domenica 31 maggio 2020

Benvenuti in Sicilia: spiagge, cibo e bellezze naturali

       Palermo – La Sicilia è stata tra le zone meno colpite dalla pandemia da Covid-19: nella classifica delle regioni italiane occupa infatti il dodicesimo posto per numero totale di contagi (3435 i casi totali accertati al 27 maggio scorso), mentre è al quindicesimo posto per numero di decessi, superata in questa dolorosa classifica da altre tre regioni italiane. 
      Ma l’economia isolana, già fragile per la mancanza di importanti poli industriali, caratterizzata da gravi carenze nelle infrastrutture e nei trasporti, basata in larga parte sul turismo, è ora in ginocchio a causa dell’azzeramento di visitatori italiani ed esteri.
      Dal 3 giugno prossimo, con la graduale probabile riapertura dei confini tra le regioni, la Sicilia proverà a ripartire, cercando di attirare i turisti italiani col suo mare, con la qualità della sua gastronomia e con le sue straordinarie bellezze storiche e naturali.
        Proviamo ad elencare almeno nove buone ragioni che rendono l’isola un’attraente meta turistica (continua su il Punto Quotidiano)

Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 31.05.2020

venerdì 29 maggio 2020

Che ci faccio qui?

E.Munch: Melanconia (1894)






Minneapolis, un piede sulla gola:
“Non posso respirare”.

Hong Kong, bavagli alla libertà:
“Non possiamo vivere”.

Che ci faccio
in questo pianeta desolato?






Maria D'Asaro

mercoledì 27 maggio 2020

Non di solo pane …

Van Gogh: Riposo
   Egregio Presidente Musumeci,
       
         La pandemia ha imposto il blocco di tutte le attività commerciali non essenziali: con il lockdown gli unici esercizi aperti sono stati solo quelli dei generi alimentari, chiusi peraltro nei festivi. Ora, grazie al quasi azzeramento della curva dei contagi, nella nostra Regione si sta riaprendo tutto. E pare si preveda anche la riapertura festiva dei supermercati alimentari. Non si potrebbe invece mantenere l’obbligo di chiusura? Durante l'emergenza covid-19 facevamo la spesa per settimane e compravamo sabato il pane per la domenica. Potremmo farlo anche adesso. Servizi essenziali infatti sono solo sanità, protezione civile, forze di polizia. Se la domenica si riposano gli addetti alle poste, alle banche, gli insegnanti ... perché non dovrebbero avere un intero giorno libero anche panettieri e salumieri? L’esperienza amara e dolorosa del coronavirus dovrebbe averci insegnato che non si vive solo di liberalizzazioni selvagge e di pane (fresco) …

