L'autrice di questo blog, Maria D'Asaro, vive in un'isola ed è affascinata dal mare: mari da sognare, mari da scoprire, mari da solcare...
lunedì 28 dicembre 2009
Un mondo migliore
domenica 20 dicembre 2009
METHODI
Prima era uno dei tanti insistenti questuanti che ti fissano con lunghi supplici sguardi quando sei ferma al semaforo. Poi mio figlio ha deciso di saltare il muro: “Come ti chiami? Da dove vieni? Perché non lavori, anziché chiedere l’elemosina?” Lui non si è sottratto alla provocazione: “Per chiedere soldi ci vuole più coraggio che tu pensare… Chi dà lavoro a me senza permesso di soggiorno?”
Così sappiamo che è bulgaro, che ha moglie e una figlia, che si chiama Methodi. Lui sa della mia famiglia, sa che sono la madre di R.. Un giorno mi ha chiesto una cosa. Un vecchio televisore, per favore. Per imparare meglio l’italiano, chissà. Perché solo la lingua fa uguali, ricordava don Milani. O forse perché la moglie possa guardare una fiction e la figlia i cartoni…
Ormai, al semaforo rosso, non mi chiede più niente. E’ lui a donarmi qualcosa. Un ampio sorriso.
Maria D’Asaro
(“Centonove”: 18.12.09)
giovedì 17 dicembre 2009
Alla sera
Tu sei l’imago, a me sì cara vieni,
o sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,
e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all’universo meni,
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cuor soavemente tieni.
Vagar mi fai co’ miei pensier sull’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
delle cure, onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.
Ugo Foscolo
lunedì 14 dicembre 2009
PETIT ONZE AL CALZINO SPAIATO
Cosa prova
Un calzino spaiato:
solitudine struggente, ansia angosciosa?
Chissà:
Forse teme,
Ma:
Felicità piena
o giogo funesto,
Avvolgere insieme piedi irriverenti?
Forse
Può schiudere,
Il gemello mancante,
D’esistenza, imprevisti scenari.
Chissà:
Nuova vita,
Effervescente di sorprese,
La novella vedovanza prepara.
Quando,
Così trasformata,
La calza spaiata,
Grembo di doni diviene.
Magari,
Appena domani
Di dolcezze ripiena,
Sorrisi al mondo regala.
Questa canzone sui calzini spaiati è una vera chicca! Ringrazio Jan per avermela segnalata.
domenica 13 dicembre 2009
Amaca e dintorni
Ogni imputato davanti a una corte suscita pena, specie se una pena lo aspetta. Non fa eccezione il povero Fabrizio Corona, la cui mise da tribunale, con camicia bianca aperta sui tatuaggi, è così pateticamente trucida da costringerci a sommare, alla normale compassione per chi si è messo nei guai, una sorta di compassione generale per lo stato delle cose. Una di quelle immagini che ti fanno pensare che l´umanità intera stia per sprofondare - meritatamente - agli inferi.
Certo non era scontato, né desiderabile, che alla scomparsa dell´etica, della quale Corona è un interprete tra i più notevoli, si accompagnasse una catastrofe estetica di questa portata. Un inguaribile ottimista potrebbe presumere che Corona, esponendo il petto inerme alla raffica della legge, abbia voluto rendere omaggio alla "Fucilazione" di Francisco Goya. Ma "Goya", da quelle parti, può essere al massimo il nome di una discoteca, e più verosimilmente Corona si è presentato in tribunale come se andasse al localino sotto casa, perché non c´è istituzione, o rito, o momento solenne che meriti la dismissione del proprio narcisismo. Corona, del resto, è colui che filmò con una telecamera nascosta le lacrime della moglie alla propria causa di separazione, per rivendere le immagini a Mediaset (complimenti vivissimi a chi le acquistò). È come se oramai mancassero (non solo al povero Corona) le occasioni per chinare il capo, rispettare qualcuno o qualcosa (anche se stessi), imparare da qualcuno o da qualcosa.
In questo senso le immagini di Corona in tribunale con le tette al vento sono un´istantanea folgorante della malattia italiana. Malattia, non altro. Corona, dopo la sentenza, ha detto di vergognarsi di essere italiano. Ma qui non è questione di vergognarsi: è una perdita di tempo da moralisti. Qui sarebbe questione di guarire, o almeno di provarci.
C’E UN TEMPO PER …
“C’è un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare…” così recita poeticamente la Bibbia, in uno dei suoi libri dal sapore moderno ed esistenziale. Educata alla sapienza biblica e alla diversità suggerita dalla danza dei mesi, per me ottobre e novembre sono castagne, scuola, autunno e ricordo dei morti. Invece no: a Palermo l’aria natalizia viene imposta subito dopo le zucche di Halloween, con sfarzose decorazioni luminose in ogni angolo della città. Mi dispiace, ma così non c’è prio. Anche tacendo dell’ulteriore indigestione di CO2 causata alla nostra terra dall’abbondanza luminosa, temo che le luminarie precoci non ci facciano gustare il Natale. Che ricorre a Dicembre, e non due mesi prima. Perché, ci ricorda l’Ecclesiaste, c’è un tempo per ogni cosa. C’è bisogno del buio e di un tempo feriale e ordinario, per poter gustare le luci e la festa.
Maria D’Asaro
("Centonove": 11.12.09)
martedì 1 dicembre 2009
L'AMACA
lunedì 30 novembre 2009
Assenza
più acuta presenza.
Vago pensier di te
vaghi ricordi
turbano l'ora calma
e il dolce sole.
Dolente il petto
ti porta,
come
una pietra
leggera.
mercoledì 25 novembre 2009
Gli abbracci spezzati
Leonia come Palermo
venerdì 20 novembre 2009
SULLA FELICITA' E DINTORNI
giovedì 19 novembre 2009
Cara Natalia,
(Testo ripreso in: Maria D'Asaro, Una sedia nell'aldilà, Diogene
Multimedia, Bologna, 2023)
https://www.lafeltrinelli.it/sedia-nell-aldila-libro-maria-d-asaro/e/9788893632492
https://www.mondadoristore.it/Una-sedia-nell-aldila-Maria-D-Asaro/eai978889363249/
https://www.libreriauniversitaria.it/sedia-aldila-asaro-maria-diogene/libro/9788893632492
https://www.ibs.it/sedia-nell-aldila-libro-maria-d-asaro/e/9788893632492
lunedì 16 novembre 2009
SOTTOBRACCIO
Un qualunque sabato pomeriggio, in una strada affollata del centro storico: lui, che non supera il metro e sessanta, è un signore dall’età incerta – potrebbe avere cinquant’anni ma anche settanta - gambe sbilenche e un po’ arcuate, lunghi calzini marrone che terminano in un antiquato paio di sandali, camicia aperta su canottiera d’ordinanza, passo fermo e sicuro, sguardo concentrato in avanti, occhi semichiusi. Sulle spalle una bambina bellissima, treccine chiare e occhi celesti, che tiene strette le mani sulla testa dell’uomo-nonno. Sotto il braccio destro una donna/moglie dallo sguardo un po’ perso, vestito a fiori un pò stinto, passo più incerto e malfermo. Sotto il braccio sinistro, un filone di pane appena comprato.
