Palermo, 14 settembre 2001
Cara Sally,
“Ma quand’è che scriverai qualcosa su di me?” , mi chiedevi col tuo sorriso da scoiattolina, leggendo allegramente le mie cose. Ma si, lo avrei fatto, ti promettevo scherzando ..
Ecco, ora scrivo di te. Costretta da Atròpo, la più crudele delle Parche, che ha permesso a un mostro dal nome impronunciabile di giocare a Risiko con le cellule del tuo cervello. E tu, splendida ragazza quarantenne che adorava la vita, medico brillante e poliedrico, hai perso la partita.
Per molto tempo non sono riuscita a piangere la tua morte. Massi invisibili impedivano alle mie vene di pulsare e alle mie lacrime di scorrere. Non mi rassegnavo alla realtà. Papà. Poi mamma, quasi all’improvviso, solo un anno prima …. E adesso anche tu. No, non era possibile. Tu, la mia sorellina, la piccolina che avrei voluto proteggere da tutti i mali del mondo…
Col vestitino bianco a pois rossi e col tuo sorriso candido e fiducioso, saltellavi attratta dal miraggio di una bella foto. Io però lo sapevo: ad aspettarti non c’era un flash, ma l’orco cattivo di una dolorosa tonsillectomia. Per giunta senza preavviso e con poco anestetico. Io lo sapevo: non so se si fossero presi la briga di parlarmi o se avessi intercettato parole, preparativi, e quella premura eccessiva di parenti e vicini...
Io lo sapevo: non so cosa avrei fatto per strapparti a quella doppia crudeltà... Intuivo che la menzogna con cui ti portavano, ignara, alla tonsillectomia era ancora peggiore della pur traumatica operazione.
Potevo fermarli? Nonostante la rabbia e il dolore per l’odioso l'inganno che stavi subendo, ero schiacciata dalla mia impotenza di bambina. Avevo solo cinque anni. E tu appena tre.
Succede però che l'impotenza di allora si sommi a successive e meno giustificabili inerzie: non ti ho trattenuta neppure davanti al problematico legame con G. Sei arrivata alle nozze con una baldanza sospetta, un'allegria esagerata e infelice, uno strano sorriso. Quella non era la Sally che conoscevo. Era l’orgogliosa Giovanna d'Arco che rideva del suo martirio...
Avrei potuto fermarti? Non so: so però di serbare il rimorso di non averti aiutato a smascherare il pifferaio di turno che tramava a tuo danno.
Atropo ha tagliato il filo il 13 settembre. Ma la vita ci aveva separate ben prima.
A vent’anni il lavoro mi ha portato in un’altra città. E tu hai dovuto gestire da sola i complessi rapporti con papà e mamma. E ti sei trovata, titubante ed afflitta, a tradurre da sola le astruse versioni di latino…
Quando nella mia vita è entrata un’altra persona, quasi quasi ti sei sentita tradita. Come se la sua presenza potesse spezzare la nostra antica sintonia. Così ti sei rinchiusa con Branduardi nella stanza ombrosa della solitudine. Poi è toccato anche te: un Cupido strabico e dispettoso ti ha convinto a iniziare un incerto rapporto di coppia.
Infine, dottore in medicina con due specializzazioni all’attivo, hai capito che nella Palermo dei baroni non c’era posto per te. Hai messo in valigia i tuoi sogni e la tua voglia di guarire i ciliegi malati. E te ne sei andata. Millecinquecento chilometri lontana.
Allora è stato più difficile. Nuovi, inediti scenari nella tua vita. E nella mia. Comunque, eri sempre la mia sorellina.
Ma quando mamma ci ha lasciate, la distanza si è acuita. La tua totale sicurezza per l’aldilà, per esempio. Dicevi che, sì, mamma aveva parlato con te. Lei che era morta. A volte mi facevi paura. Per le tue capacità medianiche, per la tua fede inossidabile. Paura delle tue indiscutibili sicurezze. Delle tue inedite scelte di vita. Ho capito che ti stavo perdendo.
Forse mi sono arresa troppo presto. Alla tua intransigenza, alle tue certezze, ai tuoi progetti cangianti. Forse sono stata incapace di correrti appresso. Per una sorta di negligenza, per una certa indolente pigrizia, per il mio innato scetticismo metafisico, chissà… O per la mia costituzionale incapacità di coinvolgimento totale e profondo, per la mia infantile distrazione, il mio non prendere niente mai troppo sul serio… Come quando, incurante, mi facevo uno shampoo, mentre tu parlavi, accorata, di cose serie e importanti.
