martedì 30 marzo 2021

Il senso della vita, secondo Vito Mancuso

      (…) A mio avviso il senso della vita si compie proprio nella felicità, intesa non come piacere temporaneo ma come serena e permanente disposizione di fondo denominabile anche letizia o serenità. Il senso della vita, per noi che l’attraversiamo senza sapere da dove veniamo e senza sapere dove andiamo, consiste nello stare bene, felici di esserlo, sereni di fronte alla morte che inevitabilmente ci farà suoi.
      (…) Quando la si trova, questa felicità che deriva dall’umano nell’uomo diviene il tesoro più prezioso dell’esistenza, la fonte di energia pulita che alimenta la vita senza dover pagare la bolletta a nessuno, perché sgorga da dentro. Ma per trovarla ci sono a mio avviso due condizioni essenziali: l’armonia con il mondo e la cognizione del dolore.
     La prima condizione si capisce da sé: la mia felicità sarà veramente tale solo se non sarà frutto di rapina o di menzogna, solo se per conquistarla non avrò fatto male a nessuno. Il fine della mia vita non consiste nel far stare bene gli altri, ma nello stare bene io, prima persona singolare; questo stare bene io però si può realizzare solo in armonia con gli altri, evitando che il mio star bene si basi sull’averli sfruttati, ingannati o peggio ancora. Devo stare bene io, anche perché solo così posso contribuire a far stare bene gli altri; ma allo stesso tempo devo far stare bene gli altri, perché solo così sto davvero bene io. 
     Diceva il Buddha: «Cercando con la mente in tutte le direzioni, non si trova alcuno più caro di noi stessi. Invariabilmente, fra tutti gli altri, ognuno ha caro se stesso. Pertanto, chi ama veramente se stesso, non arrechi danno agli altri.»
      Siamo strutturalmente relazione: il mio io esiste perché c’è un tu che lo riconosce a livello psichico, e che prima ancora l’ha generato a livello fisico. Per questo il senso della vita non è fare, ma è stare; più precisamente, è stare in armonia; fino a diventare e a essere armonia.

Vito Mancuso I quattro maestri, Garzanti, Milano, 2020, pag.9,10,11

domenica 28 marzo 2021

Se depressione e pandemia vanno a braccetto...

