comune di Palermo. Ma, lo so già, gli operatori del Comune e gli assistenti sociali non hanno la formula magica per ridarci i ragazzi. Ho scritto in un pizzino il numero della madre e ho telefonato per giorni. Sappiamo che il padre non c’è. Che i genitori sono separati, da qualche anno. Del padre, nessuna notizia.
Un giorno il telefono chiama: - Non posso farci niente, K. non vuole venire – risponde la madre con tono stanco e annoiato. – Signora, fissiamo un colloquio, la prego, solo un colloquio, con lei e la ragazza. –
Così, a metà ottobre, K. torna a scuola. Tento delicatamente di parlarle. Di capire il perché del suo rifiuto, ma ha una scorza coriacea. Forse non si fida. E io non riesco a trovare la chiave.
Un giorno intercetto uno sguardo diverso. Per la prima volta, parla di sé. Di una solitudine antica, dei continui litigi dei genitori: - Non c’erano i soldi per pagare l’affitto… avevamo cambiali… mio padre era tanto geloso – Sguardo triste, tono di voce bassissimo. Non vuole venire a scuola perché non si ritrova con le compagne: molto più grande, con pensieri e interessi diversi…
Poi, tre anni fa per l’appunto, il padre è partito. Lavora a Livorno. La madre e la sorella (c’è una sorella più grande) le fanno casino se sanno che lo ha sentito al telefono. – Puoi andare a Livorno da lui ? – Sorride. Mi dice che non è facile, in realtà neanche il padre la vuole. Perché lavora col camion e manca spesso da casa. Le rimane la nostalgia del suo amore perduto: - Di lui mi ricordo i suoi giochi, mi faceva sorridere… Con mia madre e mia sorella non parlo, loro sono vicine tra loro, io è come se non ci fossi… -
Dopo questo colloquio, mi regala abbozzi di sorrisi appena accennati. Parliamo, ogni tanto. Lei mi guarda, educata e composta. Ma senza speranza. Il suo sguardo rimane in un altrove lontano. - Che libri ti mancano? - Tanti - I libri si trovano. Una collega e i compagni si prodigano.

Ma a gennaio, la solita compagna informata dice all’insegnante di Lettere che K. è incinta.
La chiamo. E’ difficile per me questo colloquio. Questa cosa la dico a K.: - Tu capisci le cose. Ti confesso che a volte il mio lavoro è difficile. Ma è giusto parlarti: ho sentito in giro una voce … Perdona il mio essere esplicita… Si dice che sei incinta: è vero? Hai bisogno di aiuto? - Una lieve sfumatura rosata attraversa il suo volto olivastro, allungato. Non conferma né nega, ma chiede come lo abbia saputo. Le dico che non ha importanza. - Mi pare importante che tu non sia sola con il tuo segreto. - E’ vero …. - adesso sono io a sobbalzare, spero che non se ne accorga.
Riprende: - E’ vero …ho avuto un ritardo … ho avuto paura di essere incinta…. Ma era solo un ritardo. –
La guarda, inghiottendo veloce il mio vederla bambina, il mio puritanesimo del secolo scorso e una grande voglia di abbracciarla. Scelgo le parole con cura. – Devi avere avuto paura. Non saresti stata affatto contenta di essere incinta - Per niente – mi dice sollevata. Continuo: - Sarebbe stato duro essere incinta a 15 anni … Comunque, vivi con attenzione la tua sessualità. Se non vuoi parlarne con tua madre, potresti parlarne con la dottoressa del Consultorio, qui vicino, in via della…. Non sei sola…. -
Annuisce. Aggiungo che faccia attenzione al gruppo che sta frequentando. Che fare sesso è terribilmente impegnativo, specie a 15 anni. Tento di evitare le sirene opposte del moralismo e del farla troppo facile. Le scrivo su un foglio l’indirizzo del consultorio e gli orari. Argomento, per ora concluso. K. mi appare rilassata. Adesso sorride.
Riprendo il vestito di sempre. - Quale libro ti manca … ancora l’inglese. –
Grazie – mi dice alla fine. Mi pare che questa volta i suoi grandi occhi sorridano.

