Nella scuola dell’obbligo circolano pochissimi soldi. Tant’è
che ogni tanto si parla di acquisire sponsor privati, con tutti i rischi di
interferenza che questo può comportare. Attualmente, un modo per raggranellare
un finanziamento è l’accesso, con un buon progetto, ai Fondi strutturali
europei. Nella scuola dove lavoro, tra i vari progetti finanziati dall’Unione
Europea ci sono stati quello dell’orto a scuola, con un’agronoma che ci ha
insegnato a coltivare grano e fave; quello di informatica che ha permesso ai
ragazzini privi di pc di colmare il “digital divide” con i loro coetanei più
fortunati; quello che ha permesso ad alcuni ragazzi di imparare meglio
l’inglese grazie a un insegnante di madrelingua. Per diversi anni, abbiamo poi realizzato
un laboratorio di “comunicazione sonora”: che consisteva nel fare sperimentare
a un gruppo di alunni la funzione quasi terapeutica della musica attraverso il
contatto con gli strumenti musicali. Gli strumenti venivano “liberamente”
esplorati, magari stando accovacciati su un tappeto. Così si poteva scoprire il
suono graffiante di un violino, l’allegria delle nacchere, l’evocazione
dell’acqua tramite il bastone della pioggia, il ritmo coinvolgente degli
strumenti a percussione. Allora non importava più se eri svogliato o bravo, maschio o
femmina, grassottello o minuto, portatore di handicap o meno … Nello spazio
magico del laboratorio, presi per mano da Patrizia o da Carla, le “esperte” di
turno, i ragazzini liberavano sentimenti inespressi, erano capaci di dare la
mano al compagno “diverso”, vibravano sulle corde di nuove emozioni.
Mi è capitato di essere l’insegnante/tutor di un
“Caleidoscopio sonoro” e di seguire il percorso
di un gruppo di ragazzini di prima media. Tra loro, un alunno “diverso” che
voleva sempre abbracciarmi; una ragazzina che spesso piangeva perché si sentiva
emarginata; un’alunna che mi stava sempre accanto e mi ripeteva: -
Professoressa: va bene il mio disegno, le piace questa mia storia? – ; due
sorelline, il cui padre, anni prima, era morto d’infarto, mentre pranzavano
insieme.
Dopo il contatto con gli strumenti, i ragazzini esprimevano le
sensazioni che avevano provato attraverso racconti, disegni, linee e colori. Io
favorivo lo sciogliersi e il dipanarsi delle emozioni. – Racconta la storia di
nuvola …. – Immagina di essere un animale…. – Che cosa provi quando senti il
rumore dell’acqua? – Una volta proposi loro di “disegnare” un sogno. Parola
equivoca: intesa da alcuni come qualcosa che avevano sognato di notte. Da altri
come un desiderio. Una ragazzina disegnò un principe azzurro. Un alunno il cagnolino che avrebbe voluto avere con sé.
Una fanciullina una casa che stava bruciando. Una bambina un uomo con le ali. Proposi
anche di narrarlo a voce, il loro sogno. Venne il turno di Simonetta. Con la
voce spezzata ci disse che l’uomo con le ali era il papà. Che lei, una notte,
l’aveva sognato. Che ritornava dall’aldilà e che l’aveva abbracciata. Ci
confidò che lei era sempre sospesa. Tra la voglia di vivere e la voglia di
andarsene, per riabbracciarlo. Quel giorno, alla fine del laboratorio, disposti
in cerchio, abbiamo stretto più forte la mano di Simonetta. Da allora, i suoi
occhi furono un poco più chiari. Ogni volta che la incontravo, in classe o nei
corridoi, guadagnavo il suo abbraccio. Il macigno che aveva nel petto si era un
po’ sciolto, nel gesto salvifico delle mani riunite.