E.Munch: Melanconia
           Palermo – La lotta contro il Covid-19 sarà lunga. A causa delle varianti del virus, ancora più contagiose, e a causa della lentezza con cui procede la campagna vaccinale, lentezza che allontana nel tempo l’auspicata immunità di gregge, non si riesce ancora a vedere la luce dopo il tunnel. Quando su questa tragica pagina di storia verrà scritta la parola fine, ci saranno tante conseguenze da affrontare. 
        Intanto la grave crisi nel mondo del lavoro: nel nostro paese in particolare, la ripresa economica in settori nevralgici messi in ginocchio dal Covid – cultura, viaggi e turismo, ristorazione - non sarà né facile né immediata. 
       Ma il rilancio dell’economia non sarà la sola sfida da affrontare. In tanti si troveranno a lottare contro un fantasma insidioso e strisciante: la depressione. Lo dichiara un recente studio della società italiana di Neuropsicofarmacologia, che stima in un numero esorbitante i casi di depressione che potranno verificarsi nel futuro prossimo: più di un milione. 
    Quali le persone più a rischio? Intanto i contagiati dal virus: pare che circa un terzo di coloro che hanno contratto il Covid-19 (in totale più di 3.400.000) tende a sviluppare sintomi depressivi. A grave rischio sono anche i familiari dei tanti pazienti deceduti: si sa che per molti si è trattato di un lutto particolarmente triste e difficile da elaborare perché non hanno più potuto vedere il proprio caro in ospedale e accompagnarlo nella dipartita. E alcuni, in certi casi, non hanno potuto neppure partecipare al funerale. 
   Ma il fantasma della depressione rischia di colpire il benessere psichico di tanta parte della popolazione perché ne andrebbero soggetti tutti quelli che hanno problemi economici: gli studiosi hanno infatti riscontrato una significativa correlazione tra chi ha un basso reddito o è disoccupato e il rischio di sindrome depressiva. E stato poi calcolato che l’insorgere di tale sofferenza raddoppierebbe in chi ha un reddito inferiore a 15.000 euro l’anno e triplicherebbe addirittura in chi è disoccupato. 
Si direbbe che ‘Piove sul bagnato’… Doveroso allora sbracciarsi per supportare fattivamente con una pluralità di interventi – innanzitutto i ristori di tipo economico, insieme al sostegno psicologico e/o farmacologico ove necessario - i tanti italiani in condizione di fragilità a causa della pandemia.
Prof. Giovanni Salonia
    Bisogna però non fare … di tutte le depressioni un fascio. Un autorevole esperto dell’animo umano, lo psicoterapeuta Giovanni Salonia, sottolinea l’importanza di distinguere tra ‘depressione patologica’ e ‘depressione sana’. E invita a non considerare patologica e bisognosa di farmaci la tristezza, sentimento che ha diritto di cittadinanza nella nostra interiorità: «E’ necessario tener presente che esiste anche una depressione ‘sana’ (e necessaria!) quando ci si confronta con le situazioni limite dell’esistenza. Anche se la tristezza infinita di fronte alle perdite (separazioni, morte, malattia) confina con la depressione, essa non deve essere trattata come tale. (…). Attraversare le sane depressioni dovute ai limiti anche tragici dell’esistenza fa crescere nella pienezza dell’essere umani. Quando la depressione è reazione all’infelicità costitutiva dell’esistenza (e non si somma ad altre gestalt aperte, non elaborate), infatti, compiuto il tempo necessario per l’elaborazione del lutto, si apre e si trasforma in ‘saggezza triste’ che permette di incontrare l’Altro nella concretezza dell’esistenza senza fughe nell’euforia. Viceversa, negare la tristezza delle perdite può, a sua volta, produrre depressione ‘patologica’. Nella postmodernità molte depressioni derivano proprio dal rifiuto della morte e dal vivere come umiliante sconfitta ogni situazione limite.»
    Accettare allora la ‘saggezza triste’ aiuta a guarire dal delirio di onnipotenza e a convivere con la precarietà dell’esistenza umana. E a trovare in sé stessi la forza vitale per aprirsi di nuovo alla vita. 

Maria D'Asaro, 28.3.21, il Punto Quotidiano

giovedì 25 marzo 2021

Nel mezzo del cammin di nostra vita...

E.Delacroux: La barca di Dante - 1822
Nel mezzo del cammin di nostra vita
Mi ritrovai per una selva oscura, 
ché la diritta via era smarrita
                                               Inferno, Canto I
Per me si va nella città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
(…)
Dinanzi a me non fuor cose create 
Se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.
                                              Inferno, Canto III




Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave senza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!
                                                             Purgatorio, Canto VI
La gloria di colui che tutto move
Per l’universo penetra e risplende
In una parte più e meno altrove.
                                                           Paradiso, Canto I
    
      Maruzza amava l’Alighieri. Perché al liceo classico– il glorioso Istituto “Maria Adelaide” di Palermo, quando le compagne la chiamavano “Marghe” – aveva avuto un docente d’Italiano d’eccezione, il professore Vito Biondo, che Dante glielo aveva fatto capire e apprezzare: Dante, l’uomo del Trecento impegnato in politica; Dante, l’antesignano che lottava contro lo strapotere temporale della Chiesa cattolica; Dante, l’interprete acuto della mentalità medioevale, forgiata dal tomismo, delle discipline del Trivio e del Quadrivio; il poeta che conferì dignità al volgare parlato a Firenze; l’uomo innamorato della sua città; il creatore del dolce stil novo; l’uomo appassionato che si vendicava dei nemici mettendoli all’inferno e detestava chi non prendeva posizione non si impegnava nella società” non ti curar di lor, ma guarda e passa; l’uomo coltissimo che ci ha donato terzine indimenticabili con la sostanza della sua infinita cultura…
     Maruzza deve al professore Biondo la sua conoscenza dell’esegesi delle tre cantiche, studiate con i canoni della critica figurale di Eric Auerbach, con la logica del contrappasso… la critica romantica di Francesco De Sanctis. Il docente ripeteva che la fortuna di Dante è  legata al carattere delle epoche storiche: Dante apprezzato nei ‘tempi forti’ e obliato negli anni del disimpegno e della mediocrità…
     Grazie, sommo poeta, per averci regalato il sublime canto V dell’inferno: “Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacere sì forte/che, come vedi, ancor non m’abbandona”; le inarrivabili terzine del XXVI dell’Inferno, messe in bocca a Ulisse: “Considerate la vostra semenza:/fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”, la Commedia tutta, definita ‘divina’ da Boccaccio
         Grazie infinite  per averci ricordato che dopo l'inferno è possibile “uscire a riveder le stelle” e per aver chiuso il poema ricordandoci che è “l’amor che move il sole e l’altre stelle”.

