domenica 31 maggio 2020

Benvenuti in Sicilia: spiagge, cibo e bellezze naturali

       Palermo – La Sicilia è stata tra le zone meno colpite dalla pandemia da Covid-19: nella classifica delle regioni italiane occupa infatti il dodicesimo posto per numero totale di contagi (3435 i casi totali accertati al 27 maggio scorso), mentre è al quindicesimo posto per numero di decessi, superata in questa dolorosa classifica da altre tre regioni italiane. 
      Ma l’economia isolana, già fragile per la mancanza di importanti poli industriali, caratterizzata da gravi carenze nelle infrastrutture e nei trasporti, basata in larga parte sul turismo, è ora in ginocchio a causa dell’azzeramento di visitatori italiani ed esteri.
      Dal 3 giugno prossimo, con la graduale probabile riapertura dei confini tra le regioni, la Sicilia proverà a ripartire, cercando di attirare i turisti italiani col suo mare, con la qualità della sua gastronomia e con le sue straordinarie bellezze storiche e naturali.
        Proviamo ad elencare almeno nove buone ragioni che rendono l’isola un’attraente meta turistica (continua su il Punto Quotidiano)

Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 31.05.2020

venerdì 29 maggio 2020

Che ci faccio qui?

E.Munch: Melanconia (1894)






Minneapolis, un piede sulla gola:
“Non posso respirare”.

Hong Kong, bavagli alla libertà:
“Non possiamo vivere”.

Che ci faccio
in questo pianeta desolato?






Maria D'Asaro

mercoledì 27 maggio 2020

Non di solo pane …

Van Gogh: Riposo
   Egregio Presidente Musumeci,
       
         La pandemia ha imposto il blocco di tutte le attività commerciali non essenziali: con il lockdown gli unici esercizi aperti sono stati solo quelli dei generi alimentari, chiusi peraltro nei festivi. Ora, grazie al quasi azzeramento della curva dei contagi, nella nostra Regione si sta riaprendo tutto. E pare si preveda anche la riapertura festiva dei supermercati alimentari. Non si potrebbe invece mantenere l’obbligo di chiusura? Durante l'emergenza covid-19 facevamo la spesa per settimane e compravamo sabato il pane per la domenica. Potremmo farlo anche adesso. Servizi essenziali infatti sono solo sanità, protezione civile, forze di polizia. Se la domenica si riposano gli addetti alle poste, alle banche, gli insegnanti ... perché non dovrebbero avere un intero giorno libero anche panettieri e salumieri? L’esperienza amara e dolorosa del coronavirus dovrebbe averci insegnato che non si vive solo di liberalizzazioni selvagge e di pane (fresco) …

