domenica 30 settembre 2018

"Come l'acqua" ... un libro per capire meglio i bambini

Albert Anker: Il nonno racconta una storia

Che fare quando un bimbetto ‘ruba’ il giocattolo al fratellino? O quando un altro, all’asilo, chiede l’attenzione speciale della maestra o disturba ripetutamente i compagnetti? Genitori, nonni, insegnanti ed educatori si trovano talvolta disorientati di fronte ai comportamenti infantili, specie dinanzi a quelli che esprimono rabbia e paura. Il testo Come l’acqua … (Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2012, €9), a cura di Dada Iacono e Ghery Maltese, insegnanti di scuola per l’infanzia, ci offre alcune convincenti chiavi di lettura per comprendere comportamenti e reazioni dei bambini e relazionarsi con loro in modo armonioso ed efficace, cercando di evitare, come sottolinea lo psichiatra Massimo Ammaniti nella presentazione del testo, “Fallimenti e scacchi interattivi, facilitati dal fatto che i segnali e le comunicazioni dei bambini non sono facilmente decodificabili.”
Seguendo i principi teorici della psicologia della Gestalt, le due docenti affermano che la rabbia e l’aggressività manifestate dai bambini esprimono comunque una volontà di contatto con l’ambiente; ma, mentre “se l’interazione con la persona che si prende cura di lui è positiva, il bambino è pronto a un contatto fluido e nutriente col mondo”, in contesti relazionali meno accoglienti, i bambini possono bloccare il processo di contatto col mondo e smarrire la capacità di esprimersi in modo adeguato e creativo e di manifestare i loro veri desideri e bisogni.
Come comportarsi allora con quei bambini che, anche a causa dei loro trascorsi relazionali inadeguati, vivono sentimenti di rabbia o di ansia e paura? Bruno Bettelheim sosteneva che il primo diritto del bambino è quello di «essere pensato bene». Le due autrici concordano con l’autorevole psichiatra e affermano che: “il primo passo da fare è quello di credere in lui, di offrirgli in anticipo la nostra fiducia contro ogni evidenza”. Come per il piccolo Alberto di cui si racconta la storia, è sempre necessario non fermarsi alla conta dei ‘buoni’ e dei ‘cattivi’ e andare al di là di richiami moralistici, cercando di capire cosa c’è dietro un pianto disperato o una monelleria inconsulta “con l’aiuto di quella rete elastica di protezione che è l’anticipo di fiducia. (…) Solo così è possibile riannodare il filo magico e invisibile della relazione che lega l’adulto al bambino e i bambini tra loro.” Un bambino impaurito ha bisogno in primo luogo di avere accanto una figura ‘calda e sicura’, “capace di ascoltarlo senza ridicolizzare e senza sminuire il suo racconto”. Viene sottolineata a tal proposito l’importanza del tono della voce “sia come parola dell’adulto che, se pronunciata nel momento giusto e nel modo giusto, raggiunge le emozioni del bambino, i suoi dolori, le sue ansie da sciogliere sia come ‘culla sonora’. Il bambino ha poi diritto di ricevere dall’adulto il giusto limite alle sue azioni infantili, ogni volta che esse minacciano la sua integrità o quella degli altri: il pugno al fratellino non si dà. Inopportuno e deleterio è invece controllare e bloccare le emozioni dei bambini, con frasi del tipo ‘non c’è nulla da avere paura’.  Infatti, continuano le autrici, “mentre il controllo delle azioni infonde al bambino la sicurezza che c’è un adulto pacato e fermo, capace di comprenderlo e limitarlo (…), il controllo dei sentimenti invece lo lascia frustrato, con una tensione maggiore di quella che ha espresso”.
Dada Iacono e Gheri Maltese ribadiscono poi la sempiterna valenza terapeutica del gioco e della narrazione: “Attraverso il gioco i bambini hanno l’opportunità di aggiungere pezzettini di cose buone (cure, carezze, parole) … Nel gioco si ripara e si riparte. Così anche le fiabe rappresentano una sorta di contenitore metaforico dove ritrovare i temi forti della propria crescita, impersonati e ‘risolti’: la paura dell’ignoto, la paura dell’abbandono, il sentirsi soli, la gelosia”. Le fiabe “aderiscono ai vissuti profondi dei bambini, traducendo le diverse emozioni senza svelarle direttamente.” Inoltre “il linguaggio delle fiabe si accorda perfettamente con il linguaggio dei bambini, trasformando gli scenari profondi del loro sentire in rappresentazione onirica e suggestiva. Ascoltare (…) la propria emozione così poco nominata, impersonata da una fanciulla abbandonata o da un ragazzo perduto nel bosco, permette ai bambini di poter sentire la pena, il dolore, la paura attraverso la distanza del ‘c’era una volta’. Così gioiscono di sentirsi meno soli, fino al salvifico ‘E vissero tutti felici e contenti’.
E dunque non lesiniamo fiabe e racconti ai bambini: “Le storie sono possibili lenimenti delle ferite perché mobilitano la vita interiore e vi aderiscono, soprattutto lì dove il bambino è spaventato. Ma rappresentano anche una lanternina accesa, nell’affrontare la propria crescita nella complessità della vita.”                                                                            
Maria D’Asaro, Il Punto Quotidiano(30.09.18)