Maria D’Asaro

domenica 24 maggio 2020

Letizia Battaglia, foto di mafia e di riscatto

          Palermo – Forse non tutti sanno che Letizia Battaglia, 85 anni portati con grinta e voglia di vivere, insignita di numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali per la qualità e lo spessore umano delle sue foto, è stata la prima donna/fotografo a lavorare in Italia per un quotidiano. 
          Si trattava de “L’Ora” di Palermo, punta di diamante nella lotta alla mafia e alla corruzione. Con le sue foto, ha documentato il bagno di sangue causato dalla mafia palermitana negli anni ’70 e ’80, con i tanti assassini di uomini dello Stato: suo è lo scatto del 6 gennaio 1980 che ritrae l’assassinio del Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, con il fratello Sergio che tenta di soccorrerlo. Definita “la fotografa della mafia”, la fotoreporter non ha mai gradito tale appellativo, ritenuto parziale e riduttivo.
      Ecco come lei stessa si racconta nel docufilm del 2019 “Shooting the mafia”: «Ho cominciato a fotografare a 40 anni. All’inizio facevo foto orribili. Poi, piano piano, le foto sono migliorate e mi sono accorta che mi ero innamorata di ciò che potevo esprimere con la fotografia e che non riuscivo ad esprimere con la scrittura. Così, è iniziata una sorta di storia d’amore con le foto. La macchina fotografica è stata la vera chance della mia vita, mi ha fatto diventare una persona. E mi è piaciuto raccontare le storie con le mie fotografie».
Letizia Battaglia non si è limitata a narrare le storie di bambini, donne, strade, feste, quartieri, usanze della città di Palermo. Con il suo obiettivo, ha raccontato in modo magistrale e toccante la Storia siciliana – e italiana – dell’ultimo cinquantennio. Dopo solo tre giorni dall’inizio del lavoro al giornale “L’Ora” c’è stato il primo morto ammazzato da fotografare, ucciso in una campagna vicino Palermo, a terra tra gli ulivi, immobile da un numero interminabile di ore: «L’odore era insopportabile. La foto del primo omicidio non si scorda mai».
Con la forza coraggiosa che la contraddistingue, all’inizio dovrà lottare e urlare per occupare lo spazio che le spetta come fotoreporter: «La RAI passa, i fotografi maschi passano, io perché no?». Poi, quando inizia la guerra di mafia a Palermo, i morti li fotografa tutti «Certe volte fotografavo cinque omicidi in un giorno, una volta persino sette. Non era mai successa una mattanza simile. Una volta in un anno furono compiuti più di mille omicidi».  «Era complicato far capire che era per amore che fotografavo … è imbarazzante condividere il dolore con una macchina fotografica».
Sarà lei a fotografare l’assassinio del procuratore Scaglione, quello del giudice Gaetano Costa, in pieno centro cittadino. Sarà sempre lei, nel 1979, a scattare la foto che ritrae Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo compromesso con Cosa Nostra, vicino all’onorevole Andreotti. E scatterà quella ancora più compromettente, del Presidente Andreotti con l’esattore Nino Salvo. E’ sua la foto del boss mafioso Luciano Liggio che, ammanettato, entra per la prima volta in tribunale, e cammina davanti ai poliziotti a testa alta, come se fosse lui il carceriere. Ricorda ancora lo sguardo di Liggio che sembrava sfidarla e minacciarla, dietro gli occhiali. «So che se avesse potuto, mi avrebbe ammazzato. Pensa come si sentivano loro, i mafiosi, a essere fotografati da una donna. Erano così pieni della loro autorità. Io tremavo. Ma tremavo di emozione, non di paura. I boss davano una tale sensazione di potere crudele e tu li stavi sfidando».
      A Letizia e a Franco Zecchin, collega fotografo e suo compagno di vita per oltre vent’anni, sono arrivati avvertimenti di ogni genere: macchine fotografiche distrutte, sputi in faccia, lettere anonime, minacce di morte per telefono. Ma Letizia non ha mai dato spazio alla paura «Io non devo avere paura. Non posso avere paura. Mi sento libera, perché sono libera dentro. Non dobbiamo mai arrenderci a uomini vigliacchi che uccidono nell’ombra. E che, pur di esercitare un potere, fanno una vita difficile, assurda.»
Tra gli anni ’80 e ’90 Letizia Battaglia è stata anche impegnata in politica, col partito dei Verdi. Ma confessa di ricordare con amarezza quella fase della sua vita: «Prendevo tanti soldi e non facevo niente, a mio avviso. Avevo la sensazione che tutto fosse deciso altrove».
Quando parla della sua vita oggi, dice: «Voglio continuare a vivere e a lottare sino a che avrò respiro. Continua a sentire nella mia testa una potenza, una forza che forse non ho mai avuto. C’è una bellezza anche nell’avere quest’età, sono lucida e non temo neanche la fine».
Infine, a 28 anni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, Letizia esprime con commozione il suo rammarico per le foto non fatte, per gli scatti negati a sé stessa per rispetto allora verso lo scempio dei corpi di quei servitori dello Stato per i quali nutriva amicizia e stima: «Però ora che sono passati tanti anni sento che le foto non fatte sono quelle che mi fanno più male. Perché non le ho fatte, mi mancano. È invece come se così avessi mancato loro di rispetto».
Aveva tanto insistito per fare una buona foto al giudice Falcone. Ma lui «Lascia perdere, Letizia … altrimenti mi accusano di protagonismo». E la bella foto da vivo, a Giovanni Falcone, amico stimatissimo, non riuscì mai a farla.
«Una parte della nostra vita è finita, il 23 maggio 1992 … Forse non si ha l’idea di quanto noi siciliani amassimo Falcone. Per noi era ed è un eroe moderno. Anche per lui, ancora oggi ho la forza di sognare e immaginare una Sicilia senza la mafia. Vorrei davvero poterla vedere».

Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 24/05/2020

sabato 23 maggio 2020

23 maggio 1992/2020: un lenzuolo per non dimenticare

      Il 23 maggio 1992, la strage di Capaci ci ha sconvolti. Ci ha cambiato la vita.
     Il giudice Giovanni Falcone era un’icona nella lotta alla mafia, grazie alla sua straordinaria intelligenza investigativa. Era un uomo colto e preparatissimo, siciliano fino al midollo ma capace di parlare e intendersi con chiunque: poliziotti statunitensi, magistrati svizzeri e colombiani, giornalisti d’oltralpe, poliziotti, pentiti, uomini della strada, insegnanti, politici.
       Falcone riusciva a capire le pieghe più profonde, intime e universali dell’animo umano e aveva una visione a 360 gradi della mafia, nei vari contesti sociali. “Segui i soldi, gli interessi … e troverai la mafia” – era la sua profonda convinzione. “Possiamo sempre fare qualcosa …  Ma solo affrontando la mafia per quello che è – un’associazione criminale seria e perfettamente organizzata – saremo in grado di combatterla” affermava nel libro-intervista Cose di cosa nostra.
        Quando lo hanno ammazzato, noi siciliani ci siamo sentiti più soli, vulnerabili, scoperti.
Non avevamo più il giudice adamantino che tentava di sconfiggere la piovra per tutti noi.
         Già provati da decine e decine di altri assassini eccellenti – il Presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, i magistrati Gaetano Costa e Rocco Chinnici ,il medico Paolo Giaccone, il poliziotto Ninni Cassarà, tanto per citare qualche nome alla spicciolata – senza il giudice dai toni pacati e dalla mente acutissima e vulcanica, dal sorriso mite e dalla battuta ironica, con un grande amore per il suo lavoro, ma anche per il mare e per le nuotate, i siciliani, gli italiani onesti si sono trovati irrimediabilmente soli.
E responsabili personalmente della lotta a Cosa nostra, ognuno secondo il suo ruolo, la sua formazione, le sue possibilità.
        Il minimo che possiamo fare  è mettere oggi, alle ore 18, un lenzuolo al nostro balcone o alla nostra finestra per onorare la memoria di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato,  e degli agenti di scorta Alberto Montinari, Vito Dicillo e Vito Schifani.




giovedì 21 maggio 2020

Manteniamo le distanze. Quali?

          Usciti dal lockdown, l’imperativo è comunque quello di mantenere le distanze tra le persone per evitare che il covid-19 – comunque presente nel territorio italiano – si propaghi nuovamente.            Ci viene chiesto di  rispettare la regola del “distanziamento sociale”. 
Ma è corretta questa dicitura? Sembrerebbe proprio di no. 
   A evidenziarlo una persona a me cara, il professor Cosimo Costa (ne parlo in quest’articolo), che mi ha inviato una mail con le seguenti inconfutabili considerazioni:

              “In questi tempi di coronavirus stiamo vivendo un'esperienza, fra le tante altre, di mantenerci gli uni dagli altri alla distanza di circa un metro. Questa misura, adottata per i ben noti motivi di rischio di contagio, la chiamano “distanziamento sociale”. Ma è corretta questa denominazione? Per me è sbagliata. Sarebbe più appropriato il termine “distanziamento fisico”.
Io ho degli amici a Brescia coi quali mi sento spesso con messaggi affettuosi, per telefono e in video chiamata. Da loro mi separa una distanza fisica di circa mille chilometri e una distanza sociale quasi nulla.
              Per contro, ho una vicina di casa, dirimpettaia di pianerottolo, dalla quale mi separa una distanza fisica di pochi metri e una distanza sociale illimitata, perché non ci vediamo quasi mai e nessuno di noi, per mesi e mesi, è in grado di sapere se il dirimpettaio è vivo o morto.
L'obbligo di distanza fisica di un metro esiste da alcuni mesi, ma la distanza sociale è un fenomeno iniziato almeno una cinquantina di anni fa, con andamento crescente fino a raggiungere i valori abissali di oggi. 
         Per fare un esempio, quando i coniugi Federico e Concetta con i tre figli Gaetana Giovanni e Grazia, alla fine della seconda guerra mondiale, tornarono da Roma e presero in affitto un appartamento a Palermo, non avevano finito ancora il trasloco che videro arrivare due signore abitanti del palazzo di fronte. Una portava il caffè e l'altra un vassoietto di dolci, venute a dare il ben venuto ai nuovi arrivati. Quella era una distanza fisica di 100 metri e una distanza sociale zero. Inimmaginabile oggi. 
       Un altro esempio. Nel 1958, la mia vicina di casa era l'unica abitante fra i cinque palazzi circostanti a possedere la televisione. Lei metteva ogni sera a disposizione del vicinato il suo saloncino e i suoi quattro divani con circa 20 posti a sedere. Affluivano dai dintorni ragazzi e genitori a vedere Mario Riva e Mike Bongiorno e fiorivano amicizie che duravano per molti anni. Quelli erano esempi di distanze fisiche le più disparate e distanze sociali zero.”

