Palermo - Caro don Milani,
se sono diventata un’insegnante è stato un po’ anche merito suo: leggere Lettera a una professoressa mi ha così intrigata e commossa da indurmi, appena laureata, a lasciare un redditizio lavoro in un’azienda di credito per fare la docente nella scuola media, convinta che insegnare in un certo modo potesse contribuire, se non a cambiare il destino del mondo, almeno a migliorarlo un pochino.
“La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde.” “Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali tra disuguali.” “Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri”: queste affermazioni provano la sua fede adamantina nell’assoluta eguaglianza di base dei ragazzi, sul fatto che le loro differenze nell’apprendere derivino essenzialmente dalla diversità dei loro contesti economico-culturali di provenienza. Di conseguenza, si è sempre battuto per dare ai ragazzi pari opportunità di accesso all’istruzione, perché tutti potessero avere diritto alla parola e alla cultura e diventare così uomini migliori e cittadini consapevoli.
Le sue prospettive educative e didattiche hanno segnato il mio percorso. E mi hanno spinta a cercare con ostinazione e speranza una chiave di accesso al cuore e alla mente degli alunni, specie se ‘difficili’... Purtroppo, non sono riuscita a tenere tutti i ragazzi a scuola: mi rimprovero ancora perché, da psicopedagogista, non sono stata capace di impedire la fuga di A., che poi, da adulto, è finito dentro mura dalle quali sarà difficile uscire... Per fortuna, grazie anche a colleghe competenti e illuminate, altri alunni, nonostante difficoltà di ogni genere, sono riusciti ad andare avanti nello studio.
Ma a Barbiana, grazie alla scuola a tempo pieno e alla sua encomiabile opera di promozione umana e sociale, i ragazzi non si perdevano. Ecco il ‘manifesto’ che lei e i suoi alunni avete proposto nel celebre testo scritto insieme: “Perché il sogno dell’eguaglianza non resti un sogno vi proponiamo tre riforme: Primo: Non bocciare. Secondo: A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a pieno tempo. Terzo: Agli svogliati basta dargli uno scopo”.
E non mancavate di sottolineare: “La Costituzione, nell’articolo 34, promette a tutti otto anni di scuola. Otto anni vuol dire otto classi diverse. Non quattro classi ripetute due volte ognuna (…) Dunque oggi arrivare a terza media non è un lusso. É un minimo di cultura comune cui ha diritto ognuno.”
Purtroppo, denunciavate ancora nel vostro libro collettivo: “Ai poveri fate ripetere l’anno. Alla piccola borghesia fate ripetizione. Per la classe più alta non importa, tutto è ripetizione”. E affermavate con forza: “É solo la lingua che fa uguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli”
Voi sì che volavate alto: “Cercasi un fine. Bisogna che sia onesto. Grande. Che non presupponga nel ragazzo null’altro che d’essere uomo. Cioè che vada bene per credenti e atei. (…) Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo come vuole amare se non con la politica o col sindacato o con la scuola?” E ancora: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia.”
Caro don Lorenzo, in questi giorni ricordiamo i cent’anni dalla sua nascita e i cinquantasei anni dall’uscita della Lettera a una professoressa, nel maggio 1967, un mese prima della sua morte prematura, avvenuta il successivo 26 giugno.
Ma ricordiamo anche i cinquantasette anni del testo a favore dell’obiezione di coscienza al servizio militare: L’obbedienza non è più una virtù, scritto nel 1965, quando chi si rifiutava di fare il servizio militare era punito col carcere.
Anche per questa sua presa di posizione, lei non ha avuto una vita facile: è stato osteggiato, calunniato e isolato anche nella Chiesa cattolica, che lei amava e di cui si sentiva servitore. Ha affrontato dure critiche e anche un processo giudiziario, continuando a fare scuola sino ai suoi ultimi giorni di vita. Riferendosi a suoi alunni, ha confessato, nel suo testamento spirituale: “Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto.”
Papa Francesco ha scritto parole bellissime su di lei, parole che le rendono un meritato tributo: “La sua inquietudine non era frutto di ribellione ma di amore e di tenerezza per i suoi ragazzi, per quello che era il suo gregge, per il quale soffriva e combatteva, per donargli la dignità che talvolta veniva negata. La sua era un'inquietudine spirituale alimentata dall'amore per Cristo, per il Vangelo, per la Chiesa, per la società e per la scuola che sognava sempre più come un "ospedale da campo" per soccorrere i feriti, per recuperare gli emarginati e gli scartati”.
Caro don Milani, nella scuola di oggi, così confusa e convulsa, forse vittima di mode e riforme poco formative, l’auspicio è che si realizzi il motto affisso all’ingresso della scuola di Barbiana: I care, mi importa, mi interessa, mi sta a cuore… Se oggi educatori e politici, donne e uomini di buona volontà mettessero in pratica il suo I care, sicuramente il mondo sarebbe più vivibile, più giusto e umano.
Maria D'Asaro, 28.5.23, il Punto Quotidiano