Nel tuo nuovo mondo facevo fatica a entrare. Era una fortezza della quale non avevo la chiave.
“Mi manca il sole della Sicilia…”ripetevi dopo l’inutile intervento chirurgico, e alla fine, quando le cellule assassine sferravano l’attacco vincente.
Saresti voluta tornare. Chissà se il sole della Sicilia avrebbe potuto fare il miracolo: spezzare l’assedio e farti di nuovo sorridere … O chissà se una terapia d’urto di sole artificiale avrebbe mai potuto arrestato il mostro. E invece l’oltraggio si è consumato: sei stata uccisa, impotente, proprio dai mostri che per vent’anni avevi fronteggiato.
Perché?
Sai, sorellina, a volte sono persino arrabbiata con te: questa cosa di morire proprio non me la dovevi fare. Mi chiedo se solo ti avessi convinta ad anticipare i controlli, se ti avessi convinta a fare la chemio. Domande stupide, senza senso, lo so. Tu, e io con te, speravamo che Qualcuno facesse il miracolo. Ma il miracolo non c’è stato. E io sono scappata. Lasciandoti sola con l’ospite ingombrante e inatteso.
Magari adesso stai bene. E abiti la Luce in cui fermamente credevi.
Io no. Non sono più figlia. E nemmeno sorella. Pur se elemosino a destra e a manca sorelle e fratelli adottivi. Mi sento sperduta. Una pianta priva di luce e con le radici spezzate. Che vivacchia senza entusiasmo. Senza sicuri orizzonti di senso.
Ascolto il nostro Guccini: “…A che cosa è servito vivere, amare e soffrire, spendere tutti i tuoi giorni passati, se così presto hai dovuto partire …”Già, il nostro vecchio, caro Francesco. Lo hai scoperto tu, a 16 anni, ascoltando di notte le radio libere. Mentre io, amante di Morfeo, ronfavo alla grande. E mi dicevi, entusiasta: “Sai, fa proprio belle canzoni, un certo Francesco Puccini. No, forse Guccini”. Eravamo già incantate da De Andrè. Ci siamo presto innamorate di Guccini. La musica, nella nostra sostanziale solitudine, ci faceva compagnia.
Da ragazzine avevamo le stesse passioni. Gigi Riva e novantesimo minuto, le nuotate a Mondello, La freccia nera. E prima Rintintin e I Forti di Forte Coraggio e le briscole col nonno. E gli scherzi serali, e i lunghi sguardi affettuosi. Poi la musica, la pallavolo, l’impegno a Ballarò. Con don Rocco e i bambini che nessuno voleva. E che tu portavi al mare. Non uno di meno. Senza risparmio, senza ferie. Niente Ustica. Niente viaggi.
Tanto studio e tanto lavoro a casa, per aiutare mamma e papà.
Poi le università tanto diverse: tu medicina, io filosofia. Ma, al rientro dalla banca e dalle visite in corsia, ci ritrovavamo sul vecchio divano. Tu, col testo di anatomia patologica, io Lukàcs o un testo di sociologia. Con un immancabile sottofondo musicale. Se non gli amati cantautori, magari gli Inti-Illimani. Oppure Bach, Beethoven, Cajkovskij, Rimsky-Korsakov.
Nella stanza-rifugio, ci legava quella complicità speciale che rendeva magico il nostro stare insieme … Ridevamo per niente: per il sale dei Baruya, e i riti complicati che studiavo in antropologia, per le definizioni assurde dei tuoi libri o solo perché imitavi zia L. e il suo modo buffo di scendere le scale…. All’improvviso, lasciavi il libro e ti lasciavi catturare dalle luci suggestive del tramonto, che sfumava i contorni di monte Cuccio e illuminava d’oro i ghirigori delle nuvole.
E presa da un urgenza di cui tu sola intuivi la ragione, prendevi la Polaroid: “Mari, questi colori sono stupendi… dobbiamo fotografare..” A fissare un’armonia che tra poco avremmo perso per sempre.
Perché te ne sei andata?
E’ una lotteria crudele: non so proprio dove mettere la x…
Eri forse troppo stanca per il fallimento del matrimonio, per la fatica del lavoro o per il continuo girovagare alla ricerca di orti da coltivare, di nuovi pensieri, di nuove o vecchie salvezze in cui credere?