lunedì 18 maggio 2020

Videochiamare ... stanca

        Palermo – All’inizio della pandemia, le videochiamate, il lavoro in modalità smart working, la DAD (Didattica a distanza) sembravano la panacea per la fisicità negata dall’imprevisto lockdown. A poco a poco, si è visto però che le tante ore trascorse in conversazione davanti allo schermo del computer possono provocare spiacevoli effetti collaterali: stanchezza, mal di testa e senso di nausea. Tanto da far coniare le locuzioni “Zoom fatigue” e “Hangover (stordimento/sbornia) da videochiamata”. 
Perché?  Marissa Shuffler e Gianpiero Petriglieri, esperti dell’apprendimento e del benessere sul posto di lavoro, hanno provato a dare delle risposte. 
Innanzitutto, comunicare in videochiamata richiede maggiore fatica rispetto al parlarsi faccia a faccia, anche solo per capire quello che l’altro sta dicendo: dobbiamo prestare costante attenzione all’interlocutore per elaborare segnali non verbali come le espressioni facciali, il tono della voce e il linguaggio del corpo. Al dispendio energetico necessario per ‘tenere insieme’ tutti i segnali comunicativi, si aggiunge spesso la fatica dovuta a eventuali disturbi nella ricezione audio e video. 
Un ulteriore fattore di stress è la consapevolezza di essere sotto lo sguardo degli altri, situazione che induce a dare sempre il massimo della performance perché è come se ci si sentisse su un palcoscenico. Anche perché è difficile non guardare il proprio viso sullo schermo e disinteressarsi dell’effetto che si fa nella telecamera. 
     Secondo Petriglieri inoltre, il fatto che talvolta ci sentiamo “costretti” a fare questo tipo di chiamate contribuisce all’affaticamento mentale. Non solo: aspetti della nostra vita che prima erano separati – lavoro, amici, famiglia – coesistono nello stesso spazio. Questa mancanza di varietà è poco sana. Accade allora che persino le videochiamate con gli amici e i familiari siano stancanti, soprattutto se si tratta di un collegamento con più di tre persone, situazione questa che richiede un livello di attenzione e concentrazione che sa più di lavoro che di rilassamento.
        C’è poi da sottolineare che, per ovviare all’assenza di contatto e prossimità fisica la comunicazione virtuale è diventata ipertrofica: i social traboccano di contenuti, Whatsapp risuona di notifiche, il telefono squilla più del solito. Il silenzio è diventato ancora più raro e prezioso di prima della pandemia. Così, paradossalmente, abbiamo forse meno tempo libero rispetto a prima …
Come difenderci da quest’inedita forma di burn-out telematico? Gli esperti suggeriscono intanto di limitare le videochiamate a quelle strettamente necessarie. L’accensione della videocamera dovrebbe essere inoltre facoltativa. 
       Bisogna poi considerare se le videochiamate siano davvero sempre l’opzione migliore; in alcuni contesti, potrebbe bastare una mail, o dei file condivisi. Risulta molto proficuo anche concedersi dei “momenti di transizione” durante le videoconferenze: fare stretching o un po’ di ginnastica, bere dell’acqua. Petriglieri si spinge ancora più in là suggerendo di tornare alle antiche usanze: «Se vuoi dire a qualcuno ti manca, invece di proporre una videochiamata su Zoom, prova a scrivergli una lettera».
        Infine, il professore Giovanni Salonia, docente di Psicologia sociale e psicoterapeuta, evidenzia che: “Uno dei problemi delle videoconferenze e delle lezioni on line è lo sguardo fisso. Al computer lo spettro visivo è ridotto, mentre in presenza risulta più ampio.  La fissità e la riduzione dello spettro visivo inducono sonnolenza, stanchezza, stress … Ecco perché abbiamo bisogno di guardare il cielo.”.

Maria D’Asaro, 17.05.2020, il Punto Quotidiano

sabato 16 maggio 2020

16 maggio ... secondo Wislawa

Antonio Cutino: Dal veterinario (1973)
Il 16 maggio 1973

Una delle tante date
Che non mi dicono più nulla.

Dove sono andata quel giorno,
che cosa ho fatto – non lo so.

Se lì vicino fosse stato commesso un delitto
– non avrei un alibi.


Il sole sfolgorò e si spense
Senza che ci facessi caso.
La terra ruotò
E non ne presi nota.

Mi sarebbe più lieve pensare
Di essere morta per poco,
piuttosto che ammettere di non ricordare nulla
benché sia vissuta senza interruzioni.

Non ero un fantasma, dopotutto,
respiravo, mangiavo,
si sentiva
il rumore dei miei passi,
e le impronte delle mie dita
dovevano restare sulle maniglie.

Lo specchio rifletteva la mia immagine.
Indossavo qualcosa d’un qualche colore.
Certamente più d’uno mi vide.

Forse quel giorno
Trovai una cosa andata perduta.
Forse ne persi una trovata poi.

