Carissima mami,
- Chi
sente più freddo, tu o il cagnolino? – chiedevi alla ragazzina che teneva la
bestiola tra la giacchetta e il suo petto, mentre in quel ventoso martedì di
marzo ti fermavi per strada, affannata, percorrendo gli ultimi passi verso lo
studio medico che avrebbe diagnosticato l'infarto mortale.
Già, il freddo... Tu e io lo pativamo un casino. Ma il nostro
era anche un freddo interiore. Incurabile con le coperte.
Un po’, mi sei sempre mancata. Quando ero
bambina, eri sempre al lavoro, all’ufficio postale. A casa, la sera, avevi
mille cose da fare. Avevi pensieri nascosti, desideri abbozzati, troppi dolori...
Non riuscivo a toccarti e a farmi toccare. Avrei dato chissà cosa per vederti
sorridere. Ti avrei voluto diversa: in
salute, allegra, “leggera”.
Quando papà è morto, ho cominciato a
considerarti mia figlia. Ero in pena per te, sola in una casa ormai troppo
grande. Temevo che morissi di notte, all’improvviso. Sarei voluta stare al tuo
fianco, come se tu fossi stata la mia piccolina di cui ascoltavo il respiro, vicino
alla culla. Ero in pena per il caldo che ti opprimeva d'estate … quando il
vento soffiava forte d'inverno e il suo ululato insinuante ti metteva paura … per la bestia cattiva della
glicemia che ti faceva soffrire.
Certo, eravamo diverse: tu ricca di senso
pratico e coi piedi per terra, io sognatrice e vogliosa di cambiare il mondo;
tu coraggiosa e decisa, io incerta su tutto; tu immediata e sincera a costo di
apparire dura e persino brutale, io, che glissavo e mediavo all'inverosimile.
Ma chi può dire com'eri veramente? Forse
ti tenevo in prigione nell'idea che di
te mi ero fatta e da quella gabbia invisibile non ti facevo fuggire.
Quando te ne sei andata, ho scoperto che
la tua sicurezza non era poi così granitica: le tue tante lettere mi hanno
fatto capire che parlare con qualcuno era per te un'urgenza dolorosa, un
bisogno quasi spasmodico. La tua solitudine non scelta cercava disperatamente
di essere consolata.
Non eravamo poi così diverse: la tua voglia di
comunicare, il tuo amore per i libri, la tua voglia di ascoltare, la tua
curiosità di capire – che tenera quando mi hai chiesto chi fossero i gay e i
transessuali - i tuoi giudizi azzeccati,
la tua autonomia di giudizio … tutto questo forse ci legava più di quanto io
immaginassi e sperassi.
Eppure non ti ho mai parlato di me: un
inconfessato pudore me lo ha impedito ... ti escludevo dal mio mondo perchè temevo di
non essere capita. E perché non volevo farti soffrire.
Mi manchi. Mi manca la tua voce.
Mi manca il sugo di pomodoro, che con rara
perizia preparavi d'estate.
Mi manca lo scambio continuo di sacchetti
tra la tua casa e la mia: provviste per me, barattoli vuoti per te. In un ciclo
che speravo non avesse mai fine.
Mi mancano le piccole, innumerevoli cure
che avevi per me e i bambini
Mi mancano i tuoi rammendi amorevoli. Che
lenivano non solo le lacerazioni dei tessuti, ma anche le mie ferite interiori.
E rattoppavano le maglie slegate dei miei pensieri, nutrendo il mio bisogno
d'affetto.
Non c'eri, ma c'eri. Ora porto con me la
fatica di dover essere madre ogni giorno, senza essermi potuta saziare di
essere figlia.
A volte la sera ti penso. Ti penso
sigillata per sempre nella tomba del nonno, con l'angioletto che tende le mani
al cielo. Non riesco a capire che senso abbia il tutto.
Una cosa mi hai trasmesso, con convinzione:
"il pollice verde".
In quel fazzoletto del nostro balcone, da bambina
osservavo con quanta sapienza curavi le piante. Così ho imparato ad amarle. E
ho continuato a curarle, anche quando sono rimasta da sola.
Ho una speranza segreta: che tu sia stata portata
in un'altra terra, in un altro bel posto, e che adesso possa godere di un’altra
luce. E di altro calore. Che tu, almeno tu, non senta più freddo.