Maria D’Asaro

domenica 24 maggio 2020

Letizia Battaglia, foto di mafia e di riscatto

          Palermo – Forse non tutti sanno che Letizia Battaglia, 85 anni portati con grinta e voglia di vivere, insignita di numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali per la qualità e lo spessore umano delle sue foto, è stata la prima donna/fotografo a lavorare in Italia per un quotidiano. 
          Si trattava de “L’Ora” di Palermo, punta di diamante nella lotta alla mafia e alla corruzione. Con le sue foto, ha documentato il bagno di sangue causato dalla mafia palermitana negli anni ’70 e ’80, con i tanti assassini di uomini dello Stato: suo è lo scatto del 6 gennaio 1980 che ritrae l’assassinio del Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, con il fratello Sergio che tenta di soccorrerlo. Definita “la fotografa della mafia”, la fotoreporter non ha mai gradito tale appellativo, ritenuto parziale e riduttivo.
      Ecco come lei stessa si racconta nel docufilm del 2019 “Shooting the mafia”: «Ho cominciato a fotografare a 40 anni. All’inizio facevo foto orribili. Poi, piano piano, le foto sono migliorate e mi sono accorta che mi ero innamorata di ciò che potevo esprimere con la fotografia e che non riuscivo ad esprimere con la scrittura. Così, è iniziata una sorta di storia d’amore con le foto. La macchina fotografica è stata la vera chance della mia vita, mi ha fatto diventare una persona. E mi è piaciuto raccontare le storie con le mie fotografie».
Letizia Battaglia non si è limitata a narrare le storie di bambini, donne, strade, feste, quartieri, usanze della città di Palermo. Con il suo obiettivo, ha raccontato in modo magistrale e toccante la Storia siciliana – e italiana – dell’ultimo cinquantennio. Dopo solo tre giorni dall’inizio del lavoro al giornale “L’Ora” c’è stato il primo morto ammazzato da fotografare, ucciso in una campagna vicino Palermo, a terra tra gli ulivi, immobile da un numero interminabile di ore: «L’odore era insopportabile. La foto del primo omicidio non si scorda mai».
Con la forza coraggiosa che la contraddistingue, all’inizio dovrà lottare e urlare per occupare lo spazio che le spetta come fotoreporter: «La RAI passa, i fotografi maschi passano, io perché no?». Poi, quando inizia la guerra di mafia a Palermo, i morti li fotografa tutti «Certe volte fotografavo cinque omicidi in un giorno, una volta persino sette. Non era mai successa una mattanza simile. Una volta in un anno furono compiuti più di mille omicidi».  «Era complicato far capire che era per amore che fotografavo … è imbarazzante condividere il dolore con una macchina fotografica».
Sarà lei a fotografare l’assassinio del procuratore Scaglione, quello del giudice Gaetano Costa, in pieno centro cittadino. Sarà sempre lei, nel 1979, a scattare la foto che ritrae Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo compromesso con Cosa Nostra, vicino all’onorevole Andreotti. E scatterà quella ancora più compromettente, del Presidente Andreotti con l’esattore Nino Salvo. E’ sua la foto del boss mafioso Luciano Liggio che, ammanettato, entra per la prima volta in tribunale, e cammina davanti ai poliziotti a testa alta, come se fosse lui il carceriere. Ricorda ancora lo sguardo di Liggio che sembrava sfidarla e minacciarla, dietro gli occhiali. «So che se avesse potuto, mi avrebbe ammazzato. Pensa come si sentivano loro, i mafiosi, a essere fotografati da una donna. Erano così pieni della loro autorità. Io tremavo. Ma tremavo di emozione, non di paura. I boss davano una tale sensazione di potere crudele e tu li stavi sfidando».
      A Letizia e a Franco Zecchin, collega fotografo e suo compagno di vita per oltre vent’anni, sono arrivati avvertimenti di ogni genere: macchine fotografiche distrutte, sputi in faccia, lettere anonime, minacce di morte per telefono. Ma Letizia non ha mai dato spazio alla paura «Io non devo avere paura. Non posso avere paura. Mi sento libera, perché sono libera dentro. Non dobbiamo mai arrenderci a uomini vigliacchi che uccidono nell’ombra. E che, pur di esercitare un potere, fanno una vita difficile, assurda.»
Tra gli anni ’80 e ’90 Letizia Battaglia è stata anche impegnata in politica, col partito dei Verdi. Ma confessa di ricordare con amarezza quella fase della sua vita: «Prendevo tanti soldi e non facevo niente, a mio avviso. Avevo la sensazione che tutto fosse deciso altrove».
Quando parla della sua vita oggi, dice: «Voglio continuare a vivere e a lottare sino a che avrò respiro. Continua a sentire nella mia testa una potenza, una forza che forse non ho mai avuto. C’è una bellezza anche nell’avere quest’età, sono lucida e non temo neanche la fine».
Infine, a 28 anni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, Letizia esprime con commozione il suo rammarico per le foto non fatte, per gli scatti negati a sé stessa per rispetto allora verso lo scempio dei corpi di quei servitori dello Stato per i quali nutriva amicizia e stima: «Però ora che sono passati tanti anni sento che le foto non fatte sono quelle che mi fanno più male. Perché non le ho fatte, mi mancano. È invece come se così avessi mancato loro di rispetto».
Aveva tanto insistito per fare una buona foto al giudice Falcone. Ma lui «Lascia perdere, Letizia … altrimenti mi accusano di protagonismo». E la bella foto da vivo, a Giovanni Falcone, amico stimatissimo, non riuscì mai a farla.
«Una parte della nostra vita è finita, il 23 maggio 1992 … Forse non si ha l’idea di quanto noi siciliani amassimo Falcone. Per noi era ed è un eroe moderno. Anche per lui, ancora oggi ho la forza di sognare e immaginare una Sicilia senza la mafia. Vorrei davvero poterla vedere».

Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 24/05/2020

sabato 23 maggio 2020

23 maggio 1992/2020: un lenzuolo per non dimenticare

      Il 23 maggio 1992, la strage di Capaci ci ha sconvolti. Ci ha cambiato la vita.
     Il giudice Giovanni Falcone era un’icona nella lotta alla mafia, grazie alla sua straordinaria intelligenza investigativa. Era un uomo colto e preparatissimo, siciliano fino al midollo ma capace di parlare e intendersi con chiunque: poliziotti statunitensi, magistrati svizzeri e colombiani, giornalisti d’oltralpe, poliziotti, pentiti, uomini della strada, insegnanti, politici.
       Falcone riusciva a capire le pieghe più profonde, intime e universali dell’animo umano e aveva una visione a 360 gradi della mafia, nei vari contesti sociali. “Segui i soldi, gli interessi … e troverai la mafia” – era la sua profonda convinzione. “Possiamo sempre fare qualcosa …  Ma solo affrontando la mafia per quello che è – un’associazione criminale seria e perfettamente organizzata – saremo in grado di combatterla” affermava nel libro-intervista Cose di cosa nostra.
        Quando lo hanno ammazzato, noi siciliani ci siamo sentiti più soli, vulnerabili, scoperti.
Non avevamo più il giudice adamantino che tentava di sconfiggere la piovra per tutti noi.
         Già provati da decine e decine di altri assassini eccellenti – il Presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, i magistrati Gaetano Costa e Rocco Chinnici ,il medico Paolo Giaccone, il poliziotto Ninni Cassarà, tanto per citare qualche nome alla spicciolata – senza il giudice dai toni pacati e dalla mente acutissima e vulcanica, dal sorriso mite e dalla battuta ironica, con un grande amore per il suo lavoro, ma anche per il mare e per le nuotate, i siciliani, gli italiani onesti si sono trovati irrimediabilmente soli.
E responsabili personalmente della lotta a Cosa nostra, ognuno secondo il suo ruolo, la sua formazione, le sue possibilità.
        Il minimo che possiamo fare  è mettere oggi, alle ore 18, un lenzuolo al nostro balcone o alla nostra finestra per onorare la memoria di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato,  e degli agenti di scorta Alberto Montinari, Vito Dicillo e Vito Schifani.




giovedì 21 maggio 2020

Manteniamo le distanze. Quali?

          Usciti dal lockdown, l’imperativo è comunque quello di mantenere le distanze tra le persone per evitare che il covid-19 – comunque presente nel territorio italiano – si propaghi nuovamente.            Ci viene chiesto di  rispettare la regola del “distanziamento sociale”. 
Ma è corretta questa dicitura? Sembrerebbe proprio di no. 
   A evidenziarlo una persona a me cara, il professor Cosimo Costa (ne parlo in quest’articolo), che mi ha inviato una mail con le seguenti inconfutabili considerazioni:

              “In questi tempi di coronavirus stiamo vivendo un'esperienza, fra le tante altre, di mantenerci gli uni dagli altri alla distanza di circa un metro. Questa misura, adottata per i ben noti motivi di rischio di contagio, la chiamano “distanziamento sociale”. Ma è corretta questa denominazione? Per me è sbagliata. Sarebbe più appropriato il termine “distanziamento fisico”.
Io ho degli amici a Brescia coi quali mi sento spesso con messaggi affettuosi, per telefono e in video chiamata. Da loro mi separa una distanza fisica di circa mille chilometri e una distanza sociale quasi nulla.
              Per contro, ho una vicina di casa, dirimpettaia di pianerottolo, dalla quale mi separa una distanza fisica di pochi metri e una distanza sociale illimitata, perché non ci vediamo quasi mai e nessuno di noi, per mesi e mesi, è in grado di sapere se il dirimpettaio è vivo o morto.
L'obbligo di distanza fisica di un metro esiste da alcuni mesi, ma la distanza sociale è un fenomeno iniziato almeno una cinquantina di anni fa, con andamento crescente fino a raggiungere i valori abissali di oggi. 
         Per fare un esempio, quando i coniugi Federico e Concetta con i tre figli Gaetana Giovanni e Grazia, alla fine della seconda guerra mondiale, tornarono da Roma e presero in affitto un appartamento a Palermo, non avevano finito ancora il trasloco che videro arrivare due signore abitanti del palazzo di fronte. Una portava il caffè e l'altra un vassoietto di dolci, venute a dare il ben venuto ai nuovi arrivati. Quella era una distanza fisica di 100 metri e una distanza sociale zero. Inimmaginabile oggi. 
       Un altro esempio. Nel 1958, la mia vicina di casa era l'unica abitante fra i cinque palazzi circostanti a possedere la televisione. Lei metteva ogni sera a disposizione del vicinato il suo saloncino e i suoi quattro divani con circa 20 posti a sedere. Affluivano dai dintorni ragazzi e genitori a vedere Mario Riva e Mike Bongiorno e fiorivano amicizie che duravano per molti anni. Quelli erano esempi di distanze fisiche le più disparate e distanze sociali zero.”

lunedì 18 maggio 2020

Videochiamare ... stanca

        Palermo – All’inizio della pandemia, le videochiamate, il lavoro in modalità smart working, la DAD (Didattica a distanza) sembravano la panacea per la fisicità negata dall’imprevisto lockdown. A poco a poco, si è visto però che le tante ore trascorse in conversazione davanti allo schermo del computer possono provocare spiacevoli effetti collaterali: stanchezza, mal di testa e senso di nausea. Tanto da far coniare le locuzioni “Zoom fatigue” e “Hangover (stordimento/sbornia) da videochiamata”. 
Perché?  Marissa Shuffler e Gianpiero Petriglieri, esperti dell’apprendimento e del benessere sul posto di lavoro, hanno provato a dare delle risposte. 
Innanzitutto, comunicare in videochiamata richiede maggiore fatica rispetto al parlarsi faccia a faccia, anche solo per capire quello che l’altro sta dicendo: dobbiamo prestare costante attenzione all’interlocutore per elaborare segnali non verbali come le espressioni facciali, il tono della voce e il linguaggio del corpo. Al dispendio energetico necessario per ‘tenere insieme’ tutti i segnali comunicativi, si aggiunge spesso la fatica dovuta a eventuali disturbi nella ricezione audio e video. 
Un ulteriore fattore di stress è la consapevolezza di essere sotto lo sguardo degli altri, situazione che induce a dare sempre il massimo della performance perché è come se ci si sentisse su un palcoscenico. Anche perché è difficile non guardare il proprio viso sullo schermo e disinteressarsi dell’effetto che si fa nella telecamera. 
     Secondo Petriglieri inoltre, il fatto che talvolta ci sentiamo “costretti” a fare questo tipo di chiamate contribuisce all’affaticamento mentale. Non solo: aspetti della nostra vita che prima erano separati – lavoro, amici, famiglia – coesistono nello stesso spazio. Questa mancanza di varietà è poco sana. Accade allora che persino le videochiamate con gli amici e i familiari siano stancanti, soprattutto se si tratta di un collegamento con più di tre persone, situazione questa che richiede un livello di attenzione e concentrazione che sa più di lavoro che di rilassamento.
        C’è poi da sottolineare che, per ovviare all’assenza di contatto e prossimità fisica la comunicazione virtuale è diventata ipertrofica: i social traboccano di contenuti, Whatsapp risuona di notifiche, il telefono squilla più del solito. Il silenzio è diventato ancora più raro e prezioso di prima della pandemia. Così, paradossalmente, abbiamo forse meno tempo libero rispetto a prima …
Come difenderci da quest’inedita forma di burn-out telematico? Gli esperti suggeriscono intanto di limitare le videochiamate a quelle strettamente necessarie. L’accensione della videocamera dovrebbe essere inoltre facoltativa. 
       Bisogna poi considerare se le videochiamate siano davvero sempre l’opzione migliore; in alcuni contesti, potrebbe bastare una mail, o dei file condivisi. Risulta molto proficuo anche concedersi dei “momenti di transizione” durante le videoconferenze: fare stretching o un po’ di ginnastica, bere dell’acqua. Petriglieri si spinge ancora più in là suggerendo di tornare alle antiche usanze: «Se vuoi dire a qualcuno ti manca, invece di proporre una videochiamata su Zoom, prova a scrivergli una lettera».
        Infine, il professore Giovanni Salonia, docente di Psicologia sociale e psicoterapeuta, evidenzia che: “Uno dei problemi delle videoconferenze e delle lezioni on line è lo sguardo fisso. Al computer lo spettro visivo è ridotto, mentre in presenza risulta più ampio.  La fissità e la riduzione dello spettro visivo inducono sonnolenza, stanchezza, stress … Ecco perché abbiamo bisogno di guardare il cielo.”.