Li guardi e pensi che per fortuna l’amore liquido teorizzato da Bauman non li ha attraversati: il trio ti suggerisce sapienza antica, solidarietà profonda, amore tenace. E ti senti più contenta: Palermo, per fortuna, è anche questo.
Maria D’Asaro
(“Centonove”: 13.11.09)
domenica 8 novembre 2009
CHIUSURE A DOPPIA MANDATA
Col morto in casa, dimentichiamo la paura dei ladri, i chiavistelli contro zingari ed extracomunitari, gli spioncini per chiudere l’ingresso a Testimoni di Geova e a vicini indesiderati. Mi domando allora se le chiusure a doppia mandata, con cui abitualmente ci barrichiamo nelle nostre case, non siano solo la barriera - inutile e forse dannosa - con cui tentiamo di nascondere a noi stessi l’origine autentica e impronunciabile della nostra angoscia e di nominare le nostre paure più profonde: la paura di essere soli, la paura di morire.
Ma se non possiamo chiudere la porta alle nostre angosce più vere, per cosa e per chi è il caso di sprangare l’uscio di casa?
Maria D’Asaro
(“Centonove”: 6.11.09)
venerdì 6 novembre 2009
Siamo perduti, ma...
“Che questa spaventosa avventura degli esseri umani, che arrivano, ridono, si muovono e poi all’improvviso non si muovono più, che questa catastrofe che ci attende non ci renda teneri e pietosi gli uni con gli altri, questo è incredibile.” Albert Cohen
mercoledì 4 novembre 2009
What's your name?
Mariantoniè, la chiamava con tono squillante e affettuoso a ‘za Saridda ‘a putiara, zia in verità solo di Antonietta, compagna di scuola. Infatti, nel suo villaggio, tutte erano zie di qualcuno/a. Mariantonietta tutt’attaccato era il nome con cui la chiamavano le cuginette per distinguerla da Maria, cugina maggiore.
Col trasloco dal piccolo borgo natìo, il secondo nome fu avvolto e impacchettato con la trottola il triciclo il bambolotto con gli occhi spenti. Ma a spacchettarlo in città furono solo mamma, papà, le zie e nonno Turiddu, che ripeteva spesso “Mariantonietta ‘nna facemu ‘na briscola?”. A scuola Antonietta non arrivò mai. Per compagne e insegnanti ci fu solo Maria, attenta e studiosa come voleva papà.
Con le nozze e l’avvento della nuova famiglia Maria si trasformò in Mary: Mary di qua, Mary di là, Mary a destra e Mary a sinistra per suoceri, marito, cognati e cognate e persino ziaMary per i nipoti. L’assenza di una vocale era mancanza e leggerezza insieme: un po’ ragazza delle pulizie e un po’ Mary Poppins.
Credeva ormai di essere Mary per sempre, invece nuove nascite e morti alchemiche bussavano al suo cospetto: Maruzza moriva per sempre, nasceva Maridas, che coltivava cerchi di famiglie e sogni nonviolenti, come Lanza del Vasto/Shantidas, a cui aveva copiato ritmo e suono finale.
Intanto a scuola erano nate le gemelline Mara e Mari, accudite da colleghi pietosi.
La Terra Santa
Una volta ti dissi:
non arrabbiarti, amore,
s’io sono diversa.
Forse sono una colonna di fumo,
ma la legna che sotto di me arde
è la legna dorata dei boschi,
e tu non hai voluto ascoltarmi.
Guardavi la mia pelle candida
con l’incredulità di un sacerdote,
e volevi affondarvi il coltello
e così la tua vittima è morta
sotto il peso della tua stoltezza,o
malaccorto amore.
Prendevo in giro l’ebrietà della forma
e sapevo che ero di lutto,
eppure il lutto mi doleva dentro
con la dolcezza di uno sparviero.
Quante volte fui scoperta e mangiata,
quante volte servii di pasto agli empi;
e anche tu adesso sei empio,
o mio corollario di amore.
Amai teneramente dei dolcissimi amanti
Senza che essi sapessero mai nulla.
E su questi intessei tele di ragno
e fui preda della mia stessa materia.
In me l’anima c’era della meretrice
Della santa della sanguinaria e dell’ipocrita.
Molti diedero al mio modo di vivere un nome
E fui soltanto una isterica.
Ogni mattina il mio stelo vorrebbe levarsi nel vento
soffiato ebrietudine di vita,
ma qualcosa lo tiene a terra,
una lunga pesante catena d’angoscia
che non si dissolve.
Allora mi alzo dal letto
e cerco un riquadro di vento
e trovo uno scacco di sole
entro il quale appoggio i piedi nudi.
Di questa grazia segreta
dopo non avrò memoria
perché anche la malattia ha un senso
una dismisura, un passo,
anche la malattia è matrice di vita.
Ecco, sto qui in ginocchio
aspettando che un angelo mi sfiori
leggermente con grazia,
e intanto accarezzo i miei piedi pallidi
con le dita vogliose d’amore.
mercoledì 28 ottobre 2009
Punteruolo killer
giovedì 22 ottobre 2009
SE LA POLITICA ENTRA A SCUOLA
SE LA POLITICA ENTRA A SCUOLA
("Centonove", 16.10.09) Augusto Cavadi
Le piccole virtù
Mi pare che Palermo non brilli né per l’esercizio di grandi virtù e neppure per quelle minute e quotidiane, come il rispetto del turno alla posta, dare la precedenza per strada, non posteggiare in seconda fila, cedere il posto a un vecchietto sull’autobus.
sabato 17 ottobre 2009
OMELIA DEL 20 SETT. 09 - 25° t.o. - Anno B
Questo gesto che fece Gesù di abbracciare un bambino e di dichiarare quello che noi oggi abbiamo ascoltato: “Chi accoglie uno di questi bambini accoglie me e chi accoglie me accoglie il Padre.” E perché è importante quest’affermazione? Perché i bambini, al tempo di Gesù e sino a prima del 1989 – anche se qualcosa prima si era affermato – non erano considerati come soggetti di diritti. Il bambino è per eccellenza la persona che non ha niente. Non ha neppure la parola per lamentarsi, per farsi capire, dipende totalmente dagli altri, qualsiasi cosa gli facciano, l’accetta o la subisce … Ebbene, Dio sceglie come luogo della sua rivelazione e del suo incontro il bambino neonato, il bambino nei primi anni della sua vita, che è privato di tutto e ha bisogno di tutto. Il bambino come disarmo totale della nostra società: perché al bambino ci si presenta appunto mettendosi a terra con lui, togliendo ogni prosopopea, demitizzando ogni costruzione e ci si mette a giocare, a ridere, a pulirlo, a tenerlo allegro, a imparare a parlare …
Gesù sta affermando che Dio va incontrato dove c’è questa situazione di totale privazione di tutto. Ancora più del povero: perché il povero è adulto, può parlare, si può fare sentire, può rivendicare … Ma il bambino è ancora più radicalmente povero: neppure può parlare, è colui che non conta niente … Ai tempi di Gesù non contava niente un bambino, né per la legge, né aveva alcun diritto presso i genitori, che potevano disporne, potevano fare di lui quello che volevano. Certo, il senso materno e il senso paterno ci sono sempre stati, ma il bambino non contava niente.