Ero colma di emozioni e impressioni.
Adesso tutto questo è come
Tanti puntini tra parentesi.

Dove mi ero rintanata,
dove mi ero cacciata –
niente male come scherzetto
perdermi di vista così.

Scuoto la mia memoria –
Forse tra i suoi rami qualcosa
Addormentato da anni
Si leverà con un frullo.

No.
Evidentemente chiedo troppo,
addirittura un intero secondo.

Wislawa Szymborska (traduzione di Pietro Marchesani)

mercoledì 13 maggio 2020

Come polvere o vento: Alda, vista da Pino Manzella

Alda Merini: Pino Manzella (2019)

Se la mia poesia mi abbandonasse
come polvere o vento,
se io non potessi più cantare,
come polvere o vento,
io cadrei a terra sconfitta
trafitta forse come la farfalla
e in cerca della polvere d'oro
morirei sopra una lampadina accesa,
se la mia poesia non fosse come una gruccia
che tiene su uno scheletro tremante,
cadrei a terra come un cadavere
che l'amore ha sconfitto.
                                              Alda Merini


Se volete farvi un'idea di Pino Manzella, che ho intervistato qui,  leggete anche qui, qui e qui.


domenica 10 maggio 2020

Florence Nightingale, la signora con la lanterna

Palermo - Il suo nome, Florence, fu un tributo alla città di Firenze, dove Florence Nightingale nacque esattamente duecento anni fa, il 12 maggio 1820: Florence Nightingale, nota come "la signora con la lanterna", è l’infermiera britannica considerata la fondatrice dell'assistenza infermieristica moderna.
              Nata in una famiglia dell'élite borghese britannica - il padre, William Edward Nightingale, fu un illustre pioniere dell'epidemiologia - profondamente legata ai valori evangelici, nel 1845 Florence disse ai suoi familiari di volersi dedicare alla cura di persone malate ed indigenti. L'opposizione della famiglia evidenziò il suo carattere forte e determinato nel perseguire i suoi obiettivi. Florence annunciò anche che avrebbe rinunciato ai ruoli di moglie e madre, temendo che interferissero con la sua vocazione. 
                Quella di infermiera all'epoca era una professione poco stimata, tanto che nell'esercito le infermiere erano equiparate alle vivandiere. Pur non avendo una specifica formazione di tipo medico, la Nightingale riconobbe ben presto le carenze nelle modalità in cui la professione infermieristica era allora esercitata. Già nel dicembre 1844, si adoperò intanto per un deciso miglioramento delle cure mediche negli ambulatori delle "workhouses" per le persone povere. 
                Fu poi decisiva la sua esperienza in Crimea, dove si recò nel 1854 a seguito delle notizie di stampa sulle gravissime condizioni in cui venivano curati i feriti. All'ospedale militare allestito nella caserma di Scutari, Florence e le sue infermiere scoprirono che i soldati feriti erano mal curati, nell'indifferenza delle autorità: il personale medico era sovraccarico, le medicine scarse, l'igiene trascurata, le infezioni di massa erano comuni e spesso fatali, la cucina non attrezzata.  La Nightingale individuò allora i cinque requisiti essenziali che un ambiente doveva possedere per essere salubre: aria pulita, acqua pura, sistema fognario efficiente, pulizia, luce.  
Fu proprio durante la guerra di Crimea che Florence Nightingale ricevette il nomignolo "The Lady with the Lamp", che derivò da un articolo di ‘The Times’ che ne lodava l'abnegazione ("When all the medical officers have retired for the night (...) she may be observed alone, with a little lamp in her hand, making her solitary rounds"- Quando tutti gli ufficiali medici si ritirano di notte, lei continua a girare da sola, facendo la sua solitaria ricognizione, con in mano la sua piccola lanterna).
            Nel 1860 si decise a pubblicare “Notes on Nursing”, un libretto di 136 pagine, pietra angolare del curriculum delle scuole per infermieri, testo che, ancora oggi, è considerato un’introduzione classica all’esercizio di tale professione. Per tutta la sua vita, Florence promosse l'istituzione e lo sviluppo della professione di infermiere nella sua forma moderna. Anche grazie a lei, la professione infermieristica, fino ad allora piuttosto mal considerata, guadagnò di status: già nel 1882 le sue infermiere avevano una presenza crescente e influente nell’ambiente sanitario, occupando posizioni di rilievo nei principali ospedali del Regno Unito e dell'Australia. 
                Intanto, già nel 1858 Florence divenne la prima donna membro della Royal Statistical Society. Nei decenni successivi si dedicò all'osservazione critica e all'attività di consulenza per la sanità britannica. Sotto la sua guida, venne introdotta la raccolta di informazioni accurate per ottenere dati statistici sui tassi di natalità, mortalità e sulle cause dei decessi. Fu la prima studiosa sanitaria ad applicare in modo pionieristico, rigoroso e massiccio lo studio della statistica nella compilazione, nell’analisi e presentazione grafica dei dati sulle cure mediche e sulla igiene pubblica. Si occupò anche di assistenza sociale e contribuì alla nascita dei servizi sociali inglesi. 
            Tra il 1883 e il 1908 Florence Nightingale ricevette numerose onorificenze, in particolare fu la prima donna a ricevere l'Order of Merit. Morì a Londra nel 1910, all’età di novant’anni.
Dal 1974, il giorno della sua nascita, il 12 maggio, viene celebrato in tutto il mondo come giornata internazionale dell'infermiere.

