domenica 13 dicembre 2009

Amaca e dintorni





Ogni imputato davanti a una corte suscita pena, specie se una pena lo aspetta. Non fa eccezione il povero Fabrizio Corona, la cui mise da tribunale, con camicia bianca aperta sui tatuaggi, è così pateticamente trucida da costringerci a sommare, alla normale compassione per chi si è messo nei guai, una sorta di compassione generale per lo stato delle cose. Una di quelle immagini che ti fanno pensare che l´umanità intera stia per sprofondare - meritatamente - agli inferi.
Certo non era scontato, né desiderabile, che alla scomparsa dell´etica, della quale Corona è un interprete tra i più notevoli, si accompagnasse una catastrofe estetica di questa portata. Un inguaribile ottimista potrebbe presumere che Corona, esponendo il petto inerme alla raffica della legge, abbia voluto rendere omaggio alla "Fucilazione" di Francisco Goya. Ma "Goya", da quelle parti, può essere al massimo il nome di una discoteca, e più verosimilmente Corona si è presentato in tribunale come se andasse al localino sotto casa, perché non c´è istituzione, o rito, o momento solenne che meriti la dismissione del proprio narcisismo. Corona, del resto, è colui che filmò con una telecamera nascosta le lacrime della moglie alla propria causa di separazione, per rivendere le immagini a Mediaset (complimenti vivissimi a chi le acquistò). È come se oramai mancassero (non solo al povero Corona) le occasioni per chinare il capo, rispettare qualcuno o qualcosa (anche se stessi), imparare da qualcuno o da qualcosa.
In questo senso le immagini di Corona in tribunale con le tette al vento sono un´istantanea folgorante della malattia italiana. Malattia, non altro. Corona, dopo la sentenza, ha detto di vergognarsi di essere italiano. Ma qui non è questione di vergognarsi: è una perdita di tempo da moralisti. Qui sarebbe questione di guarire, o almeno di provarci.

(La Repubblica, 11.12.09)

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