giovedì 27 settembre 2018

Grazie a un "cuntastorie" di eccezione

Scala dei Turchi, vicino Porto Empedocle - Agrigento
Egregio Camilleri,
                                 le scrivo per dirle che mi sono innamorata di lei. Ma so mugghieri Rosetta può stare tranquilla: a parte l'età, puru si lei mi sta simpaticu assai, mi sono innamorata pazza di lei come ‘cuntastorie’, di la so manera di scriviri.
- Ma io scrivo accussì macari da quarant’anni … tu ti nnandrunasti ora? – sicuramenti lei mi vorrà spiari, ridennu in modo sornione.
        Veramenti na quinnicina d’anni narrè, ho letto qualichi so romanzi: come “La mossa del cavallo”. Ma poi lassai perdiri … Voli sapiri picchì? Mi pariva chi lei esagerasse tanticchiedda cui vizi di li omini e con la crudizza di li so discrizioni in generale. Picchì io prima ero una fimmina piccilidda, dilicata e nanticchia babba e ingenua. E la sua mi pareva una visione del mondo troppo da masculu, sanguigna, nuda e cruda. 
        Ora capisciu ca lei narra li cosi pi comu stannu: gran parti di li pirsoni sunnu come li descrive lei. E unnè curpa sua si la gente macari è accussì. 
Andrea Camilleri visto col pennello di Pino Manzella
Ultimamente ho letto con piacere altri suoi libri. E mi affezionai macari al commissario Montalbano. E la voglio ringraziari pi du motivi pricisi:
  In primisi,  perché mi ha fatto rammentare di quannu ero piccilidda e parlavo in dialetto, picchi nascivu in un paiseddu spirdutu non lontano … da Fiacca e Montelusa. E nta stu paisi io discurria con mio nonno Turiddu sulu in sicialianu strittu.  E mia madre, buonanima, mi cantava “Maruzzedda Maruzzedda quannu sedi nta siggitedda  …”  Oppure “La Madunnuzza in cammara sidiva, li roba a san Giuseppe arripizzava …” Con li so romanzi, lei ha risuscitatu la mia anima bambina.
     In secundisi, le sono profondamente grata pi na questione mia privata di sti iorna prisenti. Sinniu in continenti anche l’altro mio figlio e io mi sentu lu cori vacanti. Il commissario mi ha fatto compagnia e mi ha aiutato a far passare ore troppo lunghe e silenziose.
Chi aiu a diri ancora? Le auguru di campari in salute tant’anni ancora e di cuntarinni ancora macari altri cunti. Picchi nun semu affamati sulu di pani e tumazzu, ma anchi di cunti e di storie.
Maria D'Asaro

martedì 25 settembre 2018

Tu




Tu
Dono tardivo
Della bella estate
Calda, dura a morire.
Infinita.                                                 
















domenica 23 settembre 2018

Robert Capa, le foto che hanno fatto la Storia

    Si chiude oggi a Palermo la retrospettiva dedicata a Robert Capa, uno dei più grandi fotografi del XX secolo, i cui reportage hanno “raccontato” in modo esemplare la guerra civile spagnola, il conflitto tra Cina e Giappone nel 1938, la seconda guerra mondiale, la guerra arabo-israeliana del 1948,  il conflitto in Indocina del 1954.
La mostra, esposta dal 25 aprile al Reale Albergo delle Povere, ha avuto il merito di offrire ai visitatori oltre cento foto in bianco e nero che testimoniano tutta la parabola professionale ed esistenziale dell’autore.  Endre Ernő Friedmann – questo il vero nome del fotografo - nato in Ungheria nel 1913, fu costretto prima a lasciare il suo paese natale per motivi politici e successivamente la Germania nazista per le sue origini ebraiche; durante la permanenza in Spagna, negli anni 1936-39, scelse poi lo pseudonimo Robert Capa perché tale nome era più facile da pronunziare.
Nella mostra si conferma l’autenticità della foto con cui Capa divenne famoso in tutto il mondo: quella scattata a Cordova nel 1936, durante la guerra civile spagnola, foto che ritrae un soldato dell'esercito repubblicano nell'attimo in cui appare colpito a morte da un proiettile sparato dai franchisti. Capa infatti era sempre in prima linea durante le guerre narrate con i suoi scatti: fu l’unico fotografo ad assistere il 6 giugno del 1944 al sanguinoso sbarco del contingente americano ad Omaha Beach, in Normandia. Sebbene purtroppo la maggior parte delle foto dello sbarco andò perduta per un errore di Larry Burrows, il tecnico di laboratorio, gli undici fotogrammi salvatisi, pur se danneggiati, sono stati capaci di fermare sulla pellicola la portata storica della cruenta azione militare. 
"Se le tue foto non sono buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino" scriveva il fotografo che, a bordo di un piccolo aereo con pochi soldati americani, nel luglio del 1943, per documentare lo sbarco alleato non esitò a lanciarsi col paracadute nel centro della Sicilia. Proprio qui, Capa realizzò uno dei suoi scatti più celebri: quello del 6 agosto 1943 che ritrae un soldato americano accovacciato e un pastore siciliano che gli indica con un bastone la direzione per Sperlinga, dopo la battaglia di Troina. Nonostante il suo disprezzo per il pericolo e la sua lunga consuetudine con gli scenari bellici, sugli scatti nel 1943 in Sicilia il fotografo scrisse poi in un diario: “Erano immagini molto semplici. Mostravano quanto noiosa e poco spettacolare fosse in verità la guerra. Il piccolo, bel paese di montagna, era completamente in rovina. I tedeschi che lo avevano difeso si erano ritirati durante la notte abbandonando alle loro spalle molti civili italiani, feriti o morti. Ci eravamo distesi per terra nella piccola piazza del paese, di fronte alla chiesa, stanchi e disgustati. Pensavo che non avesse alcun senso questo combattere, morire e fare foto».
Ma Capa, come testimonia egregiamente una sezione della mostra, era capace di utilizzare il suo talento dietro l’obiettivo anche per i ritratti fotografici, sia che i soggetti fossero amici famosi sia che si trattasse di umili sconosciuti, come evidenziano le foto di Hemingway, Picasso, Ingrid Bergman e i suoi scatti di gente comune a Tel Aviv, in Israele, nel 1948.
Robert Capa muore a 41 anni ad Hanoi, per l’esplosione di una mina durante la prima guerra d’Indocina, nel 1954. Sua questa laconica e amara considerazione sulla guerra: «Un inferno che gli uomini si sono fabbricati da soli».