E Gesù vuole demitizzare ogni forma di potere mettendoci in ginocchio dinanzi ai bambini. Per la Chiesa Gesù ipotizza una ricchezza di relazioni dove chi vuol esser primo deve essere colui che serve gli altri, in greco si dice diacono, cioè colui che serve. Non chi comanda, chi dà ordini, no, ma colui che fa le cose, colui che serve. In quest’atteggiamento di servizio, non ci passa neppure per la mente quella che san Giacomo denunzia come la radice di ogni male, e delle guerre e delle inimicizie in particolare.. Da dove nascono le guerre? Noi ci possiamo mettere fuoco, ci possiamo ricamare tutto quello che vogliamo … ma quasi sempre esse sono l’esplosione delle passioni individuali e collettive, delle brame, del voler possedere sempre di più. “E’ l’invidia sino a ottenere tutto, che fa si che voi combattete e fate guerra” ci dice san Giacomo, mettendo a nudo tutte le ns. ideologie. Se servisse ai bambini, se la nostra vita fosse un servizio ai bambini, non ci sarebbe per nessun pensiero di guerra, per nessuna prevaricazione di dominio.
E allora, anche il testo della sapienza ci invita a resistere alla tentazione del dominio. Dobbiamo ripartire da terra, accanto ai bambini. E credo che la figura di Maria addolorata ci riporta proprio all’idea, come noi diciamo in dialetto per indicare l’uomo, utilizziamo un’espressione molto bella, che è antimaschilista questa volta, noi per dire bambino o uomo diciamo “Stu fighhiu di madri, figlio di madre …. (Anche Gesù è figlio di madre, Giuseppe c’entra in un altro modo!) Figlio di madre per dire che la madre, più di ogni altra persona – certo anche i papà per carità, me ne guarderei bene dal togliere loro il ruolo, la genitorialità è condivisa, è unica – ma dico le madri in modo particolare ci pensano che non si deve fare niente contro un figghio di madre … Il dolore di Dio riflesso anche sul dolore di Maria è il dolore per tutto quello che si fa contro i figli di madre. A partire dai più piccoli.
E allora, facciamo festa … Ma come si può fare festa con l’Addolorata? Potrebbe sorgere questa domanda, è una festa o non è una festa? Facciamo festa, nel senso che proprio guardando Maria che rappresenta ogni madre e ogni figlio di madre noi vogliamo allontanare ogni dolore provocato da noi.
L’unico modo di fare festa è, appunto, togliere dolore dall’umanità sofferente. Così ha senso che noi possiamo festeggiare anche l’Addolorata: non per esaltare il dolore, quando è inevitabile e molte volte è inevitabile perché ha a che fare con l’amore, con il dono, con la disponibilità verso gli altri, tutto questo richiede impegno, sacrificio, d’accordo, ma c’è tanto dolore inutile, stupido e assurdo che è provocato soltanto per fare del male.
E allora ben venga l’Addolorata per ricordarci, per richiamarci a questa disponibilità che abbiamo verso ogni figlio di madre, verso ogni persona che troviamo nella sofferenza. Per liberarlo. E così alleviare anche la sofferenza di Dio e con quella di Dio - Dio che porta dentro di sé ogni sofferenza umana - anche la sofferenza che ha potuto subire questa donna partecipando alla morte del figlio.
venerdì 16 ottobre 2009
AMORE DOPO AMORE
mercoledì 14 ottobre 2009
IAIA VANTAGGIATO INTERVISTA LUISA MURARO
[Dal quotidiano "Il manifesto" dell'11 ottobre 2009 col titolo "Ci siamo eci saremo" e il sommario "Nelle pieghe del Berlusconigate, quello che accade fra sessualita' e politica e che la politica non vede. Luisa Muraro: 'Il movimento femminista non e' a disposizione della sinistra'"]
lunedì 12 ottobre 2009
Calvino e i rifiuti: lettera a 'Repubblica'
domenica 11 ottobre 2009
IDA DOMINIJANNI: DUE COSE CHE SCIOLGONO IL CERONE
venerdì 9 ottobre 2009
Cara Sally
“Ma quand’è che scriverai qualcosa su di me?” , mi chiedevi col tuo sorriso da scoiattolina, leggendo allegramente le mie cose. Ma si, lo avrei fatto, ti promettevo scherzando ..
Ecco, ora scrivo di te. Costretta da Atròpo, la più crudele delle Parche, che ha permesso a un mostro dal nome impronunciabile di giocare a Risiko con le cellule del tuo cervello. E tu, splendida ragazza quarantenne che adorava la vita, medico brillante e poliedrico, hai perso la partita.
Per molto tempo non sono riuscita a piangere la tua morte. Massi invisibili impedivano alle mie vene di pulsare e alle mie lacrime di scorrere. Non mi rassegnavo alla realtà. Papà. Poi mamma, quasi all’improvviso, solo un anno prima …. E adesso anche tu. No, non era possibile. Tu, la mia sorellina, la piccolina che avrei voluto proteggere da tutti i mali del mondo…
Col vestitino bianco a pois rossi e col tuo sorriso candido e fiducioso, saltellavi attratta dal miraggio di una bella foto. Io però lo sapevo: ad aspettarti non c’era un flash, ma l’orco cattivo di una dolorosa tonsillectomia. Per giunta senza preavviso e con poco anestetico. Io lo sapevo: non so se si fossero presi la briga di parlarmi o se avessi intercettato parole, preparativi, e quella premura eccessiva di parenti e vicini...
Io lo sapevo: non so cosa avrei fatto per strapparti a quella doppia crudeltà... Intuivo che la menzogna con cui ti portavano, ignara, alla tonsillectomia era ancora peggiore della pur traumatica operazione.
Potevo fermarli? Nonostante la rabbia e il dolore per l’odioso l'inganno che stavi subendo, ero schiacciata dalla mia impotenza di bambina. Avevo solo cinque anni. E tu appena tre.
Succede però che l'impotenza di allora si sommi a successive e meno giustificabili inerzie: non ti ho trattenuta neppure davanti al problematico legame con G. Sei arrivata alle nozze con una baldanza sospetta, un'allegria esagerata e infelice, uno strano sorriso. Quella non era la Sally che conoscevo. Era l’orgogliosa Giovanna d'Arco che rideva del suo martirio...