C’era, come afferma qualcuno: “Un disegno di Dio, straziante e incomprensibile, ma necessario, visto che Lui è giustizia e misericordia infinita”?
Perché, scelto nel misterioso carosello di vite pregresse, il tuo karma t’imponeva quel doloroso passaggio?
Ma forse te ne sei andata così, senza un particolare perché. Perché si muore, in un modo o nell’altro. Prima o poi. E quella era la fine iscritta nei tuoi cromosomi. Forse è solo la nostra disperata voglia di senso a farci credere che ci sia una spiegazione alla casualità crudele del fato.
E’ che non riesco a rassegnarmi. Mi manchi, sorellina. Mi manca il tuo affetto senza se e senza ma. A chi farò leggere le sciocchezze che scrivo? Chi mi dirà: “E’ bello leggerti, mi pare di esserci dentro…”
Chi mi aiuterà a strappare dall’oblìo i nostri comuni brandelli di vita?
Chi mi curerà e mi consolerà se sto male?
Chi mi darà un buffetto affettuoso quando ne avrò bisogno?
A quale giocherellona vecchia cara buona zia Sally potranno rivolgersi i miei figli?
No, cara Sally, questo gioco non mi piace.
Da piccole giocavamo a fare i grandi traslochi, ci trasformavamo in Dino e Loredana, inventavamo fratelli e sorelle inesistenti. Forse per colmare l’eccesso di silenzio, la mancanza di mamma e papà, per riempire di presenze le nostre stanze troppo grandi e troppo vuote.
Ma il gioco di morire, questo no, non lo abbiamo mai fatto.
A chi telefonerò la sera, per sentire una corrente calda d’affetto, per sorridere dell’ennesima tua parolina storpiata? Chi mi intratterrà su un’imminente Apocalisse, proprio ora che, dopo il crollo delle Twin Towers, l’apocalisse potrebbe esserci veramente?
Il cuore vorrebbe crederti viva. Magari in un paese sconfinato a completare il tuo cammino di perfezione spirituale.
O quel che resta di te è solo sotto le ali dell’angioletto bianco, accanto alle spoglie di mamma?
Lo sai, Guccini dei morti diceva che rimane “Solo qualcosa che volò, nell’aria calma e poi sparì, per dove non sapremo mai, mai, mai…” Ma io non sono una mistica, lo sai.
Non amo le visioni, i contatti paranormali, le certezze dogmatiche. Sono innamorata della creaturalità, della carne tenera dei neonati, della brezza del vento, della sensazione di caldo e di freddo sulla pelle.
Mi piace sentire un bambino che ride, mi commuovo con qualcuno che piange.
Forse sono ferma ai lirici greci, che gioivano per la luce del sole e pensavano con tristezza alle ombre senza fine dell’Ade. Tu eri molto più avanti: “Qui siamo solo di passaggio, il corpo è solo un vestito pesante che ci impedisce viaggi più luminosi.” Cara sorellina, forse eri già di là. E io non l’avevo capito.
Forse, tra noi due, la piccolina ero io. Sempre alla ricerca di una mano da stringere.
Ci rincontreremo?
Chi lo sa, ma non sarà la stessa cosa. Si, so cosa penseresti: non devo sprofondare nelle sabbie mobili del rimpianto e della nostalgia, devo guardare avanti.
Ma tu corri sempre, mi precedi. Di troppo. Io invece avrei tanto voluto invecchiare allegramente con te e sentirti ancora borbottare, a cent’anni, contro le porcate della scienza e le scorrettezze negli ospedali. E magari celiare sul biondo senile dei miei capelli….
E invece no. Tu sei rimasta ragazza per sempre. A me toccherà, forse, invecchiare da sola.
Posso solo augurarti buon viaggio, sorellina.
Ma se puoi, per favore, abbracciami ancora. Non ce la faccio, da sola.
“Ma quand’è che scriverai qualcosa su di me?” , mi chiedevi col tuo sorriso da scoiattolina, leggendo allegramente le mie cose. Ma si, lo avrei fatto, ti promettevo scherzando ..
Ecco, ora scrivo di te. Costretta da Atròpo, la più crudele delle Parche, che ha permesso a un mostro dal nome impronunciabile di giocare a Risiko con le cellule del tuo cervello. E tu, splendida ragazza quarantenne che adorava la vita, medico brillante e poliedrico, hai perso la partita.