Maria D’Asaro








venerdì 21 settembre 2018

Il mare sotto casa

Costa est con Monte Pellegrino (foto mari@dasolcare)
       In questo Settembre così poco autunnale, se abiti nella periferia est di Palermo e hai qualche ora libera, puoi respirare aria di mare e fare un bagno a dieci minuti scarsi da casa. Anche se, nonostante l’invitante limpidezza di alcuni tratti, non si sa ancora se il mare della costa est – dal Foro Italico a Romagnolo per capirci – sia balneabile per davvero.
Comunque, anziane ancora arzille, pescatori improvvisati, badanti rumene in libertà, famiglie composite, ragazze dallo sguardo intelligente con un cane al guinzaglio, turisti coraggiosi ... incuranti tutti della sporcizia in cui versa la spiaggia, si ritrovano contenti in questo lembo marino, che ha una sua autenticità e  regala sorsate di benefica aria salmastra. E’ un mare povero certo, privo di confort. Ma è pur sempre la vasta, azzurra distesa d’acqua che ci affascina dalla notte dei tempi. E le siamo infinitamente grati per la dolcezza della sua sempiterna risacca.
Maria D'Asaro


mercoledì 19 settembre 2018

Docenti: maestri di utopie concrete

Raffaello Sanzio: Scuola di Atene (particolare)
(Ringrazio Slec che ha segnalato l’articolo nel suo blog)
        Al ritorno a scuola (…) è importante riaffermare un concetto sempre più dimenticato o addirittura negato e contrastato: fare l’insegnante è un mestiere profondamente politico, è un agire educativo dirompente, è un atto di quotidiana ribellione rispetto alle catene dell’esistente.
Chi dimentica la natura politica dell’insegnare è spesso figlio della grande disillusione che caratterizza la fine del Novecento e i primi decenni del XXI secolo. Un tempo, forse, il docente era uno dei principali protagonisti dell’educazione critica e consapevole degli allievi. Ora occupa un ruolo marginale se non addirittura del tutto inutile. Il ruolo educativo è stato inghiottito dalla burocrazia e il docente si è trasformato in un impiegato della formazione, in un controllore dei biglietti del bus chiamato scuola, in un vigilantes dell’ordine pubblico.
       L’insegnante è stato spodestato da altri centri politici educativi quali la TV, la rete, lo star system e i social media. Secondo chi si rassegna, l’insegnante politico appartiene ad un passato ormai mitico ed è come un vello d’oro perduto, senza che ci siano dei nuovi Argonauti disposti a salpare in mare aperto per andare a cercarlo. (…)
      Chi travisa la politicità dell’insegnante è probabilmente figlio di un crescente e inarrestabile analfabetismo di ritorno che confonde il termine politico con partitico. Tale ignoranza conduce ad esaltare il falso idolo dell’insegnante oggettivo e neutrale. Tale neutralità porta alla noia formativa, all’apatia esistenziale e ad un pernicioso relativismo valoriale, in cui tutto si equivale. Tutto si studia, tutto si comprende criticamente, ma i partigiani e fascisti non si equivalgono, così come Mandela e Pinochet non stanno dalla stessa parte della storia. Insegnare significa, infatti, fare una scelta educativa netta, significa avere come bussola politica la Costituzione, i diritti umani, il rispetto della natura, la libertà, la giustizia sociale, i diritti del lavoro, la lotta al razzismo e la pace, intesa come ripudio netto della guerra, da sempre strumento di aggressione e di dominio. L’insegnante neutrale è di fatto un Ponzio Pilato educativo.
       Chi nega la natura politica della professione docente è invece figlio, legittimo o illegittimo, della fine delle ideologie e del trionfo disarmante della tecnica. In questa prospettiva, l’insegnante è un sofista 2.0, un personal trainer della formazione, un trasmettitore acritico dei contenuti e delle competenze richieste dal mercato, dalle imprese e da un progresso tecnologico e scientifico che da mezzo per l’emancipazione umana si è tramutato in una finalità assoluta dalle sembianze metafisiche, da perseguire ciecamente in quanto tale. L’insegnante apolitico è dunque il cortigiano di un presente che si fa dittatura, di un pensiero unico dominante che cannibalizza ogni ricchezza del possibile, che annulla ogni strada alternativa.
       Infine, vi è chi apertamente contrasta la politicità dell’insegnante, considerandolo un pericoloso sovversivo. In questa caso, siamo, quasi sempre, in presenza dei figli del potere e di quella logica dello status quo, che serve a mantenere inalterata la struttura sociale in cui si realizza il dominio dei pochi sui molti. Coloro che contrastano la politicità dell’insegnante sono i costruttori di muri, i difensori di una tradizione che discrimina, i cantori delle disuguaglianze, gli esaltatori dell’uomo monodimensionale, mansueto esecutore di ordini e comandi. Si tratta dei nemici più intimi della democrazia, di coloro che spargono sale sulla terra per evitare la fertilità della disobbedienza e delle diversità.
         L’apoliticità dell’insegnante segna, pertanto, la mutazione genetica, se non addirittura l’eutanasia della stessa professione docente. Insegnare, infatti, è l’atto politico più nobile e vitale che si possa compiere.L’insegnante deve educare al pensiero critico, deve trasmettere la potenza liberatoria del conoscere e del saper fare.
Insegnare è un’azione di ribellione contro l’opacità e l’ingiustizia del presente.
Insegnare è un atto d’amore verso la possibilità di cambiare la realtà e di trasformare noi stessi.
Insegnare è stimolare i desideri di libertà, di scoperta, di viaggio e di giustizia.
Insegnare è saper distinguere le bellezze della vita, troppo spesse nascoste e imprigionate nella mediocrità dei tempi.
Insegnare significa immaginare altri mondi e altri modi di stare al mondo.
Insegnare è il mestiere politicamente più rivoluzionario di tutti perché può portare gli uomini e le donne ad aver fame e sete di felicità, conoscenza ed emancipazione.  (…)
Matteo Saudino, Docente di Filosofia, Torino