Avrei potuto fermarti? Non so: so però di serbare il rimorso di non averti aiutato a smascherare il pifferaio di turno che tramava a tuo danno.
Atropo ha tagliato il filo il 13 settembre. Ma la vita ci aveva separate ben prima.
A vent’anni il lavoro mi ha portato in un’altra città. E tu hai dovuto gestire da sola i complessi rapporti con papà e mamma. E ti sei trovata, titubante ed afflitta, a tradurre da sola le astruse versioni di latino…
Quando nella mia vita è entrata un’altra persona, quasi quasi ti sei sentita tradita. Come se la sua presenza potesse spezzare la nostra antica sintonia. Così ti sei rinchiusa con Branduardi nella stanza ombrosa della solitudine. Poi è toccato anche te: un Cupido strabico e dispettoso ti ha convinto a iniziare un incerto rapporto di coppia.
Infine, dottore in medicina con due specializzazioni all’attivo, hai capito che nella Palermo dei baroni non c’era posto per te. Hai messo in valigia i tuoi sogni e la tua voglia di guarire i ciliegi malati. E te ne sei andata. Millecinquecento chilometri lontana.
Allora è stato più difficile. Nuovi, inediti scenari nella tua vita. E nella mia. Comunque, eri sempre la mia sorellina.
Ma quando mamma ci ha lasciate, la distanza si è acuita. La tua totale sicurezza per l’aldilà, per esempio. Dicevi che, sì, mamma aveva parlato con te. Lei che era morta. A volte mi facevi paura. Per le tue capacità medianiche, per la tua fede inossidabile. Paura delle tue indiscutibili sicurezze. Delle tue inedite scelte di vita. Ho capito che ti stavo perdendo.
Forse mi sono arresa troppo presto. Alla tua intransigenza, alle tue certezze, ai tuoi progetti cangianti. Forse sono stata incapace di correrti appresso. Per una sorta di negligenza, per una certa indolente pigrizia, per il mio innato scetticismo metafisico, chissà… O per la mia costituzionale incapacità di coinvolgimento totale e profondo, per la mia infantile distrazione, il mio non prendere niente mai troppo sul serio… Come quando, incurante, mi facevo uno shampoo, mentre tu parlavi, accorata, di cose serie e importanti.
Nel tuo nuovo mondo facevo fatica a entrare. Era una fortezza della quale non avevo la chiave.
“Mi manca il sole della Sicilia…”ripetevi dopo l’inutile intervento chirurgico, e alla fine, quando le cellule assassine sferravano l’attacco vincente.
Saresti voluta tornare. Chissà se il sole della Sicilia avrebbe potuto fare il miracolo: spezzare l’assedio e farti di nuovo sorridere … O chissà se una terapia d’urto di sole artificiale avrebbe mai potuto arrestato il mostro. E invece l’oltraggio si è consumato: sei stata uccisa, impotente, proprio dai mostri che per vent’anni avevi fronteggiato.
Perché?
Sai, sorellina, a volte sono persino arrabbiata con te: questa cosa di morire proprio non me la dovevi fare. Mi chiedo se solo ti avessi convinta ad anticipare i controlli, se ti avessi convinta a fare la chemio. Domande stupide, senza senso, lo so. Tu, e io con te, speravamo che Qualcuno facesse il miracolo. Ma il miracolo non c’è stato. E io sono scappata. Lasciandoti sola con l’ospite ingombrante e inatteso.
Magari adesso stai bene. E abiti la Luce in cui fermamente credevi.
Io no. Non sono più figlia. E nemmeno sorella. Pur se elemosino a destra e a manca sorelle e fratelli adottivi. Mi sento sperduta. Una pianta priva di luce e con le radici spezzate. Che vivacchia senza entusiasmo. Senza sicuri orizzonti di senso.
Ascolto il nostro Guccini: “…A che cosa è servito vivere, amare e soffrire, spendere tutti i tuoi giorni passati, se così presto hai dovuto partire …”Già, il nostro vecchio, caro Francesco. Lo hai scoperto tu, a 16 anni, ascoltando di notte le radio libere. Mentre io, amante di Morfeo, ronfavo alla grande. E mi dicevi, entusiasta: “Sai, fa proprio belle canzoni, un certo Francesco Puccini. No, forse Guccini”. Eravamo già incantate da De Andrè. Ci siamo presto innamorate di Guccini. La musica, nella nostra sostanziale solitudine, ci faceva compagnia.
Da ragazzine avevamo le stesse passioni. Gigi Riva e novantesimo minuto, le nuotate a Mondello, La freccia nera. E prima Rintintin e I Forti di Forte Coraggio e le briscole col nonno. E gli scherzi serali, e i lunghi sguardi affettuosi. Poi la musica, la pallavolo, l’impegno a Ballarò. Con don Rocco e i bambini che nessuno voleva. E che tu portavi al mare. Non uno di meno. Senza risparmio, senza ferie. Niente Ustica. Niente viaggi.
Tanto studio e tanto lavoro a casa, per aiutare mamma e papà.
Poi le università tanto diverse: tu medicina, io filosofia. Ma, al rientro dalla banca e dalle visite in corsia, ci ritrovavamo sul vecchio divano. Tu, col testo di anatomia patologica, io Lukàcs o un testo di sociologia. Con un immancabile sottofondo musicale. Se non gli amati cantautori, magari gli Inti-Illimani. Oppure Bach, Beethoven, Cajkovskij, Rimsky-Korsakov.
Nella stanza-rifugio, ci legava quella complicità speciale che rendeva magico il nostro stare insieme … Ridevamo per niente: per il sale dei Baruya, e i riti complicati che studiavo in antropologia, per le definizioni assurde dei tuoi libri o solo perché imitavi zia L. e il suo modo buffo di scendere le scale…. All’improvviso, lasciavi il libro e ti lasciavi catturare dalle luci suggestive del tramonto, che sfumava i contorni di monte Cuccio e illuminava d’oro i ghirigori delle nuvole.
E presa da un urgenza di cui tu sola intuivi la ragione, prendevi la Polaroid: “Mari, questi colori sono stupendi… dobbiamo fotografare..” A fissare un’armonia che tra poco avremmo perso per sempre.
Perché te ne sei andata?
E’ una lotteria crudele: non so proprio dove mettere la x…
Eri forse troppo stanca per il fallimento del matrimonio, per la fatica del lavoro o per il continuo girovagare alla ricerca di orti da coltivare, di nuovi pensieri, di nuove o vecchie salvezze in cui credere?
C’era, come afferma qualcuno: “Un disegno di Dio, straziante e incomprensibile, ma necessario, visto che Lui è giustizia e misericordia infinita”?
Perché, scelto nel misterioso carosello di vite pregresse, il tuo karma t’imponeva quel doloroso passaggio?