Maria D’Asaro, 17.05.2020, il Punto Quotidiano

sabato 16 maggio 2020

16 maggio ... secondo Wislawa

Antonio Cutino: Dal veterinario (1973)
Il 16 maggio 1973

Una delle tante date
Che non mi dicono più nulla.

Dove sono andata quel giorno,
che cosa ho fatto – non lo so.

Se lì vicino fosse stato commesso un delitto
– non avrei un alibi.


Il sole sfolgorò e si spense
Senza che ci facessi caso.
La terra ruotò
E non ne presi nota.

Mi sarebbe più lieve pensare
Di essere morta per poco,
piuttosto che ammettere di non ricordare nulla
benché sia vissuta senza interruzioni.

Non ero un fantasma, dopotutto,
respiravo, mangiavo,
si sentiva
il rumore dei miei passi,
e le impronte delle mie dita
dovevano restare sulle maniglie.

Lo specchio rifletteva la mia immagine.
Indossavo qualcosa d’un qualche colore.
Certamente più d’uno mi vide.

Forse quel giorno
Trovai una cosa andata perduta.
Forse ne persi una trovata poi.

Ero colma di emozioni e impressioni.
Adesso tutto questo è come
Tanti puntini tra parentesi.

Dove mi ero rintanata,
dove mi ero cacciata –
niente male come scherzetto
perdermi di vista così.

Scuoto la mia memoria –
Forse tra i suoi rami qualcosa
Addormentato da anni
Si leverà con un frullo.

No.
Evidentemente chiedo troppo,
addirittura un intero secondo.

Wislawa Szymborska (traduzione di Pietro Marchesani)

mercoledì 13 maggio 2020

Come polvere o vento: Alda, vista da Pino Manzella

Alda Merini: Pino Manzella (2019)

Se la mia poesia mi abbandonasse
come polvere o vento,
se io non potessi più cantare,
come polvere o vento,
io cadrei a terra sconfitta
trafitta forse come la farfalla
e in cerca della polvere d'oro
morirei sopra una lampadina accesa,
se la mia poesia non fosse come una gruccia
che tiene su uno scheletro tremante,
cadrei a terra come un cadavere
che l'amore ha sconfitto.
                                              Alda Merini


Se volete farvi un'idea di Pino Manzella, che ho intervistato qui,  leggete anche qui, qui e qui.