(E un grazie postumo all’ impareggiabile professore Biondo)


martedì 23 marzo 2021

Forse non lo sai ma pure questo è amore...

    "La Congregazione per la dottrina della fede (in termini laici, civili, si direbbe il Ministero vaticano per l’ortodossia) ha dichiarato “illecite” le benedizioni concesse alle coppie omosessuali...
Ecco gli approfondimenti del professore Cavadi, teologo e filosofo, qui, qui e qui.

Sottolineo due importanti passaggi del I articolo:

1. Il pronunciamento sulla non benedizione delle coppie gay "travalica i confini della Chiesa cattolica e influenza – più o meno consapevolmente – la mentalità dei cittadini in generale (accrescendo i rischi dei pregiudizi e dei conseguenti comportamenti omofobi).
2. La “benedizione”, secondo la Bibbia e la Tradizione più antica,  non è prima di tutto un’ azione di Dio né direttamente né attraverso suoi (veri o presunti) rappresentanti.  E’ piuttosto un’azione dell’essere umano che, davanti a un dono della vita, avverte l’esigenza spontanea di “dire bene” di Dio. (...)L’amore – in tutte le sue forme – è già in sé stesso santo (anzi, secondo la Prima Lettera di S. Giovanni, è manifestazione nella storia del Dio che è Amore): ritenere che la “benedizione” di un prete lo possa legittimare o purificare o rinforzare è superstizione antropomorfica. 
Ciò che un prete, una madre di famiglia, un ragazzo possono fare è “bene-dire” di Dio per quell’amore che sta accadendo sotto il loro sguardo ammirato. Questo diritto-dovere, per un credente, di parlare bene di Dio, e a Dio, nessuna istituzione umana (per quanto ‘sacra’ possa auto-interpretarsi) lo può strappare a chicchessìa."