Mi dispiace, ma la storia di K. non ha un lieto fine. Ad aprile ricomincia la frequenza a singhiozzo. A maggio non viene più a scuola. Dalla madre, solo un secco: - Ve l’avevo detto che non voleva venire. – E un astio e un fastidio crescenti, a ogni telefonata. Dai servizi sociali il temuto silenzio.
A giugno, K. ha sedici anni. – Non potete obbligarla oramai – ripetono con toni diversi la madre e il servizio sociale. Riesco solo a strapparle un saluto. Ma solo per telefono. E la promessa che si sarebbe iscritta a un serale.
Poi su K. si è chiuso per sempre il sipario.

E’ la madre che vedo ogni tanto, per strada. Gli occhi fissi nel vuoto. Non mi guarda neppure. Veramente lei non guarda proprio nessuno. Cammina a lungo, nelle strade infelici del nostro quartiere. Come se ricercasse qualcosa. Forse un senso, un aiuto, un uomo, un calore nascosto.

O una polvere bianca, che qualcuno le passa, in silenzio.

Segni dei tempi

    Meriterebbe maggiore attenzione “De reditu”/Il ritorno, film di nicchia che racconta il punto di vista di Claudio Rutilio Namaziano, prefetto a Roma nel 412 a.C., vanamente impegnato a contrastare l’ineluttabile disfacimento dell’impero romano.
Con sguardo attento, Namaziano coglie i numerosi segnali della fine: la diffusione del culto cristiano, per lui irrazionale e incomprensibile, il sempre maggiore controllo del territorio da parte dei barbari, la chiusura di ciascuno verso il proprio “particulare”…
    Anno domini 2010: in un quartiere periferico di Palermo liti furibonde per un telefonino in offerta presso un nuovo mega-centro commerciale, dove ragazzi inebetiti bivaccano senza meta a tutte le ore. Affollati giorno e notte per il rito quotidiano del gratta-e-vinci i troppi punti Snai della città. Tutto questo mentre i capelli di tante concittadine si tingono di un rosso più acceso della lava dell’Etna.
Dicci, Claudio Rutilio: sono forse i segni premonitori della fine della nostra presunta civiltà?

Maria D’Asaro (pubblicato su “Centonove” il 26-11-2010)


venerdì 26 novembre 2010

MULAN AND ME...

Che cosa è necessario inventarsi per far vedere che anche noi donne valiamo qualcosa!
Nel giorno contro la violenza sulle donne....

Coraggio, Mari...

     Di alcune cose, invece, non aveva affatto paura.
Dei topi, ad esempio. - Che carino! – aveva esclamato, in un tempo lontano, quando i grandi in famiglia davano la caccia a un topolino infiltrato in cucina. Nella grande casa, in paese.
    Non aveva paura degli scarafaggi. Neanche di quelli marrone scuro, con le ali. Glissando su nonviolenza e dintorni, a volte li uccideva spietata, vicino al portone di casa.
   Non aveva avuto paura di partorire tre figli.
  Non aveva paura dei ladri. Né degli zingari. E neppure degli extracomunitari. Non temeva Methody, il bulgaro che chiedeva l’elemosina al semaforo. - Come stanno i tuoi figli? E tua moglie?- gli chiedeva talvolta.
   Era l’esperta, in famiglia, nella caccia di vespe e di calabroni: che afferrava e riusciva a cacciare fuori dalla finestra, regalando loro di vivere. Fedele, questa volta, a Gandhi e a Capitini.
     Non aveva paura di essere in minoranza. A casa. A scuola. In città. Le bastava il sostegno di una sola persona, magari. Non aveva paura di vestire alla buona. Con i jeans e la maglietta. Anche se tutti avevano scarpe e borse firmate.
    Non aveva paura di parlare: anche a trecento persone. Il cuore le batteva forte, è vero, ma questo lo sapeva lei sola. Non aveva paura di cambiare lavoro. Chi lo sa, tra un po’ ne avrebbe fatto un altro, ancora diverso. Non aveva paura di seguire i suoi sogni. Veramente ogni tanto mollava. Ma poi iniziava a sognare di nuovo.
    Non aveva paura di leggere un libro sempre diverso.
   Non aveva paura di scrivere. E infatti scriveva. Anche sciocchezze al quadrato. Senza paura di chiedere scusa, ai suoi sette lettori.

mercoledì 24 novembre 2010

NEL BLU DIPINTO DI BLU


Una signora con un manto marrone, che filava la lana, facendo rumore. Nella penombra notturna della stanza da letto dei suoi. Questa, una sue delle prime paure. Aveva, forse, tre anni.
Poi la paura del diavolo, che - diceva una zia - le sarebbe apparso senz’altro, se si ostinava a guardarsi nello specchio della sartoria di papà. Perché lei amava specchiarsi, nei lunghi pomeriggi da bimba, pieni di silenzio e di niente. Adorna di collane e rosari, cantava inni sacri e profani, con la camicia da notte di mamma e lo scialle di nonna; e in testa improvvisati diademi la trasformavano in una vera regina.
Per fortuna, per quanto sostasse temerariamente allo specchio, il diavolo non si fece vedere. A poco a poco, lei smise di averne paura.