lunedì 17 settembre 2018

A piedi nudi

        
       Capita che i vecchi sandali infradito ti diano il benservito quando sei a duecento metri da casa. Impossibile camminare col sinistro fuori uso: torni a casa scalza. All’improvviso, hai un contatto diverso con l’universo: procedi lentamente, attenta a pezzettini di vetro o ad altro materiale pericoloso per i tuoi piedi, che sentono tutta la durezza del selciato e la vergogna per la loro nudità. 
       Alla fine, ce la fai: sei a casa, con i piedi sporchi, ma integri. Ma quei passi a piedi nudi ti hanno dato una prospettiva diversa sul mondo: ti hanno fatto ricordare i terribili zoccoli duri degli internati nei lager nazisti e Primo Levi alla disperata ricerca di un paio di scarpe per camminare, nell’odissea del viaggio di ritorno in Italia. Pensi ai sandali degli immigrati nei barconi … 
      A casa, ritrovi le tue ciabatte. E ringrazi la Sorte benigna per le scarpe ai tuoi piedi.


Maria D’Asaro

domenica 16 settembre 2018

Grazie, Francesco, la Sicilia ti abbraccia

(pubblicato su: Il Punto Quotidiano)
             Accoglienza festosa e folle da concerto rock per la visita pastorale di papa Francesco in Sicilia il 15 settembre, in occasione del venticinquesimo anniversario dell’assassinio di padre Pino Puglisi, già beato dal 2013, il prete ucciso con un colpo alla nuca dal sicario Salvatore Grigoli perché, con il suo costante impegno di promozione umana nel quartiere Brancaccio, impediva a “Cosa nostra” di controllare il territorio.
        “Siate uomini e donne d’amore e non d’onore” – ha esortato il papa durante la celebrazione eucaristica al Foro Italico di Palermo, dinanzi a centomila persone venute da ogni angolo della Sicilia ad ascoltarlo. Con tono più sommesso e accorato rispetto al grido pronunciato  da Giovanni Paolo II nel 1993 ad Agrigento, papa Francesco ha ripetuto l’invito ai ‘fratelli mafiosi’ a convertirsi, e a diventare uomini “di servizio e non di sopraffazione”, ribadendo l’assoluta inconciliabilità tra l’adesione al Vangelo e quella alla mafia.  
         Iniziata in mattinata a Piazza Armerina, cittadina nel cuore dell’isola e sede di una diocesi periferica che festeggia proprio quest’anno i suoi duecento anni di vita, la visita del pontefice a Palermo, dopo la celebrazione della messa, è continuata col pranzo nella struttura di accoglienza creata dal volontario Biagio Conte - fratel Biagio per i palermitani - il missionario laico che da decenni offre un tetto e un pasto a tutti i bisognosi della città. 
        Papa Francesco ha pranzato con 1500 persone: tra essi immigrati, senzatetto e alcuni detenuti che hanno avuto il permesso di lasciare per un giorno il carcere “Pagliarelli” per il privilegio di pranzare col papa. “Ho sbagliato – ha detto un detenuto a chi lo intervistava – ma si può cambiare nella vita, e stare qui e ascoltare il papa mi dà la forza di cambiare in meglio … “ Tutti, dal papa al barbone senzatetto, in un clima di autentica e gioiosa condivisione fraterna, hanno condiviso lo stesso menù: del riso, un po’ di cuscus, del pollo, un po’ di insalata e un bel cannolo, dolce tipico della pasticceria palermitana.
        Dopo pranzo, Francesco ha voluto fare una sorta di “pellegrinaggio” alla Parrocchia San Gaetano nel quartiere Brancaccio e alla casa popolare dove abitava don Pino Puglisi, che fu ucciso la sera del 15 settembre 1993 proprio sotto la sua abitazione, mentre stava rincasando. Nel luogo del martirio, è stata deposta una piccola corona di rose rosse.
      Successivamente il papa si è recato in Cattedrale dove ha incontrato i religiosi e il clero, invitandoli a fuggire la tentazione del carrierismo o della trasformazione in burocrati del sacro. Li ha poi esortati  a vigilare sulla religiosità popolare, per evitare assurdità come l’inchino della statua della Madonna o di un Santo di fronte alla casa di un boss mafioso, durante una Processione.
        Infine, in piazza Politeama, l’abbraccio festoso con i giovani, con parole che hanno toccato il loro cuore. Intanto il plauso alla Sicilia, da sempre luogo di incontro tra culture; poi l’invito a vivere relazioni autentiche, libere e liberanti, a essere appassionati e coerenti insieme; a “sporcarsi le mani, facendosi coinvolgere nelle relazioni e nei progetti esistenziali, pur rimanendo ancorati alle proprie radici, alla propria identità, ai propri valori, ma sempre aperti al dialogo e al confronto.
       Grazie, Francesco: perché, nonostante la stanchezza dei tuoi 81 anni e le caviglie doloranti, hai saputo far vibrare la speranza nei nostri cuori. I tuoi inviti a “non cedere alla logica del pessimismo”, a essere “albe di speranza”, a “sognare cose grandi” e a contrastare “la carestia d’amore” possano essere semi fecondi per la terra siciliana.
Maria D’Asaro 