domenica 21 marzo 2021

Il 160° compleanno dell’Italia visto attraverso il cinema

     Palermo – Rispetto a Francia e Regno Unito, nazioni europee nate già tra il tredicesimo e il quattordicesimo secolo, l’Italia, che il 17 marzo scorso ha compiuto 160 anni, è poco più di una ragazzina. 
        E’ d’obbligo comunque festeggiarne il compleanno: con la legge n.222 del 23 novembre 2012, il 17 marzo è diventato "giornata promuovente i valori legati all'identità nazionale". E dunque: «La Repubblica riconosce il giorno 17 marzo, data della proclamazione in Torino, nell'anno 1861, dell'Unità d’Italia, quale «Giornata dell'Unità nazionale, della Costituzione, dell'inno e della bandiera», allo scopo di ricordare e promuovere, nell'ambito di una didattica diffusa, i valori di cittadinanza, fondamento di una positiva convivenza civile, nonché di riaffermare e di consolidare l'identità nazionale attraverso il ricordo e la memoria civica.» 
      Ai meno giovani, la prima cosa che salta alla memoria è il ricordo dei vecchi sussidiari delle elementari, dove l’Unita d’Italia aveva il volto pensoso di Giuseppe Mazzini, la camicia rossa di Garibaldi, la fronte corrugata del genio politico di Cavour e poi i baffoni maestosi del re sabaudo Vittorio Emanuele II, primo monarca del neonato Regno d’Italia. 
     160 anni quindi di unità nazionale: fugace battito d’ala di un frammento di storia. Che potrebbe essere ripercorso attraverso i titoli di alcuni film che lo hanno magistralmente narrato. A cominciare da “Il Gattopardo”, romanzo del siciliano Giuseppe Tomasi di Lampedusa, poi pellicola cinematografica con la regia di Luchino Visconti, dove uno straordinario Burt Lancaster era il siciliano don Fabrizio Corbera, principe di Salina, convinto dal nipote Tancredi/Alain Delon a voltare le spalle ai Borboni e ad accettare a malincuore il nuovo Stato: «Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica in quattro e quattr'otto. Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi». 
     E poi, opera dei fratelli Taviani, “Kaos” che, attraverso alcune novelle di Pirandello, racconta la miseria della Sicilia post unitaria, stretta tra violenza, emigrazione e ingiustizie sociali. Il dramma della I guerra mondiale (1915-18) è visto con gli accenti lirici di Ermanno Olmi in “Torneranno i prati” e con quelli della vibrante denuncia etica di Francesco Rosi in “Uomini contro”. Le pellicole dell’Istituto Luce testimoniano poi la retorica del ventennio fascista, con le sue marce, le faccette nere da conquistare, gli slogan quali “Libro e moschetto, fascista perfetto” e “Credere, obbedire e combattere”. 
     La tragedia della II guerra mondiale (1940-45), culminata nella guerra civile tra fascisti e partigiani, è stata raccontata dai fratelli Taviani ne “La notte di san Lorenzo”. Mentre la telecamera di Vittorio De Sica ne ha mostrato la terribile violenza sulle donne, con un’indimenticabile Sofia Loren, ne “La ciociara”. Ancora la firma di De Sica in uno dei film più rappresentativi del dopoguerra: “Ladri di biciclette”. Ritroviamo poi Francesco Rosi che con “Salvatore Giuliano” presenta gli inquietanti intrecci tra stato e mafia nella Sicilia del dopoguerra; poi con “Le mani sulla città” denuncia corruzione e speculazione edilizia nell'Italia degli anni sessanta. Ma in quegli anni nel nostro paese fu possibile riprendere a sognare: lo ha mostrato Federico Fellini con “Otto e ½”  e “La dolce vita”. Negli anni ’70 Elio Petri racconta poi le vicissitudini degli operai e l’alienazione del lavoro di fabbrica con “La classe operaia va in Paradiso”.
     Gli ultimi decenni, ingarbugliati e confusi, sono raccontati da Marco Tullio Giordana con “La meglio gioventù”, attraverso le vicende della famiglia Carati, in particolare quelle dei fratelli Matteo e Nicola: nel film ritroviamo, tra i tanti fatti storici evocati, l’alluvione di Firenze del 1966, l’impazzimento collettivo dei tanti che aderirono al terrorismo delle Brigate rosse, la storica vittoria ai mondiali di calcio del 1982, le stragi di mafia e l’inchiesta giudiziaria di “Mani Pulite”. L’Italia recente hanno provato a raccontarla Paolo Virzì, che in “Tutta la vita davanti” squaderna la precarietà lavorativa, ma anche affettiva ed esistenziale, ruotante attorno a un call center; Paolo Sorrentino, con “La grande bellezza”, Antonio Albanese, con la sua satira sferzante in “Qualunquemente”…
     Oggi la pandemia ha decretato lo stop della produzione cinematografica. Chissà quale film narrerà domani questa crisi così lunga e difficile, senza precedenti… Rimane l’auspicio di poter ‘gustare’ in un clima più lieto la torta nazionale del prossimo 161° compleanno.                 

Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 21.3.21

giovedì 18 marzo 2021

Tu chiamale se vuoi emozioni...