Maria D’Asaro, 10/05/2020, il Punto Quotidiano

venerdì 8 maggio 2020

Se sei accolto, sei in Paradiso ...

Marc Chagall: Paradiso (1961)
       "Ecco di che cosa siamo fatti: di lontananze e di mancanze. Ognuno porta in sé il ricordo e la nostalgia di qualcosa che è fuggito, di una terra lasciata, di un’assenza di volti, luoghi, suoni, che popolano il cuore e la mente e che ospitiamo in noi. (…) Accogliere quello che non c’è più, o non c’è ancora, è ginnastica quotidiana che ci aiuta a trasformare la mancanza in presenza, la lontananza in prossimità. 
          Siamo tutti in qualche modo ospiti di qualcosa che arriva all’improvviso; che sia una crisi, o un ricordo, o una spina nel cuore. (…)
Nella lingua italiana il termine ‘ospite’ indica contemporaneamente sia chi chiede accoglienza sia chi la offre, come a dire che c’è un legame sottile e nascosto, che in fondo la precarietà – e la lontananza – appartengono a tutti, sono cosa comune. C’è bisogno però di uno sguardo contemplativo per interiorizzare questa realtà senza lasciarsi sopraffare da atteggiamenti carichi, nella migliore delle ipotesi, di indifferenza. 
         C’è bisogno di uno sguardo contemplativo per cogliere la ricchezza e la fatica di gesti capaci di migliorare il nostro mondo. (…) Che cosa c’è di più bello che sentirsi a casa? (…) L’ospite migliore è colui che mette tanto a proprio agio colui che è arrivato da farlo sentire come a casa propria: c’è qualcosa di sacro, di divino nell’ospitalità. Immagino Dio che, per chi ci crede, quando ci accoglierà alla fine della nostra vita farà di tutto per non farci sentire scomodi o fuori posto, per non metterci a disagio. 
       Forse il Paradiso, per chi ci crede, consisterà nel sentirsi totalmente, interamente accolti. Sarà il non patire più alcuna lontananza (…)."

(Nunzio Galantino, Incontri che vincono le paure, Mondadori, Milano, 2019, pagg.92-94)