sabato 15 settembre 2018

Benvenuto, Francesco

Oggi a Palermo abbiamo un ospite speciale: papa Francesco, venuto in Sicilia in occasione del XXV anniversario dell’assassinio di don Pino Puglisi, il prete che ha messo in crisi la mafia con il suo sorriso e con il suo impegno tenace nella promozione umana e sociale del quartiere Brancaccio.




Qui una sintesi dell’omelia pronunciata da don Cosimo Scordato il 2 settembre scorso, che evidenzia la centralità evangelica dell’amore, rispetto a ogni altro precetto:

(…) Dobbiamo essere grati al Signore per questa pagina di Vangelo che è stupenda, liberatrice, di grande svolta nella storia dell’umanità. Viene messo in crisi il principio della religione che distingue il puro dall’impuro. Il puro è Dio e quelli che credono di potersi avvicinare a lui, che fanno le cose sue: costruiscono templi, fanno pratiche religiose … Gli impuri sono gli altri: quelli che non rispettano le leggi religiose, le osservanze.
E questo principio religioso, che sembrerebbe sacrosanto, per Gesù non esiste. E perché non esiste questo principio? Perché in questo modo Dio viene pensato lontano dagli uomini, raggiungibile solo dagli uomini che vanno in Chiesa, che fanno certe pratiche, per gli uomini religiosi. E quindi lontano dalla nostra vita. (…)
Quindi “Non c’è più religione” dovremmo poter dire … Una volta che questo principio religioso viene meno. Perché la religione separa i puri dagli impuri, i buoni dai cattivi, i religiosi dai non religiosi … Il Vangelo è l’abbraccio di Dio alla nostra umanità.
Ed è Dio che si sporca le mani per potere abbracciarci e tenerci tutti uniti in quest’abbraccio.
Per cui tutte le tradizioni religiose, anche se le rispettiamo per un certo riguardo alle intenzioni buone delle persone, entrano in crisi definitivamente perché hanno oscurato il comandamento di Dio:  - Amami dal di dentro del tuo cuore, non con pratiche esterne … Mi ami per davvero? –  chiede il Signore ad ognuno di noi – sono importante per la tua vita? Sono dentro la tua vita? Hai accolto gli altri? – come ci ricordava l’apostolo Giacomo, visitare gli orfani, le vedove, nelle sofferenze, accogliere gli stranieri, visitare gli ammalati …
Il comandamento di Dio è questo, e mette in crisi ogni impostazione religiosa, che presume di essere autentica anche se non ama le persone nella loro concretezza. Non è possibile: perché Dio si è fatto uomo per amore della nostra umanità e ci ha sposato a sé, ci ha unito a sé per sempre. 
Noi usiamo queste espressioni: l’incarnazione, il Figlio di Dio, la natura umana, la natura divina … queste espressioni della tradizione cristiana. Che cosa vogliamo salvaguardare? Questa verità bellissima: quella del Vangelo. Dio ci ha fatto suoi come siamo, con le cose belle che ognuno di noi porta, e anche con le nostre limitatezze umane.
E ci invita a riconoscere ogni buon regalo o ogni dono chiunque ce l’abbia: questa persona sa donare? Sa offrirsi? Ogni dono viene da Dio. Anche se la persona non va in chiesa. Sa donare? Dio sta lavorando nel suo cuore.
E allora, care sorelle e fratelli, siamo grati al Signore per questa pagina del Vangelo: non c’è niente di puro o impuro o di sacro … niente. C’è solo la santità di Dio, che noi accogliamo celebrando e realizzando il comandamento dell’amore. E’ questo che ci rende santi, e quindi simili a lui. Ed è questo per cui ci vogliamo incoraggiare a vicenda, per non confonderci con le mille cose che sentiamo … 
Dobbiamo tornare all’essenzialità della pagina evangelica: la santità viene dentro di noi. Se abbiamo veramente accolto il Signore, allora non c’è niente che possa sporcarci dal di fuori. Se riusciamo ad amare, niente può renderci impuri o può compromettere il valore della nostra vita. (…) Hai amato? L’hai fatto con amore, per amore? E allora la santità del Signore brillerà nella nostra vita (…)

(il testo non è stato rivisto dall’autore, don Cosimo Scordato: eventuali errori o omissioni sono della scrivente, Maria D’Asaro, che si assume pertanto la responsabilità delle eventuali imprecisioni e manchevolezze della trascrizione).


giovedì 13 settembre 2018

Lassù ...





Volata
con te,
preziosa amata sorella,
parte della mia anima.
Lassù …     






                                                    Mia sorella e mia figlia, mille anni fa.