Per molto tempo non sono riuscita a piangere la tua morte. Massi invisibili impedivano alle mie vene di pulsare e alle mie lacrime di scorrere. Non mi rassegnavo alla realtà. Papà. Poi mamma, quasi all’improvviso, solo un anno prima …. E adesso anche tu. No, non era possibile. Tu, la mia sorellina, la piccolina che avrei voluto proteggere da tutti i mali del mondo…
Col vestitino bianco a pois rossi e col tuo sorriso candido e fiducioso, saltellavi attratta dal miraggio di una bella foto. Io però lo sapevo: ad aspettarti non c’era un flash, ma l’orco cattivo di una dolorosa tonsillectomia. Per giunta senza preavviso e con poco anestetico. Io lo sapevo: non so se si fossero presi la briga di parlarmi o se avessi intercettato parole, preparativi, e quella premura eccessiva di parenti e vicini...
Io lo sapevo: non so cosa avrei fatto per strapparti a quella doppia crudeltà... Intuivo che la menzogna con cui ti portavano, ignara, alla tonsillectomia era ancora peggiore della pur traumatica operazione.
Potevo fermarli? Nonostante la rabbia e il dolore per l’odioso l'inganno che stavi subendo, ero schiacciata dalla mia impotenza di bambina. Avevo solo cinque anni. E tu appena tre.
Succede però che l'impotenza di allora si sommi a successive e meno giustificabili inerzie: non ti ho trattenuta neppure davanti al problematico legame con G. Sei arrivata alle nozze con una baldanza sospetta, un'allegria esagerata e infelice, uno strano sorriso. Quella non era la Sally che conoscevo. Era l’orgogliosa Giovanna d'Arco che rideva del suo martirio...
Avrei potuto fermarti? Non so: so però di serbare il rimorso di non averti aiutato a smascherare il pifferaio di turno che tramava a tuo danno.
Atropo ha tagliato il filo il 13 settembre. Ma la vita ci aveva separate ben prima.
A vent’anni il lavoro mi ha portato in un’altra città. E tu hai dovuto gestire da sola i complessi rapporti con papà e mamma. E ti sei trovata, titubante ed afflitta, a tradurre da sola le astruse versioni di latino…
Quando nella mia vita è entrata un’altra persona, quasi quasi ti sei sentita tradita. Come se la sua presenza potesse spezzare la nostra antica sintonia. Così ti sei rinchiusa con Branduardi nella stanza ombrosa della solitudine. Poi è toccato anche te: un Cupido strabico e dispettoso ti ha convinto a iniziare un incerto rapporto di coppia.
Infine, dottore in medicina con due specializzazioni all’attivo, hai capito che nella Palermo dei baroni non c’era posto per te. Hai messo in valigia i tuoi sogni e la tua voglia di guarire i ciliegi malati. E te ne sei andata. Millecinquecento chilometri lontana.
Allora è stato più difficile. Nuovi, inediti scenari nella tua vita. E nella mia. Comunque, eri sempre la mia sorellina.
Ma quando mamma ci ha lasciate, la distanza si è acuita. La tua totale sicurezza per l’aldilà, per esempio. Dicevi che, sì, mamma aveva parlato con te. Lei che era morta. A volte mi facevi paura. Per le tue capacità medianiche, per la tua fede inossidabile. Paura delle tue indiscutibili sicurezze. Delle tue inedite scelte di vita. Ho capito che ti stavo perdendo.
Forse mi sono arresa troppo presto. Alla tua intransigenza, alle tue certezze, ai tuoi progetti cangianti. Forse sono stata incapace di correrti appresso. Per una sorta di negligenza, per una certa indolente pigrizia, per il mio innato scetticismo metafisico, chissà… O per la mia costituzionale incapacità di coinvolgimento totale e profondo, per la mia infantile distrazione, il mio non prendere niente mai troppo sul serio… Come quando, incurante, mi facevo uno shampoo, mentre tu parlavi, accorata, di cose serie e importanti.
Nel tuo nuovo mondo facevo fatica a entrare. Era una fortezza della quale non avevo la chiave.
“Mi manca il sole della Sicilia…”ripetevi dopo l’inutile intervento chirurgico, e alla fine, quando le cellule assassine sferravano l’attacco vincente.
Saresti voluta tornare. Chissà se il sole della Sicilia avrebbe potuto fare il miracolo: spezzare l’assedio e farti di nuovo sorridere … O chissà se una terapia d’urto di sole artificiale avrebbe mai potuto arrestato il mostro. E invece l’oltraggio si è consumato: sei stata uccisa, impotente, proprio dai mostri che per vent’anni avevi fronteggiato.