V. Kandinskij: Composizione VI,1913 (Ermitage, San Pietroburgo)
      “(…) Il primo criterio fondamentale è fidarsi delle emozioni. Le emozioni vengono dal corpo e il corpo non mente! Le emozioni hanno bisogno di esprimersi, di farsi strada, di chiarirsi… Spesso sono come bloccate, raggrumate, in confluenza con il mondo interiore. Secondo il vertice teorico della Psicologia della Gestalt, esse ‘camminano’ nella curva di Contatto. E’ fondamentale dare loro la parola e chiedersi: “Dove mi porta quest’emozione?”
        E’ altresì importante non lasciare l’emozione “sola”. Bisogna senz’altro chiedersi “Cosa sento”? – attivando quella che la Psicologia della Gestalt chiama funzione Es del Sé – ma bisogna altresì domandarsi: “Chi sono io che sento quest’emozione?” L’emozione infatti può travolgerci se è decontestualizzata rispetto alla ‘storicità’ del nostro essere, rispetto alla Funzione Personalità del Sé.
    Ogni emozione, inoltre, è relazionale: è percepita da un Io che ha sempre un Tu di riferimento. Le emozioni sono sempre utili e benefiche. Ci servono, ci interpellano perché è il nostro corpo che parla! Dobbiamo dunque ‘sistemare’ le emozioni nella nostra storia, alloggiarle nella nostra vita. L’emozione non è affatto un’estranea che ci disturba. E’ l’orizzonte di riferimento, la nostra curvatura esistenziale.
       Se una persona vive un’emozione, il Counsellor deve aiutarla a darle un nome, a farla dialogare con la Funzione Personalità. L’emozione dunque va compresa, integrata e ‘direzionata’. Magari l’emozione è maldestra, confusa… va aiutata ad emergere a chiarirsi. 
       Gli esseri umani sono finalizzati al contatto, alla relazione. La competenza al contatto sarà sempre più efficace e feconda nella misura in cui si ha la capacità di ‘leggere’ le proprie emozioni. L’emozione, infatti, cerca sempre il contatto. 
      A volte l’emozione è inespressa, o perché è molto confusa, o perché non si è ancora trovata la persona giusta a cui consegnarla. Spesso è questione di tempo e di persona ‘giusta’: se si dà ‘cura’ e attenzione adeguata, la persona riuscirà a far fluire l’emozione e a riprendere la danza della vita. 
      Tuttavia, non bisogna mai forzare troppo l’espressione di un’emozione. Infatti, può succedere che a volte un’emozione sia così sconvolgente che è meglio lasciarla nell’oscurità, nel pozzo buio e profondo in cui si è nascosta. Se la persona non si sente di mostrarla, di farla riemergere, vuol dire che è meglio così. (…).”

Lezione della prof.ssa Agata Pisana, nell’ambito del Master in Counselling Socio-Educativo,
Istituto di Neuroscienze e Gestalt “Nino Trapani”, Siracusa 
(La professoressa Pisana è Counsellor formatore supervisore ad indirizzo gestaltico,
Presidente Consultorio Fam. Ragusa - Vice Presidente Confed. Italiana Consultori Familiari)

martedì 16 marzo 2021

Carezze azzurre

Rimane

A scaldarci

La sera

L’azzurra trama delle tue carezze

Mammina...