                                       

martedì 11 settembre 2018

Solitudine

H.Matisse: La stanza rossa (Ermitage, San Pietroburgo)



Entri
senza bussare,
ospite ormai attesa:
ti siedi qui accanto.
In silenzio.                                               

domenica 9 settembre 2018

Auguri, Camilleri: illustre “cantastorie”

Andrea Camilleri in un dipinto di Pino Manzella
            Tanti auguri e torta con 93 candeline per il recente compleanno di Andrea Camilleri, nato a Porto Empedocle, vicino Agrigento, il sei settembre del 1925. Lo scrittore siciliano non ha certamente bisogno di presentazioni: già sceneggiatore, regista televisivo e docente di regia all’Accademia nazionale d’arte drammatica, pubblica i suoi primi romanzi Il corso delle cose e Un filo di fumo rispettivamente nel 1978 e nel 1980. Ma il grande successo arriva alla fine degli anni ’90, con la pubblicazione dei romanzi polizieschi La forma dell’acqua e Il cane di terracotta che hanno come protagonista il commissario Montalbano, portato poi in televisione dall’attore Luca Zingaretti.
Qual è il segreto narrativo di un autore che ha scritto più di un centinaio di opere ed è stato tradotto in 126 lingue diverse? Intanto Camilleri è l’inventore di una lingua particolare, commista di italiano e dialetto siciliano, una lingua ‘bastarda’ per dirla con l’autore, dotata di una potente forza espressiva. Nel dialogo con lo scrittore Antonio Manzini, durante la manifestazione  “Una marina di libri”, tenutasi a Palermo a inizio giugno 2015, Camilleri confidava che nella sua prosa l’andirivieni tra dialetto siciliano e italiano è dovuto alla ricerca continua della parola che “sia la cosa che dico, che abbia il peso di ciò che sta raccontando. Se racconto un fatto di sangue, la parola deve avere il peso del sangue”. 
Inoltre, sempre in quell’occasione, lo scrittore sottolineava che i suoi romanzi obbediscono a delle regole, a una loro ‘musica interiore’: "Per un romanzo del commissario Montalbano bastano diciotto capitoli, di dieci pagine ciascuno. Un romanzo ben congegnato sta in 180 pagine. Tutti i miei racconti sono invece di 24 pagine, suddivisi in 4 capitoli di 6 pagine ciascuno. Se non sento questa misura, che è come quella che sente chi scrive un sonetto, se non avverto questo ritmo formale e compiuto, vuol dire che qualcosa non va. Significa che c’è un ingorgo, un eccesso, o una caduta di ritmo. Perché anche un romanzo o un racconto obbediscono a certe regole metriche e matematiche, proprio come la poesia".
A Manzini che gli chiedeva poi se amasse di più i suoi romanzi polizieschi o quelli storici, come La concessione del telefono e Il re di Girgenti - Chi è la moglie e chi è l’amante? - celiava l’intervistatore, Camilleri rispondeva di considerare la stesura dei vari Montalbano “un’amante noiosa” e il commissario “una sorta di schifoso ricattatore”, capace però di fare da volano a tutta la sua produzione,  dichiarando di “essere sposato con i romanzi storici”. Aggiungeva poi di essersi divertito a inserire nel romanzo Il re di Girgenti una serie di documenti storici falsi scritti di suo pugno, grazie alla libertà concessa agli scrittori, lasciando alla moglie Rosetta il piacere e l’onore di vergare i falsi in latino.
Il grande critico letterario Carlo Bo ha scritto anni fa che i libri dello scrittore  hanno occupato uno spazio vacante in Italia: quello della scrittura di intrattenimento medio-alto. Ma Camilleri continua a definirsi semplicemente un “cantastorie” e paragona i suoi libri non a “Cattedrali di Notre Dame de Paris, ma a “piccole, meravigliose, godibilissime chiese di campagna”. 
Senza di esse però, caro Camilleri, il panorama letterario italiano perderebbe fascino e spessore.

Maria D'Asaro, Il Punto Quotidiano, 09.09.2018

venerdì 7 settembre 2018

La mia voce ti cullerà ...

     
R. Guttuso: Rocco e suo figlio (Ermitage - S.Pietroburgo)
         Dal testo di  Dada Iacono  e Ghery Maltese Come l’acqua … (Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2012, €9): Per un'esperienza gestaltica con i bambini tra rabbia e paura.
(Seguirà recensione)

"Essere affiancato da una figura calda e sicura offre al bambino la possibilità di fidarsi, di lasciarsi andare e di avere più sicurezza. E’ fondamentale quanto l’adulto trasmette. Infatti le paure tipiche dell’età vengono ingigantite se il bambino (…) sente l’ansia e l’insicurezza dei grandi che lo circondano. Poter crescere acquisendo fiducia e sicurezza è il presupposto essenziale che permette al bambino di sentire ed elaborare le emozioni che vive.
La sicurezza del bambino aumenta con l’avvento dell’autonomia, in particolare con la capacità di distendere preventivamente gli eventi nel tempo grazie alla capacità immaginativa, oltre che con l’apprendimento del linguaggio (…) soprattutto il linguaggio  (…)  diventa tramite ed elaborazione di paure che possono essere così nominate e in un certo senso esorcizzate.
Se il bambino sente che l’adulto è capace di cogliere, di ascoltare senza ridicolizzare e senza sminuire il suo racconto, allora potrà nominare (…) le proprie paure portandole fuori di sé, all’interno di una relazione significativa che diventa spazio intimo di condivisione trovando sollievo nelle parole autentiche a lui rivolte. (...)
Proprio la voce ha una funzione rassicurante, sia come ‘culla sonora’, sia come parola dell’adulto che, se pronunciata nel momento giusto e nel modo giusto, raggiunge le emozioni del bambino, i suoi dolori, le sue ansie da sciogliere.
Sono, queste, parole che non possono essere apprese una volta per tutte e ripetute indistintamente, poiché nascono dallo sguardo capace di andare oltre le apparenze e si nutrono della relazione profonda. E’ appunto l’essere in relazione che permette all’adulto di ascoltare il bambino immedesimandosi in ciò che egli sente, e al bambino di essere raggiunto nelle sue emozioni.
Per questo, gli spazi in cui le parole scorrono liquide e vibrano all’interno dell’altro sono da ricercare nella relazione forte, calda, per certi versi ‘terapeutica’. Per l'adulto che allunga lo sguardo al fine di sentire e comprendere. Per il bambino che ascolta e ritrova dentro di sè significati e parole antiche.
(...).
Di fronte al bambino impaurito è importante garantirgli la presenza discreta e solerte, l’ascolto attento, la parola giusta che partecipa al suo stato emotivo, senza tuttavia rimanere invischiati in una risonanza inutile e confusiva. Al bambino serve la sicurezza e la serenità dell’adulto per poter esprimere, senza temere di perdere i confini, i sentimenti forti che lo agitano."
(pagg. 47/49)