Ma forse te ne sei andata così, senza un particolare perché. Perché si muore, in un modo o nell’altro. Prima o poi. E quella era la fine iscritta nei tuoi cromosomi. Forse è solo la nostra disperata voglia di senso a farci credere che ci sia una spiegazione alla casualità crudele del fato.
E’ che non riesco a rassegnarmi. Mi manchi, sorellina. Mi manca il tuo affetto senza se e senza ma. A chi farò leggere le sciocchezze che scrivo? Chi mi dirà: “E’ bello leggerti, mi pare di esserci dentro…”
Chi mi aiuterà a strappare dall’oblìo i nostri comuni brandelli di vita?
Chi mi curerà e mi consolerà se sto male?
Chi mi darà un buffetto affettuoso quando ne avrò bisogno?
A quale giocherellona vecchia cara buona zia Sally potranno rivolgersi i miei figli?
No, cara Sally, questo gioco non mi piace.
Da piccole giocavamo a fare i grandi traslochi, ci trasformavamo in Dino e Loredana, inventavamo fratelli e sorelle inesistenti. Forse per colmare l’eccesso di silenzio, la mancanza di mamma e papà, per riempire di presenze le nostre stanze troppo grandi e troppo vuote.
Ma il gioco di morire, questo no, non lo abbiamo mai fatto.
A chi telefonerò la sera, per sentire una corrente calda d’affetto, per sorridere dell’ennesima tua parolina storpiata? Chi mi intratterrà su un’imminente Apocalisse, proprio ora che, dopo il crollo delle Twin Towers, l’apocalisse potrebbe esserci veramente?
Il cuore vorrebbe crederti viva. Magari in un paese sconfinato a completare il tuo cammino di perfezione spirituale.
O quel che resta di te è solo sotto le ali dell’angioletto bianco, accanto alle spoglie di mamma?
Lo sai, Guccini dei morti diceva che rimane “Solo qualcosa che volò, nell’aria calma e poi sparì, per dove non sapremo mai, mai, mai…” Ma io non sono una mistica, lo sai.
Non amo le visioni, i contatti paranormali, le certezze dogmatiche. Sono innamorata della creaturalità, della carne tenera dei neonati, della brezza del vento, della sensazione di caldo e di freddo sulla pelle.
Mi piace sentire un bambino che ride, mi commuovo con qualcuno che piange.
Forse sono ferma ai lirici greci, che gioivano per la luce del sole e pensavano con tristezza alle ombre senza fine dell’Ade. Tu eri molto più avanti: “Qui siamo solo di passaggio, il corpo è solo un vestito pesante che ci impedisce viaggi più luminosi.” Cara sorellina, forse eri già di là. E io non l’avevo capito.
Forse, tra noi due, la piccolina ero io. Sempre alla ricerca di una mano da stringere.
Ci rincontreremo?
Chi lo sa, ma non sarà la stessa cosa. Si, so cosa penseresti: non devo sprofondare nelle sabbie mobili del rimpianto e della nostalgia, devo guardare avanti.
Ma tu corri sempre, mi precedi. Di troppo. Io invece avrei tanto voluto invecchiare allegramente con te e sentirti ancora borbottare, a cent’anni, contro le porcate della scienza e le scorrettezze negli ospedali. E magari celiare sul biondo senile dei miei capelli….
E invece no. Tu sei rimasta ragazza per sempre. A me toccherà, forse, invecchiare da sola.
Posso solo augurarti buon viaggio, sorellina.
Ma se puoi, per favore, abbracciami ancora. Non ce la faccio, da sola.
giovedì 8 ottobre 2009
OMELIA DEL 27.9.09 26° t.o. B
(Mi definisco, al contrario dei più, una cattolica poco credente, ma praticante.
Apprezzo molto le omelie di un mio amico prete, don Cosimo, che spesso registro e trascrivo)
E allora? Oggi scegliamo quello che ci compete, domani diremmo un’altra cosa, magari esattamente il contrario? Lasciamola perdere questa domanda, come interpretare il testo di Luca: diciamo solo che quando si pone il problema dell’appartenenza si tende a sviluppare quest’aspetto, quando si pone l’accento sulla comunità, si tende a coltivare quello che c’è dentro la comunità…
Ma quando ci poniamo la domanda dell’identità, del ns. appartenere a Cristo, e di Cristo che appartiene a tutta l’umanità, allora l’orizzonte è enorme. Queste persone stavano guarendo qualche persona, come ascoltiamo nella prima lettura, profetizzavano, e Mosè disse: “Lasciateli profetizzare, magari tutti annunciassero parole sante, magari tutti guarissero, facessero del bene agli altri..”
Ecco il Vg. di oggi credo che ci apre il cuore all’immensità dell’amore che Dio ha per tutta l’umanità, nessuno escluso, ma tutti inclusi. Non possiamo pensare che la Chiesa sia lo spazio ritagliato per differenziare chi è chiamato alla salvezza e chi aderisce ad essa, e chi non lo è. Il giudizio su questa situazione non compete a noi. Noi sappiamo che Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi. E per vie anche a noi sconosciute. Lui farà in modo di potere raggiungere il cuore di ogni uomo.
Quello che ci dice oggi il Vg. è dinanzi a ogni persona apriamo il cuore alle cose belle, alle cose buone di cui ognuno è portatore, perché Dio lo ama, perché Dio lo vuole salvare, perché Dio ci parla anche attraverso le persone che a noi sembravano così improbabili per il ns. incontro con Dio. Il Vg. di oggi ci fa comprendere che la Chiesa non è il luogo solo dell’appartenenza dei salvati, ma è il luogo dove si proclama che Dio lavora nel cuore di tutti gli uomini. Quindi che la Chiesa è più grande di se stessa, e che ha questo compito di allargare, anzi di non avere porte chiuse, di non avere recinti, ma di tentare di entrare in sintonia con l’amore infinito che Dio nutre per tutti i suoi figli.
E allora siamo invitati a imparare da chiunque, a non pretendere di essere detentori o solo proclamatori unici ed esclusivi di verità. Questa è idolatria. Nessuno di noi, mi auguro, può pretendere di essere possessore, semmai cerca di farsi possedere dalla verità. Ma gli elementi della verità non sono possedibili, semmai ci mettiamo ogni giorno alla ricerca della verità …
Gesù Cristo, che è colui al quale vogliamo appartenere perché Lui appartiene alla nostra umanità ed è questo altro orizzonte di Dio a noi nella sua carne e nel suo Vangelo, Gesù Cristo è colui che ci apre continuamente gli orizzonti verso il mondo intero, con la sua parola, l’annuncio anche in maniera incomprensibile a noi nel cuore di ogni creatura.