domenica 14 marzo 2021

14 marzo, festa di Pi greco e della matematica

    Palermo - Albert Einstein ne sarebbe stato contento: per una curiosa coincidenza il giorno della sua nascita, il 14 marzo, è celebrato in tutto il mondo come il ‘Pi day’, il giorno del Pi greco. La scelta di tale giorno è stata ispirata dal formato della data in uso nei paesi anglo-sassoni, che prevede l’indicazione prima del mese e poi del giorno: così il 14 marzo, nella datazione anglo-sassone 03.14, evoca il numero "3,14", il Pi greco appunto. 
     Poiché di questo celebre numero spesso si indicano anche i due decimali successivi - 3,1415 - in alcuni paesi la ricorrenza del Pi greco viene celebrata esattamente alle ore 15, in modo da adeguarsi all'approssimazione 3,1415.
    L’idea di dedicare una giornata a questa celeberrima costante numerica si deve al fisico statunitense Larry Shaw, che nel 1988 organizzò all'Exploratorium di San Francisco una sorta di festa del Pi greco: il calendario della prima manifestazione prevedeva un corteo circolare attorno a uno degli edifici del museo e la vendita di torte alla frutta, decorate con le cifre decimali del Pi greco.  Perché proprio le torte? Perché Pi e Pie (torta in inglese) hanno lo stesso suono, ma anche perché la torta è rotonda ed è quindi correlata al Pi greco.  Per la sua originale iniziativa, Larry Shaw sarà poi insignito del titolo di "Principe del Pi greco".
Il fisico Larry Shaw
      Nel 2009 la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti d’America ha riconosciuto il 14 marzo come giornata ufficiale della costante matematica, invitando i docenti a celebrare il Pi Day come occasione per “incoraggiare i giovani verso lo studio della matematica”. Dal 2017, anche in Italia il 14 marzo è ufficialmente il giorno del Pi greco.
Per volere dell’Unesco, dal 2020 il Pi day è diventato “Giornata Internazionale della Matematica” (World Maths Day), una sorta di festa dei numeri che già lo scorso anno, nonostante la pandemia, ha coinvolto milioni di bambini e ragazzi di tutto il pianeta in gare e attività di calcolo e ha suscitato entusiasmo in tutto il mondo con ben 1.030 celebrazioni in oltre 110 paesi. 
      Cosa sia il Pi greco lo si ricorda dai banchi di scuola: è una costante matematica, data dal rapporto tra il perimetro del cerchio e il suo diametro. Costante matematica quindi, non fisica o naturale, cioè indipendente da misure di carattere fisico, e invariabile per qualsiasi circonferenza. Tale costante viene indicata con la lettera pi in quanto iniziale del termine greco ‘perifereia’ che significa appunto circonferenza. Per i più appassionati, si ricorda che il Pi greco è un numero irrazionale, come tale non potrà mai essere scritto sotto forma di frazione; è inoltre un numero ‘trascendente’, del quale è impossibile prevedere le infinite cifre decimali. Questo sue caratteristiche stabiliscono l'impossibilità della ‘quadratura del cerchio’, cioè la costruzione con riga e compasso di un quadrato della stessa area di un dato cerchio. Il Pi greco è conosciuto anche come costante di Archimede, perché il grande matematico, fisico e inventore siracusano del III secolo a.C. è stato uno dei primi a calcolarlo.
     Ben venga dunque l’attenzione dedicata al Pi greco e alla matematica con un’apposita giornata mondiale, sperando che tale ricorrenza contribuisca a far comprendere l’enorme importanza di tale disciplina in tutti gli ambiti della vita: nella botanica, nella biologia, nell’ingegneria, nell’economia, nella medicina e nei modelli necessari per prevedere l’andamento di una malattia, negli algoritmi che sono alla base di Internet, nei viaggi spaziali.
   Con l’auspicio infine che cresca in Italia il numero degli studenti amanti della materia, attratti dall’interesse verso questa disciplina non solo dai tanti promettenti sbocchi in ambito lavorativo, ma anche dal desiderio di entrare nel mondo magico dei numeri, che continuano a svelarci, giorno dopo giorno, qualche prezioso frammento della misteriosa essenza dell’Universo. 

Maria D'Asaro, 14.03.21, il Punto Quotidiano

venerdì 12 marzo 2021

Gemme dormienti...