mercoledì 5 settembre 2018

Proxima estacion ...esperanza

           L’amico Augusto Cavadi  (che scelse tanti anni fa lo studio della Filosofia perché pensava che fosse un modo di contribuire a cambiare il mondo) anche quest’anno a Lovere, sulla sponda bergamasca del lago d’Iseo, a fine agosto, ha organizzato, col collega e amico Elio Rindone, la “XXI Settimana Filosofica per non... filosofi” sul tema: “lo spazio della speranza nell’epoca della disperazione”.
Ecco come è andata l’esperienza:
"Come sono andate le “Vacanze filosofiche per …non filosofi” a Lovere, sul lago d’Iseo, mi chiedete in molti (a voce, per telefono, per posta elettronica) ? La risposta più sintetica è: benissimo. Le quasi quaranta persone che hanno partecipato complessivamente alle sessioni si sono dichiarate, in privato e in pubblico, decisamente soddisfatte. Bello il posto, bello il tempo atmosferico, sobria ma gradevole l’accoglienza alberghiera. E poi, soprattutto, le varie sessioni sul tema dell’anno (“E’ possibile sperare nell’epoca della disperazione?”) sono state partecipate con vivacità e pertinenza. 
Qualcuno mi chiede anche di raccogliere le linee essenziali della riflessione comune e le conclusioni raggiunte, ma questo è un compito che supera di gran lunga le mie forze. Per non risultare eccessivamente evasivo proverei a raccontarla così.  (Continua qui)

Augusto Cavadi
E ancora qui: (riporto una sintesi dell'articolo)
(...)    C’è un modo per conciliare l’attenzione al (pur sfuggente) presente e uno sguardo lungo sul futuro che non degeneri in illusione alienante? Ecco una mia seconda notazione: il pensatore marxista (eretico) Ernest Bloch sostiene di sì. E’ possibile, anzi doveroso, anzi inevitabile, coltivare una “utopia concreta”: una progettualità orientata al “non ancora” che, però, si basi sull’analisi critica della situazione esistente, del “già”. Egli, nella seconda metà del XX secolo, riteneva che tale “utopia concreta” fosse identificabile nel marxismo, a patto che lo si intendesse come sintesi in divenire della sua “corrente calda” (passione profetica risalente alla tradizione biblica) e della sua “corrente fredda” (teoria scientifica della società e della storia elaborata da Marx e Engels): alcuni di noi - che non erano marxisti neppure nel Sessantotto quando sembrava intellettualmente e eticamente obbligatorio esserlo – continuiamo a pensare che questa identificazione blochiana (“Ubi Lenin, ibi Jerusalem”) non colga nel segno. Ma siamo, oggi come allora, convinti con Giorgio La Pira e molti altri, che il marxismo, fallimentare come terapia in quanto basato su un’antropologia errata, sia istruttivo – anzi, irrinunciabile – come diagnosi. E non è l’ultima delle disgrazie dei nostri giorni che la Destra più potente e più ignorante della storia occidentale – intendo la Destra che governa alcune zone cruciali del pianeta come gli Stati Uniti d’America e che minaccia di installarsi senza contrappesi in Italia – abbia convinto la stragrande maggioranza della popolazione che marxismo sia sinonimo di totalitarismo regressivo. 
        Il riferimento a Marx mi suggerisce una terza notazione. Nel corso di un laboratorio serale, Andrea (il giovane filosofo che lo conduceva) ha chiesto di scrivere su un foglietto la risposta a due domande: “Cosa ti manca nella vita? Cosa stai facendo per ottenerlo?”. Le risposte di cui si è avuta contezza (le leggevano a voce alta solo i partecipanti che lo decidevano) sono state tutte in chiave soggettivo-esistenziale: “mi manca la capacità di relazionarmi con gli altri”, “mi manca la coerenza quotidiana con i miei princìpi etici”, “mi manca una passione che mi coinvolga fortemente”…Nessuna risposta ha riguardato l’ambito sociale-politico. 
         Anche questo dato, a mio avviso, si presta a considerazioni di segno opposto. Di segno negativo: le speranze collettive sembrano tramontate per sempre o, per lo meno, essersi eclissate. Anche nei casi in cui assistiamo ancora con sdegno alle tragedie epocali – dai migranti che annegano a pochi chilometri dalle nostre spiagge, festosamente animate, alle bambine vendute e stuprate per pochi dollari in aree vastissime del pianeta – vi assistiamo con sorda rassegnazione: non vediamo organizzazioni partitiche, sindacali, religiose cui affidare la nostra impotenza individuale per trasformarla in energia collettiva. Per la verità esistono alcune Organizzazioni non governative che lavorano con sufficiente efficacia, ma (...) danno l’impressione di agire solo ...settorialmente; laddove si è convinti (...) che i drammi planetari attuali vadano affrontati preventivamente e, soprattutto, in un’ottica complessiva. 
      Tuttavia il tenore delle risposte alle domande di Andrea potrebbe conservare anche una valenza positiva: l’intuizione che le speranze al plurale nascono sempre, e si mantengono in vita, dalle speranze al singolare. Un’intuizione molto responsabilizzante che elide in radice ogni logica di delega: per dirla con Gandhi – che certamente non era un individualista apolitico – ognuno di noi deve impegnarsi ad essere per primo, nella propria sfera personale, il cambiamento che spera per il mondo. La speranza dell’io non esclude la speranza del noi; anzi, se autentica e intensa, non può che contagiare gli altri. La speranza, che per sua essenza è un atteggiamento del soggetto, può però essere condivisa da altri soggetti sino a diventare, a macchia d’olio, la speranza (se non di un popolo) di una consistente maggioranza di umani. 