E quindi la I lettura, ecco, ci fa respirare veramente. Il brano che segue potrebbe far sorgere un’altra domanda: “Ma noi dobbiamo dare un bicchiere d’acqua nel nome di Gesù, non nel nome della persona che ce lo chiede? Questa potrebbe essere una limitazione? No: nel nome di Gesù significa che noi riconosciamo in ogni persona che incontriamo Dio stesso che ha bisogno di noi, che ci chiede di riconoscerlo nella persona che stiamo incontrando. Come a dare un valore divino a ogni persona che può avere bisogno di noi. Anche qui non è in senso, potremmo dire, confessionale o esclusivo, che viene invocato o viene chiamato in causa il nome di Gesù, ma in senso inclusivo: cioè Dio ci incontra, o si lascia incontrare, attraverso le persone più disparate, che fanno parte della ns. vita, della ns. storia. E anche più ampie della ns. storia, persone che forse non incontreremo mai.. Ma ciò nonostante sappiamo che Dio è presente nel cuore di ogni uomo, nonostante tutto.
E così, l’esortazione di san Giacomo di oggi, questa invettiva contro i ricchi, al di là del tono, fortemente quasi apocalittico che ha nel testo… ma chi per davvero nella storia è riuscito sempre a prendere le difese del povero, della persona sfruttata, del lavoratore che non vien pagato come meriterebbe, come gli spetterebbe … Riconosciamo, proprio nel nome di questa parola di Dio, quante volte hanno preso difesa o si sono fatti portatore del lamento della vita offesa, anche persone che non erano credenti, che non si professavano credenti. E abbiamo imparato, dobbiamo imparare anche da loro.
Quindi accogliere Gesù Cristo significa aprirsi ad accogliere la sua immensità, senza chiuderla mai in quella che è la nostra limitatissima esperienza di conoscenza e di amore, limitatissima, con mille equivoci, che ci portiamo dalla storia, quante ambiguità hanno accompagnato l’accoglienza e l’annunzio del Vg… E sono convissute con sfruttamenti, guerre, violenze… anche all’interno della Chiesa. E ciò nonostante continuiamo a restare dentro il seno materno di questa Chiesa, che è tanto più materno tanto più appunto sa riconoscere l’immensità del suo Signore…
E allora continuiamo questa celebrazione lasciando aperto il Vg., aperto il Vg., il libro perché ci insegni a metterci in cammino continuamente, senza atteggiamenti di presa di possesso, di dominio, di padronanza … Continuiamo ad annunciare che Gesù Cristo è per noi non solo la verità, ma anche il criterio per potere discernere l’immensità della sua presenza ovunque essa si doni a noi, dal volto sofferente, al bambino che ci parla e vuole essere ascoltato, alla persona così apparentemente lontana dal regno di Dio e che invece ci ha detto una cosa importante, ci ha insegnato una cosa bella.
martedì 6 ottobre 2009
Cara Giuliana,
Giuliana Saladino |
La lettera è stata ripubblicata, nel giugno 2023, in:
Maria D'Asaro, Una sedia nell'aldilà, Diogene Multimedia, Bologna, 2023
https://www.mondadoristore.it/Una-sedia-nell-aldila-Maria-D-Asaro/eai978889363249/
STAGIONI
Le fitte al petto, la febbre continua, le ustioni del corpo e quelle dell’anima, tutti i mali che le ballavano attorno e la circondavano con un girotondo crudele, adesso, se non scomparsi, si erano ritratti in luoghi lontani. Da cui, è vero, continuavano a ruggire, ma lei ne avvertiva solo l’eco sordo, attutito. Come il rumore dei tuoni che brontolano inoffensivi, quando a ovest è già spuntato il sereno. Come il retrogusto amaro di un incubo notturno, cancellato dal buon odore del caffè del mattino.
Come è successo, si chiese. Quali frangiflutti avessero vinto l’onda di dolore che rischiava di travolgerla.
Se le mille tisane odorose, se i fiori sbocciati dal nulla, se i sorrisi premurosi delle amiche. Se l’incoraggiamento misterioso degli angeli. Se la carezza silenziosa degli antenati. Forse tutti questi rimedi insieme. O forse niente.
Forse, semplicemente, l’attacco del virus non era mortale. Forse il morbo aveva esaurito la sua carica velenosa. O forse le sue cellule avevano finalmente capito che il morbo era altro. Un estraneo. Da tenere lontano. Da collocare nei suoi confini.
Allora poteva alzarsi. Poteva di nuovo guardarsi allo specchio. Poteva sorridere. Poteva indossare la sua maglietta più bella e prepararsi all’appuntamento. E dire alla sua nuova vita: “Sono pronta. Sto bene” (…)
lunedì 21 settembre 2009
MIAGOLIO
martedì 15 settembre 2009
Caro papà
Caro papà,
da quando non ci sei, il 12 febbraio è un giorno come gli altri. Anzi più triste. Mi manca il tuo modo speciale di farmi gli auguri, quando, con il sorriso consueto che ti illuminava il viso, mi regalavi una storia. “Raccontini”: così chiamavi le tante storie che mi narravi quando mamma lavorava, ed eri tu a badare a me. Per il mio compleanno c’era l’iterazione di una storia che per me aveva un sapore speciale: C’era una volta … un papà, un papà sarto che aveva lavorato sino a notte, perchè aveva dei vestiti da consegnare. Aveva appena poggiato la testa sul guanciale, quando la moglie lo chiama perché sente che la loro creatura sta per nascere. Lui si riveste in fretta e corre a chiamare la levatrice, la nonna, la zia e qualche vicina. La bimbetta nasce miracolosamente in pochi minuti, come in una bella favola: è minuta, ma sanissima e allegra. Sana, anzi: "Sansera", “'Na bedda pupidda”, aveva esclamato nonna Antonina, compiaciuta. "Quel giorno a Giuliana c'era un cielo azzurro e terso, un sole tanto caldo e una temperatura così mite che sembrava già primavera: pensa che non ho neppure indossato il cappotto!" – continuavi, raggiante. Se c’era, mamma a questo punto, con la sua ironia e i suoi piedi per terra, interveniva stemperando la tua celebrazione: "Era tanto contento tuo padre che a momenti chiedeva di far suonare le campane per te ...”
Chissà se sapevi quanto questo racconto scaldasse miracolosamente la mia anima!
Il tono affettuoso, l'atmosfera evocata, la luminosità della tua narrazione trasformavano la mia nascita in un evento magico e speciale. Una favola lieta, di cui ero la fortunata protagonista: la principessina tanto attesa e tanto amata, dopo la morte dolorosa del mio fratellino.
Due mesi prima della tua morte, dopo una serrata discussione sui possibili intrecci tra mafia e politica nella Giuliana del dopoguerra e degli anni '50, mi complimentai con te per la tua ferma opposizione all'inserimento di un noto mafioso locale nella lista dei candidati democristiani per le elezioni del Consiglio comunale. Allora, con tono stanco e triste ma deciso, sussurrasti: “Tu e tua sorella non avete conosciuto vostro padre". Vero. Come molti figli, ho sprecato la possibilità di conoscerti davvero e di apprezzarti, di capire di che stoffa fossi fatto. Quanto valessi, me l’hanno restituito i ricordi e le parole della gente che ti ha conosciuto.