    "Non tutte le gemme che da mesi si sono preparate si aprono in primavera. Alcune restano in sonno, forse per un lungo periodo, forse per sempre – nelle piante più longeve, come la quercia e il faggio rosso, anche cent’anni.
    Queste gemme, dette dormienti, germogliano solo se e quando la salute o la crescita dell’albero lo richiede, quando per esempio il fusto principale viene privato dell’apice vegetativo (l’organo che promuove il suo sviluppo ascensionale) a causa di un fulmine o di un incidente. Allora la gemma dormiente, chiamata a farsi fusto apicale dalla necessità dell’organismo, risponde. Si sveglia. Si può quasi dire: «Si alza». Qualunque sia la posizione in cui è collocata sul ramo, si attiva e dà origine a un nuovo ramo ramo-fusto che senza esitazione punta verso l’alto. L’albero riprende il suo sviluppo, che non sarà quello originariamente programmato e avrà un percorso inconsueto, ma la cui direzione sarà sempre e solo una: l’alto.
      Se singolare è l’accadimento che arresta lo sviluppo dell’albero, ancora più notevole è la possibilità che esso si riattivi: non casualmente, non magicamente, ma grazie a una potenzialità che era già presente, insita nell’organismo (…).Di straordinaria rilevanza mi sembra l’analogia fra ciò che si verifica nella vita degli alberi e, su piani diversi, ciò che avviene a noi umani. Quando nella nostra vita ‘cadono fulmini’ e tutto sembra fermarsi. (…)
     Tutti hanno raccontato il loro ricominciamento ‘dopo l’incidente’, cioè dopo una vicenda che ha inciso in profondità sulla loro esistenza e ne aveva cambiato il corso. Con il tempo si comprende che la vita ci dà – forse – opportunamente questi colpi, questi impedimenti a proseguire sull’unica via che avevamo pensata come adeguata a noi. Una mutilazione fisica, un dissesto economico, un licenziamento, una separazione, la morte della persona cara: abbiamo la sensazione di essere finiti. La sofferenza c’è e non può essere elusa.
     Ma quando la si regge – la si porta sino in fondo, si sta di fronte alle domande esistenziali che essa inevitabilmente pone – se ne esce rinnovati.  Elaborare il proprio stato di crisi vuol dire rendersi consapevoli della compresenza del pericolo e dell’opportunità (come riconoscono i cinesi, nella cui lingua la parola wei-ji è composta dai caratteri di entrambi) e risvegliare le forze in sé dormienti. Il dolore, che sembrava solo poterci immiserire, sfocia invece nella pienezza di una tramutazione interiore.
Adriana Bonavia Giorgetti: Meditare dentro un platano, Salani, Milano, 2016

mercoledì 10 marzo 2021

Chi scrive ha bisogno di interlocutori...

 
V. van Gogh:Campo di grano con volo di corvi (1890)
       «Chi scrive, corre due pericoli: il pericolo di essere troppo buono e tollerante con sé stesso, e il pericolo di disprezzarsi. Quando vuole troppo bene a se stesso, quando si sente per tutto ciò che pensa e scrive traboccante di simpatia, scrive allora con una facilità e fluidità che dovrebbe metterlo in sospetto. Non ha sospetti perché, nel suo spirito vampeggiante di un vano fuoco, non c'è più nessuno spazio per sospetti o giudizi e tutto quello che inventa, pensa e scrive gli sembra felicemente legittimo, utile e destinato a qualcuno. 
     Quando invece prende a disprezzarsi, abbatte prontamente i propri pensieri, li atterra a fucilate non appena si alzano e respirano, e si trova ad ammucchiare intorno a sé convulsamente cadaveri di pensieri, ingombranti e pesanti come uccelli morti. Oppure ancora, essendo pieno di disprezzo per sé ma anche di una oscura speranza, scrive e riscrive la medesima frase in capo a un foglio infinite volte, nella fiducia assurda che da quella frase immobile sgorghino a un tratto, per un miracolo, vitalità e riflessione. 
     Perciò chi scrive, sente con forza la necessità di avere degli interlocutori. Di avere cioè al mondo tre o quattro persone, a cui sottoporre ciò che scrive e pensa e parlarne. Non gliene occorrono molte: bastano tre o quattro. Il pubblico è, per chi scrive, una proliferazione e una proiezione di queste tre o quattro persone nell'ignoto e nell'infinito. Queste persone aiutano chi scrive sia a non provare per sé stesso una simpatia cieca e indiscriminata, sia a non provare per sé stesso un disprezzo mortale. Lo aiutano a difendersi dalla sensazione di farneticare e delirare in solitudine. Lo salvano dalle malattie che crescono e si moltiplicano, come una vegetazione strana e triste, nell’ombra del suo spirito quando è solo.»