Su Google digitando il sostantivo femminile speranza, in 50 centesimi di secondo si ottengono ad oggi 34 milioni e 500 mila risposte. Le più ottimistiche sono quelle “datate”, ma straordinariamente attuali, di  Eraclito: “Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato” e di Aristotele: ” La speranza è un sogno fatto da svegli”.  Le più pessimistiche quelle dello scrittore francese Luc de Clapiers: “Fa più vittime la speranza che l’astuzia” e in particolar modo quanto ha scritto Eloisa su Twitter: ”Non mi è mai piaciuto sperare. Soprattutto da quando ho scoperto che “spero” è l’anagramma di “perso”.  Personalmente restiamo della convinzione che ogni forma di vita rappresenti di per se amore, un sentimento istintivo di speranza. E quindi la vita è speranza e la speranza è vita.


lunedì 3 settembre 2018

Onde





Onde,
felicità bambina:
la risacca accarezza
piedi, cuori, sassi, pensieri …
Cullàti.                                               










Foto: mari@dasolcare: APE Village - Buonfornello (Palermo)


domenica 2 settembre 2018

La pittura letteraria di Pino Manzella

Pino Manzella: Umberto Santino
     “Poeti, scrittori ed altre creature inutili”: questo il titolo della recente mostra del pittore Pino Manzella, esposta nel mese di agosto alla galleria Studio 71 di Palermo. 
     Ma chi è Pino Manzella e cosa c’è di speciale nel suo modo di dipingere? Manzella, che ha studiato Lingue e letterature Straniere all’Università di Palermo, è nato e vive a Cinisi, dove è vissuto anche Peppino Impastato, di cui Pino è stato amico e col quale ha condiviso l’attività politica e culturale. Già allora disegnava le vignette e le copertine per i giornaletti ciclostilati, i manifesti e le pareti del Circolo Musica e Cultura. In un’intervista il pittore ha dichiarato: “Per me disegnare è sempre stato il tentativo di raccontare un luogo dal mio punto di vista, il mio modo di interpretare e di capire la realtà in cui vivo. Vuole essere uno sguardo critico, una denuncia della realtà, quasi una spinta a cambiarla. Perché ben presto ho scoperto che c’erano troppe cose che non mi piacevano e cercare di cambiarle disegnando era la cosa più bella che mi potesse capitare.”
      I suoi sono dipinti particolari: spesso disegna con china acquerellata su vecchi fogli di archivi destinati al macero. Ecco cosa ha scritto su di lui un critico d’arte, Claudio Alessandri:  “Gli antichi documenti vergati con calligrafia minuta ed ordinata richiamano dalle ombre un passato nebuloso, ma abbastanza visibile per accostarlo alla storia recente. Un unico filo collega due mondi temporalmente lontani, ma emotivamente attuali. Manzella scrive con le sue opere la storia recente lasciando agli antichi documenti, supporto delle sue opere, il compito di far rivivere il passato.” 
     E lo scrittore viterbese Fabio Stassi, nell’opuscolo di presentazione della mostra, aggiunge: “Nelle sue tele (…) carte ingiallite come un dagherrotipo, con quell’odore tipico delle pergamene dove si smarrisce la nozione adulta delle cose (…), la scrittura e la pittura si sovrappongono, si influenzano, sono un gioco di specchi e rimandi”.
     Tra i dipinti in esposizione - sullo sfondo di borderò di ipoteche, atti notarili, depositi d’archivio, missive private - emergono, tra gli altri, gli sguardi di Danilo Dolci, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, di Lucio Piccolo, Vincenzo Consolo,  Gesualdo Bufalino, Andrea Camilleri; delle scrittrici Evelina Santangelo e Ruska Jorjoliani. E gli occhi spenti, ma ben aperti sul mondo interiore, di Jorge Luis Borges.
      Un quadro è dedicato allo sguardo intenso e un po’ triste dello storico Umberto Santino e ha, nello sfondo, un profilo di Peppino Impastato. Pino Manzella e Umberto Santino si sono strenuamente battuti perché sulla tragica fine di Peppino si ottenesse verità e giustizia. E Manzella, con la sua arte talentuosa pregna di impegno civile, fa suo il richiamo di Santino che, nella poesia “Ricordati di ricordare” ci esorta a “ricordare coloro che caddero per costruire un’altra storia e un’altra terra (…) perché dove non è arrivata la giustizia arrivi la memoria e sia più forte della polvere e della complicità”.
Maria D’Asaro, Il Punto Quotidiano, 02.09.2018

(Qui un articolo su una sua mostra alla Fonderia Oretea, Palermo; Qui un'intervista).

Danilo Dolci

Ruska Jorjoliani

Fabio Stassi