Ma poi bussò all’anticamera dei pensieri una paura diversa. Che le apparisse la Madonna. O il Signore in persona. Forse perché la solita zia ne parlava sovente: la Madonna, già apparsa ai pastorelli in Cova d’Iria, poteva mostrarsi di nuovo. E se fosse stata lei la predestinata a così alto colloquio, rimuginava l’ormai alunna di quarta?
Passavano gli anni: lo spavento per le apparizioni cedette il posto a nuovi timori: che la Morte, con sembianze orrende di vecchia, la prendesse per mano. Solo nascosta nel lettone dei suoi, col respiro caldo e sereno di mamma, riusciva a trovare conforto.
Che vergogna, aveva già la maturità nel cassetto, quando contrasse la paura degli Ufo. Magari erano proprio vicini: magari, dopo che la Madonna aveva deciso di sorridere o piangere altrove, erano loro, adesso a volere parlare con lei…

Poi, furono messi da parte anche gli extraterrestri, e le paure divennero molto terrene. Che non riuscisse a studiare. Che il ragazzo dal nome strano non fosse la persona giusta per lei. Che la guerra da fredda divenisse bollente, con i missili a Comiso. Che a Palermo ammazzassero tutti gli onesti. E soprattutto che morisse sua madre.
Un giorno sua madre morì veramente. Nessun catenaccio aveva fermato la Falce. Già prima era morto suo padre. La morte, ormai l’ha conosciuta. E’ il vuoto assoluto, in un punto preciso del petto, quello che continua a temere di più.

Adesso convive con paure più spicciole. Che un giorno dimentichi tutte le belle parole che usa e abbia lo sguardo sperduto del signore del primo piano. Che i suoi figli sposino persone e cause sbagliate.
Che nessuno, magari per finta, le dica: - Ti amo –
E ha ancora il timore delle onde del mare. E di guardare giù, dal ventesimo piano.
Però ha aperto la porta alle sue mille paure: le accoglie, dice loro: buongiorno. Da personcina educata, offre loro da bere: una granita d’estate e una tisana d’inverno.
E, l’ultima volta, ha preso l’aereo e ha sorriso. Felice di volare vicina alle nuvole chiare.
Nel blu dipinto di blu.

martedì 23 novembre 2010

LE STELLE AND ME


No, non gli astri celesti, peraltro nascosti dalle nuvole gonfie di questo bizzoso Novembre. Ma le stelline di dolore che circondano il capo di Paperino quando prende una botta, in una delle sue tragicomiche disavventure.
Prima l’infiammazione al nervo sciatico. Roba con cui conviveva ogni inverno. Poi quella stupida ferita al mignolo del piede destro, che si era procurata non si sa bene come e perché. Così, non appena calzava anche solo una vecchia ciabatta, un nugolo di stelle ballava dispettoso intorno al suo piede.
“Non andare al lavoro, non avrai di certo una medaglia al valore – suggeriva la Maggiore.
Ma lei si vergognava: chiedere un certificato medico solo per un misero dito escoriato… Mentre qualche valorosa collega andava a scuola col il cancro e la chemio. E poi c’erano i bimbi sperduti che l’aspettavano…

Solo che, a piedi nudi, a scuola era impossibile andare. Così, non appena calzava gli stivaletti, il balletto di stelle riprendeva a danzare vorticosamente davanti ai suoi occhi… Con grande tristezza, per due giorni aveva sparso anche un po’ di CO2, costretta, com’era, ad andare al lavoro con l’automobile.
Perché racconta questa sciocchezza, qualcuno dirà.
Perché, ora che il dolore è quasi passato, lei ringrazia Dio (o il Cielo o il caso o la Natura o la buona sorte) perché ha un corpo sano che le consente di essere autonoma. Che la fa camminare, ridere, persino salire le scale. E ha due mani e due piedi. E venti dita: quasi perfette.

Non è poco, in questi tempi di crisi.