domenica 3 maggio 2020

Riso e sorriso, 'armi' contro la violenza sin dall'antichità


          Palermo – “La storia, almeno quella raccontata di solito, sembra insegnare che per liberarsi dalla violenza è necessaria la violenza. Ma è davvero così?” 
         Nel saggio Riso e sorriso (Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2018, €16), a questa domanda cruciale Andrea Cozzo risponde di no. E lo fa attraverso un viaggio rigoroso ed esaustivo nel mondo greco, romano ed ebraico, evidenziando la presenza di alcune idee e modalità di comportamento che, anche nell’antichità, rifiutano la violenza “senza per questo cedere alla prepotenza”. 
         Infatti, le quattro regole fondamentali della nonviolenza –  – 1.Non opporsi simmetricamente, cioè con pari violenza, ma mettere l’avversario di fronte alla propria coscienza; 2.Essere creativi; 3.Non collaborare con l’oppressore; 4.Fare disobbedienza civile - sono già conosciute e, in alcuni casi, sperimentate anche nel mondo greco.
         La prima, ad esempio, è messa in pratica sia dal filosofo Diogene che dai Macedoni, guardie del corpo di Alessandro Magno; mentre un esempio storico di non-collaborazione con l’oppressore è quello della plebe romana nel 494 a.C., quando, afflitta dagli usurai e non ascoltata dal Senato, abbandona Roma e si stabilisce sul Monte Sacro, “senza compiere alcun atto violento o di ribellione”, come attesta Plutarco.
          Inoltre, quella che oggi noi chiamiamo disobbedienza civile, cioè la disobbedienza a un ordine ritenuto ingiusto, nell’antichità si manifestava non ubbidendo a ordini riguardanti l’uccisione di bambini: lo fanno i sicari incaricati di uccidere un bimbo di nome Cipselo; lo fa - nella finzione letteraria della tragedia “Edipo re” – il servo che ha pietà di Edipo; lo fanno, nella cultura ebraica, le levatrici ebree che disobbediscono al faraone lasciando in vita i neonati maschi.
          C’è poi Antigone - protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle - che dà sepoltura al cadavere del fratello Polinice, disubbidendo così agli ordini del re Creonte e rivendicando il suo diritto a trasgredire un ordine ingiusto per obbedire a una legge superiore. Sempre in ambito letterario, l’autore cita anche la nota commedia di Aristofane “Lisistrata”, che narra l’alleanza delle donne coinvolte, in città opposte, nella guerra del Peloponneso, donne che, attraverso lo sciopero del sesso, persuadono i loro mariti a far cessare le ostilità.  Andrea Cozzo sottolinea che, nel mondo antico, le donne si comportano come “operatrici attive di pace” non solo in contesti mitici e/o letterari, ma anche nel mondo reale quando, in alcuni casi, “agiscono come mediatrici-conciliatrici (…), interponendosi nel vivo della battaglia (…) o intercedendo o pregando (…) o, una volta, addirittura accompagnando come scorta di protezione le straniere accidentalmente venutesi a trovare in zona nemica”.
       Assai interessanti poi le pagine dedicate al riso e al sorriso (rispettivamente (ghélos e meidiama in greco) e al loro importante ruolo nell’approccio nonviolento ai conflitti. Cozzo delinea le differenze tra l’uno e l’altro: evidenzia la complessità relazionale del riso “arma nonviolenta che ha messo in grado i più deboli di prevalere sui più forti”, ma sottolinea comunque una sorta di superiorità morale del sorriso, espressione di “una posizione altruistica o interlocutoria, apertura ad uno scambio relazionale positivo … esso costituisce un rapporto di fiducioso accomodamento rispetto al mondo esterno”. Per i Greci allora il sorriso “è non solo l’inizio di una relazione positiva tra due, ma anche l’inizio del passaggio da una relazione negativa ad una positiva”; “nell’ambito della gestione dei conflitti, il sorriso interviene innanzitutto sulla persona stessa che lo esprime”.
          Sorriso che riesce a costituire una forma di incanalamento della rabbia in senso non aggressivo: “Dunque, nel conflitto, il sorriso si presenta come un’arma nonviolenta, di relazione con l’oppositore, piuttosto che di sua negazione”. Ancora, l’autore evidenzia come i filosofi antichi abbiano mostrato molta attenzione alla gestione dei conflitti, soprattutto individuali: da Plutarco sappiamo che i filosofi pitagorici, nel caso in cui si insultassero, dovevano riconciliarsi prima del tramonto; da Luciano apprendiamo che il filosofo Demonatte “attaccava gli errori, ma scusava coloro che avevano errato, prendendo esempio dai medici, i quali curano le malattie, ma non si adirano con i malati”. 
      Traspare infine nel testo il fecondo spessore culturale del suo autore, appassionato grecista -  l’autore è professore ordinario di Lingua e Letteratura Greca all’Università di Palermo – capace di farci quasi ‘gustare’ il peso e il senso dei termini greci. Ma Andrea è anche studioso di psicologia, di tecniche comunicative, di filosofia, nonché uno dei maggiori esperti italiani di nonviolenza.
       E, in qualità di teorico e praticante attivo di nonviolenza, ha scelto di raccontarci azioni e forme di pensiero alternative a quelle militari per “illustrare un’altra storia (…) una storia demilitarizzata … di costruzione di una pace che non coincide con l’accettazione della sottomissione del debole al forte, ma con il raggiungimento di una condizione di assenza di prevaricazione.”
       Grazie allora al professore Cozzo, che – in sintonia col Mahatma Gandhi - ci fa toccare con mano come la nonviolenza, “antica come le montagne” sia l’unico mezzo davvero umano, armonico e creativo, di risoluzione dei conflitti.

Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 03.05.2020

venerdì 1 maggio 2020

1° maggio: ripensiamo al reddito e al lavoro?

Che strano questo primo maggio silenzioso, senza manifestazioni e concerto ‘live’...

         Si discute tanto di reddito di cittadinanza. So che tanti laverebbero qualsiasi scala o scaricherebbero qualsiasi cassetta di frutta al mercato se qualcuno li assumesse. E desse loro un compenso dignitoso per consentire di mantenere la famiglia, pagando affitto e bollette. 
       Ascoltando le confidenze di genitori e alunni, nella mia città, ho capito che il reddito di cittadinanza ha consentito ad alcuni nuclei familiari finalmente di arrivare a fine mese con la pancia piena, l’affitto pagato e una minima serenità esistenziale, assente da anni.