Perché?
Sai, sorellina, a volte sono persino arrabbiata con te: questa cosa di morire proprio non me la dovevi fare. Mi chiedo se solo ti avessi convinta ad anticipare i controlli, se ti avessi convinta a fare la chemio. Domande stupide, senza senso, lo so. Tu, e io con te, speravamo che Qualcuno facesse il miracolo. Ma il miracolo non c’è stato. E io sono scappata. Lasciandoti sola con l’ospite ingombrante e inatteso.
Magari adesso stai bene. E abiti la Luce in cui fermamente credevi.
Io no. Non sono più figlia. E nemmeno sorella. Pur se elemosino a destra e a manca sorelle e fratelli adottivi. Mi sento sperduta. Una pianta priva di luce e con le radici spezzate. Che vivacchia senza entusiasmo. Senza sicuri orizzonti di senso.
Ascolto il nostro Guccini: “…A che cosa è servito vivere, amare e soffrire, spendere tutti i tuoi giorni passati, se così presto hai dovuto partire …”Già, il nostro vecchio, caro Francesco. Lo hai scoperto tu, a 16 anni, ascoltando di notte le radio libere. Mentre io, amante di Morfeo, ronfavo alla grande. E mi dicevi, entusiasta: “Sai, fa proprio belle canzoni, un certo Francesco Puccini. No, forse Guccini”. Eravamo già incantate da De Andrè. Ci siamo presto innamorate di Guccini. La musica, nella nostra sostanziale solitudine, ci faceva compagnia.
Da ragazzine avevamo le stesse passioni. Gigi Riva e novantesimo minuto, le nuotate a Mondello, La freccia nera. E prima Rintintin e I Forti di Forte Coraggio e le briscole col nonno. E gli scherzi serali, e i lunghi sguardi affettuosi. Poi la musica, la pallavolo, l’impegno a Ballarò. Con don Rocco e i bambini che nessuno voleva. E che tu portavi al mare. Non uno di meno. Senza risparmio, senza ferie. Niente Ustica. Niente viaggi.
Tanto studio e tanto lavoro a casa, per aiutare mamma e papà.
Poi le università tanto diverse: tu medicina, io filosofia. Ma, al rientro dalla banca e dalle visite in corsia, ci ritrovavamo sul vecchio divano. Tu, col testo di anatomia patologica, io Lukàcs o un testo di sociologia. Con un immancabile sottofondo musicale. Se non gli amati cantautori, magari gli Inti-Illimani. Oppure Bach, Beethoven, Cajkovskij, Rimsky-Korsakov.
Nella stanza-rifugio, ci legava quella complicità speciale che rendeva magico il nostro stare insieme … Ridevamo per niente: per il sale dei Baruya, e i riti complicati che studiavo in antropologia, per le definizioni assurde dei tuoi libri o solo perché imitavi zia L. e il suo modo buffo di scendere le scale…. All’improvviso, lasciavi il libro e ti lasciavi catturare dalle luci suggestive del tramonto, che sfumava i contorni di monte Cuccio e illuminava d’oro i ghirigori delle nuvole.
E presa da un urgenza di cui tu sola intuivi la ragione, prendevi la Polaroid: “Mari, questi colori sono stupendi… dobbiamo fotografare..” A fissare un’armonia che tra poco avremmo perso per sempre.
Perché te ne sei andata?
E’ una lotteria crudele: non so proprio dove mettere la x…
Eri forse troppo stanca per il fallimento del matrimonio, per la fatica del lavoro o per il continuo girovagare alla ricerca di orti da coltivare, di nuovi pensieri, di nuove o vecchie salvezze in cui credere?
C’era, come afferma qualcuno: “Un disegno di Dio, straziante e incomprensibile, ma necessario, visto che Lui è giustizia e misericordia infinita”?
Perché, scelto nel misterioso carosello di vite pregresse, il tuo karma t’imponeva quel doloroso passaggio?
Ma forse te ne sei andata così, senza un particolare perché. Perché si muore, in un modo o nell’altro. Prima o poi. E quella era la fine iscritta nei tuoi cromosomi. Forse è solo la nostra disperata voglia di senso a farci credere che ci sia una spiegazione alla casualità crudele del fato.