E ho capito troppo tardi quanto tu fossi importante per me. Prima ero troppo acerba, ribelle e distratta, forse come tutte le figlie del mondo. Come canta Guccini, "ti scivolavo accanto, senza afferrarti"…
Da piccola, a volte, ti sentivo troppo severo e esigente. "Non bisogna transigere; bisogna obbedire" oppure "Tu sei grande e devi capire: non fare capricci", erano frasi tipiche del tuo repertorio educativo nei miei confronti. Da grande ho compreso che il tuo rigore era forse solo lo schermo di una tua fragilità … Non deve essere stato facile assumere, a quasi 50 anni, il ruolo di padre - e spesso anche di madre - di due bimbette arrivate una dietro l'altra. Con mamma sempre occupata a bilanciare i conti in ufficio, a rigovernare la casa, o a stare dietro alla sua salute incerta.
Così eri tu a occuparti di me. Mentre tagliavi e cucivi, m'insegnavi anche con pazienza a leggere e a scrivere. "La ‘a’ devi farla più tonda ... Sì, la ‘elle’ va bene...va bene pure la ‘c’...forse la ‘e’ è difficile da tracciare, non preoccuparti, ci proverai domani..." Ma, prova e riprova, quel pomeriggio, sono riuscita a tracciare sul foglio persino la ‘e’. Così, mentre imbastivi una giacca: "Ti piace papà? E' venuta bene la ‘e’?" E tu, con gli occhi lucidi per la contentezza: "Brava, bravissima..."
Sai, dopo quella letterina tracciata a cinque anni, nessun compito intellettuale mi è sembrato impossibile...
Da ragazza, detestavo la tua personalità tutta d'un pezzo e la tua profonda fede religiosa: le sentivo eccessive e ingombranti. E poi avrei voluto un padre vent'anni più giovane e … venti centimetri più alto... Non sopportavo di somigliarti tanto fisicamente e di essere bassa, come te …
Eppure, quando avevo 15 anni ed ero appassionata di calcio, col Palermo miracolosamente in serie A, tu, che amavi il teatro e la lirica e detestavi le partite, mi accompagnasti allo stadio ad assistere a Palermo-Juventus. Così, orgogliosa e felice, raccontai alle mie compagne che avevo visto Causio battere un calcio d'angolo a due passi da me... Non so quanto tu abbia visto della partita: eravamo quasi sommersi dalla folla e poi ti vedevo muovere continuamente le labbra. Come al solito stavi pregando. Chissà quanti Padre nostro avrai pronunciato durante la partita...Non credo di averti mai detto grazie per avermi portato allo stadio.Solo da grande ho capito che farmi vedere la partita in diretta è stata una delle tue più azzeccate intuizioni pedagogiche, e, soprattutto, un consapevole e gratuito gesto d'amore nei miei confronti.
Non ti sarò mai abbastanza grata per tutto quello che mi hai insegnato di politica.
Tu, la politica l'avevi nel sangue: eri un democristiano ‘doc’ da subito dopo la guerra e, negli anni '50, sei stato anche stimatissimo sindaco di Giuliana. "Ah, si fussi ancora sinnacu don Lucianeddu: era giustu e onestu..."; "don Lucianeddu, ci po'parrari lei cu l'onorevoli, picchì me figghiu è disoccupatu..." Erano le frasi ricorrenti quando la gente ti incontrava a Giuliana...
Ma a vent'anni ho cominciato a contestare la tua inossidabile fede politica e a interrogarmi sulle collusioni, passate e presenti, tra mafia e D.C., sulle accuse di clientelismo rivolte al partito: mi domandavo se davvero l’egemonia dello scudo crociato fosse stato per l’Italia il male minore …
Non capivo perché, negli anni settanta, tu appoggiassi hai appoggiato il ministro Franco Restivo che si era opposto alla proposta di disarmo della polizia ...Tu ascoltavi attento le mie critiche.
All'accusa di essere di destra, ti limitavi a sorridere, ribattendo che avevi detestato Mussolini, ma che non volevi che i terroristi delle Brigate Rosse prendessero il potere. C’è voluto del tempo per capire, semplicemente, che tu eri stato educato negli anni 30, mentre io respiravo ancora l’aria del '68.
Prendevi molto sul serio tutte le mie contestazioni: sul rapporto tra mafia e D.C. mi invitavi a esaminare con attenzione i vari punti di vista. Ad esempio, mi raccontavi che eri perplesso sulle pesanti accuse di Danilo Dolci all'on. Bernardo Mattarella, che stimavi e col quale avevi avuto familiarità. Mi confidasti che allora, mentre era in corso il dibattimento giudiziario a seguito delle accuse di Dolci, una sera, a Palazzo Adriano, suo figlio Piersanti - per il cui assassinio poi, il 6 gennaio del 1980, ci siamo insieme indignati e commossi, "lui si che aveva la stoffa del padre", hai sempre affermato – si intrattenne con te quasi piangendo, e ti chiese, sicuro della cristallinità del tuo giudizio: "Cavaliere, me lo dica lei, se mio padre è mafioso ..."
Ma riconoscevi, con sincera sofferenza, che il problema storico esisteva, morale e politico insieme. Tant'è che ti ho chiesto di raccontarmi quello che sapevi, da fonti di prima mano, intanto sull'origine e la consistenza della mafia agraria e poi, a guerra finita, sulle eventuali collusioni a te note tra mafia, D.C. e sistema di potere.
Troppo tardi: quando affrontammo seriamente l'argomento eri già gravemente ammalato e mi dicesti: "Dopo l'operazione, se vuoi ne parliamo meglio e puoi prendere appunti..." E sì, perché avevo l’ambizione di fare delle tue memorie un libriccino o, almeno, una documentata, anche se artigianale, raccolta di memorie... Ma la tua morte ha lasciato vuoto il mio archivio storico e soprattutto il mio cuore …
Una notazione l’hai sempre espressa con chiarezza: la ferma disistima verso i democristiani siciliani della cosiddetta corrente andreottiana. Una volta – io c’ero - un tale ti chiese di “introdurlo” all'on.Lima e tu, sempre così misurato e prudente nel prendere posizioni, gli dicesti deciso: "Guardi che io da Lima non andrò mai!". Queste tue parole costituirono per me un giudizio politico definitivo, inappellabile. Nel '91, qualche mese prima della tua morte, discutemmo insieme dell’ipotesi giornalistica di un eventuale, paventato coinvolgimento dell'onorevole Lima nell'omicidio di Piersanti Mattarella. Allora, pur con la necessaria prudenza, mi hai detto sommessamente: "No, non credo affatto sia stato capace di tanto... essere tra i mandanti dell’omicidio di Mattarella, questo no, lo escludo decisamente... Ma forse non avrà potuto evitarlo, non è stato capace di impedirlo…".