                Oggi poi la disoccupazione da pandemia rilancia in modo ineludibile la questione.
             Mi chiedo allora: visti i meccanismi perversi che regolano il mercato, non sarebbe forse il caso di sganciare il reddito minimo di sopravvivenza dal lavoro?
Dovremmo forse considerare le persone che abitano nel mondo come una grande unica famiglia: se una famiglia è composta da papà, mamma, tre figli e una zia anziana, tutti hanno il diritto di mangiare, anche se il reddito è prodotto solo da due componenti della famiglia. 
             Cosi nel nostro pianeta: siamo circa 7,7 miliardi di persone ed è giusto che tutti abbiano accesso alle condizioni minime di sussistenza, visto che, grazie al cielo, nella Terra ci sono risorse per far vivere circa 10 miliardi di persone. 
                      Certo, poi ogni comunità dovrebbe “pretendere”  che gli individui adulti diano il proprio contributo lavorativo per il buon funzionamento della società, commisurando anche redditi diversi e aggiuntivi per le diverse mansioni (e qui sogno che un calciatore non sia pagato più di un infermiere e un medico …). 
          La pensano così anche l’ex presidente dell’Uruguay Josè Mujica, imprigionato per 15 anni in una cella di isolamento come oppositore alla dittatura vigente nel suo paese negli anni ‘70: 
"In prigione ho pensato che le cose hanno un inizio e una fine. Ciò che ha un inizio e una fine è semplicemente la vita. Il resto è solo di passaggio. La vita è questo, un minuto e se ne va. Abbiamo a disposizione l’eternità per non essere e solo un minuto per essere. 
      Per questo, ciò che più mi offende oggi è la poca importanza che diamo al fatto di essere vivi. (…)
Seneca affermava che non è povero chi ha poco, ma chi desidera molto”.  (...)
Io lotto contro l’idea che la felicità stia nella capacità di comprare cose nuove. Non siamo venuti al mondo solo per lavorare e per comprare e accumulare ricchezze; siamo nati per vivere. La vita è un miracolo; la vita è un regalo. E ne abbiamo solo una.”                       (da qui)

        La pensa così anche papa Francesco, che – il 12 aprile scorso - scrive queste parole ai Fratelli e alle Sorelle dei movimenti popolari latino-americani che lottano per terra, casa e lavoro 
(ringrazio Augusto Cavadi per avere pubblicato qui integralmente la lettera)-

"(…)So che siete stati esclusi dai benefici della globalizzazione. Non godete di quei piaceri superficiali che anestetizzano tante coscienze, eppure siete costretti a subirne i danni. I mali che affliggono tutti vi colpiscono doppiamente. Molti di voi vivono giorno per giorno senza alcuna garanzia legale che li protegga: venditori ambulanti, raccoglitori, giostrai, piccoli contadini, muratori, sarti, quanti svolgono diversi compiti assistenziali. 
          Voi, lavoratori precari, indipendenti, del settore informale o dell’economia popolare, non avete uno stipendio stabile per resistere a questo momento... e la quarantena vi risulta insopportabile. Forse è giunto il momento di pensare a una forma di retribuzione universale di base che riconosca e dia dignità ai nobili e insostituibili compiti che svolgete; un salario che sia in grado di garantire e realizzare quello slogan così umano e cristiano: nessun lavoratore senza diritti.
              Vorrei inoltre invitarvi a pensare al "dopo", perché questa tempesta finirà e le sue gravi conseguenze si stanno già facendo sentire. Voi non siete dilettanti allo sbaraglio, avete una cultura, una metodologia, ma soprattutto quella saggezza che cresce grazie a un lievito particolare, la capacità di sentire come proprio il dolore dell'altro. 
           Voglio che pensiamo al progetto di sviluppo umano integrale a cui aneliamo, che si fonda sul protagonismo dei popoli in tutta la loro diversità, e sull'accesso universale a quelle tre T per cui lottate: “tierra, techo y trabajo” (terra – compresi i suoi frutti, cioè il cibo –, casa e lavoro). Spero che questo momento di pericolo ci faccia riprendere il controllo della nostra vita, scuota le nostre coscienze addormentate e produca una conversione umana ed ecologica che ponga fine all'idolatria del denaro e metta al centro la dignità e la vita. 
             La nostra civiltà, così competitiva e individualista, con i suoi frenetici ritmi di produzione e di consumo, i suoi lussi eccessivi e gli smisurati profitti per pochi, ha bisogno di un cambiamento, di un ripensamento, di una rigenerazione (…)."