domenica 10 maggio 2020

Florence Nightingale, la signora con la lanterna

Palermo - Il suo nome, Florence, fu un tributo alla città di Firenze, dove Florence Nightingale nacque esattamente duecento anni fa, il 12 maggio 1820: Florence Nightingale, nota come "la signora con la lanterna", è l’infermiera britannica considerata la fondatrice dell'assistenza infermieristica moderna.
              Nata in una famiglia dell'élite borghese britannica - il padre, William Edward Nightingale, fu un illustre pioniere dell'epidemiologia - profondamente legata ai valori evangelici, nel 1845 Florence disse ai suoi familiari di volersi dedicare alla cura di persone malate ed indigenti. L'opposizione della famiglia evidenziò il suo carattere forte e determinato nel perseguire i suoi obiettivi. Florence annunciò anche che avrebbe rinunciato ai ruoli di moglie e madre, temendo che interferissero con la sua vocazione. 
                Quella di infermiera all'epoca era una professione poco stimata, tanto che nell'esercito le infermiere erano equiparate alle vivandiere. Pur non avendo una specifica formazione di tipo medico, la Nightingale riconobbe ben presto le carenze nelle modalità in cui la professione infermieristica era allora esercitata. Già nel dicembre 1844, si adoperò intanto per un deciso miglioramento delle cure mediche negli ambulatori delle "workhouses" per le persone povere. 
                Fu poi decisiva la sua esperienza in Crimea, dove si recò nel 1854 a seguito delle notizie di stampa sulle gravissime condizioni in cui venivano curati i feriti. All'ospedale militare allestito nella caserma di Scutari, Florence e le sue infermiere scoprirono che i soldati feriti erano mal curati, nell'indifferenza delle autorità: il personale medico era sovraccarico, le medicine scarse, l'igiene trascurata, le infezioni di massa erano comuni e spesso fatali, la cucina non attrezzata.  La Nightingale individuò allora i cinque requisiti essenziali che un ambiente doveva possedere per essere salubre: aria pulita, acqua pura, sistema fognario efficiente, pulizia, luce.  
Fu proprio durante la guerra di Crimea che Florence Nightingale ricevette il nomignolo "The Lady with the Lamp", che derivò da un articolo di ‘The Times’ che ne lodava l'abnegazione ("When all the medical officers have retired for the night (...) she may be observed alone, with a little lamp in her hand, making her solitary rounds"- Quando tutti gli ufficiali medici si ritirano di notte, lei continua a girare da sola, facendo la sua solitaria ricognizione, con in mano la sua piccola lanterna).
            Nel 1860 si decise a pubblicare “Notes on Nursing”, un libretto di 136 pagine, pietra angolare del curriculum delle scuole per infermieri, testo che, ancora oggi, è considerato un’introduzione classica all’esercizio di tale professione. Per tutta la sua vita, Florence promosse l'istituzione e lo sviluppo della professione di infermiere nella sua forma moderna. Anche grazie a lei, la professione infermieristica, fino ad allora piuttosto mal considerata, guadagnò di status: già nel 1882 le sue infermiere avevano una presenza crescente e influente nell’ambiente sanitario, occupando posizioni di rilievo nei principali ospedali del Regno Unito e dell'Australia. 
                Intanto, già nel 1858 Florence divenne la prima donna membro della Royal Statistical Society. Nei decenni successivi si dedicò all'osservazione critica e all'attività di consulenza per la sanità britannica. Sotto la sua guida, venne introdotta la raccolta di informazioni accurate per ottenere dati statistici sui tassi di natalità, mortalità e sulle cause dei decessi. Fu la prima studiosa sanitaria ad applicare in modo pionieristico, rigoroso e massiccio lo studio della statistica nella compilazione, nell’analisi e presentazione grafica dei dati sulle cure mediche e sulla igiene pubblica. Si occupò anche di assistenza sociale e contribuì alla nascita dei servizi sociali inglesi. 
            Tra il 1883 e il 1908 Florence Nightingale ricevette numerose onorificenze, in particolare fu la prima donna a ricevere l'Order of Merit. Morì a Londra nel 1910, all’età di novant’anni.
Dal 1974, il giorno della sua nascita, il 12 maggio, viene celebrato in tutto il mondo come giornata internazionale dell'infermiere.

Maria D’Asaro, 10/05/2020, il Punto Quotidiano