Eri fatto così: diccì inossidabile, ma il tuo orizzonte di appartenenza era quello di Moro, Dossetti, La Pira. Veramente per te la politica era la più alta forma di carità. Hai vissuto dei grami proventi della tua sartoria prima e del reddito incerto di un’anonima tabaccheria poi. Spesso oggetto di rapine, perché non pagavi il pizzo a nessuno. Se l'entità del conto in banca è un metro valido per stabilire l'onesta di un politico, il tuo conto a zero, era veramente significativo in tal senso.
Mamma diceva che la Democrazia Cristiana ti aveva solo sfruttato: affermava che eri stato tenuto in auge quando, negli anni cinquanta, servivi per contrastare il PCI e la sinistra. Quando, grazie al tuo impegno umano e politico per i poveri, avevi strappato dall’abbraccio con i comunisti decine di braccianti senza speranza e li avevi convinti che anche nella D.C. poteva essere ascoltato il loro grido di giustizia e di uguaglianza.
E poi – soggiungeva amara la mamma – quando il pericolo rosso non c’era più, eri stato "posato" dai notabili del partito (“i ricchi, i maggiorenti”, li chiamava lei, con una nota di malcelato disprezzo).
Come al solito, non reagivi alle sue affermazioni, giuste o sbagliate che fossero: ti limitavi a stringere le spalle, abbozzando un mezzo sorriso, che era più eloquente di tante parole...
A casa ero l'unica a condividere la tua passione per la politica: come te mi piaceva leggere i giornali, ascoltare ogni genere di dibattiti, di tribune politiche e telegiornali. E discutere, appassionatamente, di tutto. Eri autenticamente democratico e non ha mai preteso che votassi D.C.: fresca di diritto di voto, mossa dal tuo esempio e dalle tue convinzioni, ho votato scudo crociato per uno o due anni. Poi, all'inizio degli anni '80, ho cominciato a simpatizzare per la sinistra. “Siete due cuori e un(a) Capanna!” mi dicevi scherzosamente, visto che, col mio fidanzato, allora votavo Democrazia Proletaria. E ancora, venendo incontro alle mie inclinazioni politiche, poichè il muro di Berlino non era ancora caduto e il vecchio P.C.I. tardava a prendere le definitive distanze dall'U.R.S.S. e dal suo pesante fardello ideologico, mi dicevi che, se volevo, potevo collocarmi a sinistra, ma da “testa pensante”, non allineata ai diktat del partito.
E tu, fedele democristiano, mi presentavi i cosiddetti “indipendenti di sinistra”, illustrandomi, con grande acume e generosità, i nomi e il curriculum di tutto rispetto dei “non allineati”, di coloro che, pur eletti tra le fila dei comunisti, non sottostavano ai comandi del Segretario o, peggio, al volere di Mosca.
Le circostanze della vita ti hanno portato a fare il sarto. Il tuo sogno però era di studiare, di laurearti in Lettere o Storia. Quando esprimevo giudizi storici inappellabili verso questo o quello mi invitavi a essere più obiettiva e ripetevi: "Attenzione, bisogna giudicare uomini e cose non col metro dell’oggi, ma in base al contesto e ai parametri del tempo in cui sono vissuti.."
Eri senz'altro un idealista, ma con un sottofondo di grande concretezza. Forse hai un po’ sofferto quando ho lasciato le ottime prospettive offerte dal lavoro in banca per iniziare la molto meno redditizia professione dell'insegnante.
Allora mamma te ne fece una colpa: "Questa è la conseguenza delle idee che le hai messo in testa: se non parlavi tanto di scuola, di studio, di storia e di tutte queste belle cose, sarebbe rimasta in banca, a Palermo, bella sistemata ... Avrebbe fatto carriera, tua figlia." Forse aveva pure ragione! A casa eri quello che stravedeva per i miei studi. Ed eri lusingato e commosso il giorno della mia laurea, ottenuta a fatica studiando di notte, nonostante uscissi stanca dal Banco di Sicilia, dopo aver bilanciato le divise di portafoglio estero o avere assegnato ai clienti i BOT che, negli anni 80, fruttavano sino al 18%. La mia laurea è stata per te anche una sorta di risarcimento per gli studi che avresti voluto fare, ma che l'incerta salute del nonno t'impedì di proseguire.
Ma tu non avevi bisogno di titoli: divoravi libri di ogni sorta: di letteratura, di storia e saggi di sociologia e politica. Riuscivi immediatamente a cogliere il succo di un discorso o di un evento, a capire uomini e cose. E avevi la rara virtù di squadrare, con un solo sguardo, chi ti stava di fronte.
Dire che mi manchi è poco.
Da quando non ci sei è come se mi mancasse l'aria, la voglia di vivere: mi manca la tua presenza affettuosa, la tua capacità di capirmi, la tua saggezza. Mi mancano le tue storie, il tuo humour, la tua sottile ironia.
E poi avevi una straordinaria voglia di vivere: ti piaceva guardare al futuro, eri ottimista e pensavi che avresti visto il Duemila: "In fondo avrò solo 86 anni" ...
Tu, parco e misuratissimo in tutto, da ex sarto ci tenevi allo stile: a 75 anni ordinavi con entusiasmo un'altra giacca e un elegante cappotto di pura lana.
A volte mi chiedo se non siano stati i tuoi bei vestiti nuovi a farti rapire nell'Ade, quasi che gli dei, invidiosi, volessero punirti per il tuo splendido guardaroba e la tua sicura fiducia nel futuro.
In realtà abbiamo sottovalutato i segni del tuo malessere. Forse non abbiamo saputo curarti.
E mi fa ancora male il rimorso di non averti vegliato nella tua ultima notte.
Non ho la tua voglia e la tua capacità di raccontare le storie. Solo al mio terzo figlio ho saputo raccontare qualche storia. Temo anche di non essere un granché come madre.
Eppure, quando mi vedevi stanca e confusa, mi incoraggiavi: "Cerca di essere forte, come Ester, Miriam, Giuditta, le donne forti della Bibbia: .."
Ma non ho la tua fede incrollabile, le tue sicurezze, la tua tenacia, la tua pazienza.
E non ci sei più tu a incoraggiarmi .
Non ci sei più. O ci sei ancora? Ti penso soprattutto la sera, quando guardo il carnevale di nuvole, che il crepuscolo fa danzare in un suggestivo carosello di forme e colori. Mi chiedo in quali lontani spazi siderali tu possa essere e se puoi ancora vedermi.
Alcuni amici ‘new-age’ affermano che il tuo spirito è vivo, ma che potresti avere ormai altri ruoli da svolgere. Forse hai altri compiti da svolgere e non pensi più essere mio padre.
Mentre io, in questa terra, continuo a sentirmi tua figlia. E mi piace pensarti nel Paradiso che meriti. "Finché - magari - non verrà il tempo, in faccia a tutto il mondo, per rincontrarti... “ . come canta Guccini.
Ma adesso “Voglio però ricordarti com'eri, pensare che ancora vivi... voglio pensare che ancora mi ascolti, e come allora sorridi …”