E’ che non riesco a rassegnarmi. Mi manchi, sorellina. Mi manca il tuo affetto senza se e senza ma. A chi farò leggere le sciocchezze che scrivo? Chi mi dirà: “E’ bello leggerti, mi pare di esserci dentro…”
Chi mi aiuterà a strappare dall’oblìo i nostri comuni brandelli di vita?
Chi mi curerà e mi consolerà se sto male?
Chi mi darà un buffetto affettuoso quando ne avrò bisogno?
A quale giocherellona vecchia cara buona zia Sally potranno rivolgersi i miei figli?
No, cara Sally, questo gioco non mi piace.
Da piccole giocavamo a fare i grandi traslochi, ci trasformavamo in Dino e Loredana, inventavamo fratelli e sorelle inesistenti. Forse per colmare l’eccesso di silenzio, la mancanza di mamma e papà, per riempire di presenze le nostre stanze troppo grandi e troppo vuote.
Ma il gioco di morire, questo no, non lo abbiamo mai fatto.
A chi telefonerò la sera, per sentire una corrente calda d’affetto, per sorridere dell’ennesima tua parolina storpiata? Chi mi intratterrà su un’imminente Apocalisse, proprio ora che, dopo il crollo delle Twin Towers, l’apocalisse potrebbe esserci veramente?
Il cuore vorrebbe crederti viva. Magari in un paese sconfinato a completare il tuo cammino di perfezione spirituale.
O quel che resta di te è solo sotto le ali dell’angioletto bianco, accanto alle spoglie di mamma?
Lo sai, Guccini dei morti diceva che rimane “Solo qualcosa che volò, nell’aria calma e poi sparì, per dove non sapremo mai, mai, mai…” Ma io non sono una mistica, lo sai.
Non amo le visioni, i contatti paranormali, le certezze dogmatiche. Sono innamorata della creaturalità, della carne tenera dei neonati, della brezza del vento, della sensazione di caldo e di freddo sulla pelle.
Mi piace sentire un bambino che ride, mi commuovo con qualcuno che piange.
Forse sono ferma ai lirici greci, che gioivano per la luce del sole e pensavano con tristezza alle ombre senza fine dell’Ade. Tu eri molto più avanti: “Qui siamo solo di passaggio, il corpo è solo un vestito pesante che ci impedisce viaggi più luminosi.” Cara sorellina, forse eri già di là. E io non l’avevo capito.
Forse, tra noi due, la piccolina ero io. Sempre alla ricerca di una mano da stringere.
Ci rincontreremo?
Chi lo sa, ma non sarà la stessa cosa. Si, so cosa penseresti: non devo sprofondare nelle sabbie mobili del rimpianto e della nostalgia, devo guardare avanti.
Ma tu corri sempre, mi precedi. Di troppo. Io invece avrei tanto voluto invecchiare allegramente con te e sentirti ancora borbottare, a cent’anni, contro le porcate della scienza e le scorrettezze negli ospedali. E magari celiare sul biondo senile dei miei capelli….
E invece no. Tu sei rimasta ragazza per sempre. A me toccherà, forse, invecchiare da sola.
Posso solo augurarti buon viaggio, sorellina.
Ma se puoi, per favore, abbracciami ancora. Non ce la faccio, da sola.
Lo sai che ho paura del buio.
Preciso e coinvolgente, come sempre, più di sempre
RispondiEliminajan
Cara Maria,sono finito per caso in questo sito:c'è un'aria pulita,rara in questi nostri tempi gridati.Mi ha commosso la lettera a Sally: anche mia moglie,alcuni anni addietro, ci ha lasciati a causa di questa devastante malattia a soli 45 anni. Anche la lettera a Giuliana Saladino è molto bella.Dei versi di quella poesia di Borges sono in apertura di un libretto che mi piacerebbe farti avere:se vuoi puoi mandarmi l'indirizzo alla mia mail pino.manzella@alice.it Ciao, tornerò a visitarti. Pino Manzella
RispondiElimina«Non lasciarti sgomentare dagli addii. Un addio è necessario prima che ci si possa ritrovare.
RispondiEliminaE il ritrovarsi dopo momenti, o esistenze, è certo per coloro che sono amici». Richard Bach
Lettera molto commovente.Le mie più sentite condoglianze,RIP Salluccia!
RispondiElimina@Olga: cara Olga, grazie di cuore dell'attenzione accorata.
EliminaGrazie, Maria, di questa lettera scritta col cuore e - per questo - capace di arrivare al cuore.
RispondiElimina@Augusto: grazie a te di esserci. Con il tuo costante affetto di fratello adottivo.
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