Natalia Ginzburg: Mai devi domandarmi, Einaudi, Torino, 2014

domenica 7 marzo 2021

Wangari Maathai: una “cintura verde” per l’Africa

         Palermo – La cintura ‘verde’ l’aveva sognata Wangari Maathai biologa, parlamentare del Kenya e fondatrice del Green Belt Movement: movimento ecologista con l’obiettivo di combattere la desertificazione del proprio Paese e di altri stati africani. 
        Infatti, assieme a migliaia di donne che aveva incoraggiato a essere protagoniste nella società keniota, Wangari ha piantato circa 40 milioni di alberi. Per questo e per «il suo contributo alle cause dello sviluppo sostenibile, della democrazia e della pace», nel 2004 è stata insignita del Premio Nobel per la Pace, prima donna africana a riceverlo. Wangari Maathai è morta nel 2011, ma il suo sogno ecologista è stato rilanciato già nel 2007 dall’Unione Africana, ed è stato poi sostenuto in tutti i congressi ambientalisti mondiali. Nello specifico, la cintura verde è stata progettata come un ‘muro’ - lungo oltre 8.000 km. - costituito da alberi, ecosistemi rigenerati, coltivazioni locali - che dovrà percorrere il continente africano dall’Atlantico al mar Rosso, con lo scopo di fermare la desertificazione subsahariana, acuita e accelerata dalla crisi climatica.
      Oggi, dopo quattordici anni dalla sua progettazione, sono stati realizzati appena 4 milioni di quel muro verde che dovrebbe essere costituito da circa ben 100 milioni di ettari di territorio bonificato. Al recente vertice internazionale “One Planet Summit” - tenuto a Parigi nel gennaio scorso con l’obiettivo di rilanciare le iniziative e la collaborazione ecologica tra i vari stati - il presidente Macron ha confermato l’impegno francese nell’importante iniziativa ecologica, promettendo cospicui investimenti. La BEI, Banca Europea per gli Investimenti, a sua volta ha dichiarato di voler investire 1.000 milioni di euro nei prossimi dieci anni. A sostenere il progetto anche il principe Carlo d’Inghilterra, da sempre in prima linea nell’appoggio allo sviluppo sostenibile; inoltre vari investitori mondiali si sono detti pronti a mettere a disposizione miliardi di dollari per creare milioni di posti di lavoro ‘verde’ in tutto il pianeta, per la salvezza non solo dell’Africa, ma anche dell’Amazzonia e della barriera corallina. 
    Nell'attesa che questo salutare progetto venga realizzato con la cooperazione di tutti, ecco le riflessioni che Wangari Maathai ci ha lasciato in un suo libro: «Capii che il lavoro del Green Belt Movement era guidato da alcuni valori intangibili. Essi erano: amore per l'ambiente, gratitudine e rispetto per le risorse della Terra, capacità di darsi potere e di migliorare sé stessi, spirito di servizio e volontariato. Naturalmente, so bene che tali valori non sono appannaggio del Green Belt Movement. Essi sono universali. Non possono essere toccati o visti. Non possiamo dar loro un valore monetario: in effetti, sono impagabili. Questi valori non sono contenuti in specifiche tradizioni religiose, né uno deve far professione di fede per essere guidato da essi. Sembrano piuttosto essere parte della nostra natura umana, ed io sono convinta che siamo persone migliori perché li abbiamo, e che l'umanità' è migliore avendoli piuttosto che non avendoli. Dove questi valori sono ignorati, li rimpiazzano vizi come l'egoismo, la corruzione, l'avidità e lo sfruttamento. Per quel che posso dire attraverso le mie esperienze e le mie osservazioni, credo che la distruzione fisica della Terra si estenda anche a noi. Se viviamo in un ambiente ferito, dove l'acqua è inquinata, il cibo è contaminato da metalli pesanti e residui plastici, e il suolo è praticamente immondizia, ciò ci affligge, influisce sulla nostra salute e crea ferite a livello fisico, psicologico ed esistenziale. Degradando l'ambiente degradiamo sempre noi stessi. Nel processo in cui aiutiamo la Terra a guarire, aiutiamo noi stessi».

Maria D'Asaro, 07.04.21, il Punto Quotidiano

venerdì 5 marzo 2021

I Lamed-Vavnik: i giusti che salvano il mondo

Jean Mirò: Costellazioni

       La tradizione ebraica afferma che in ogni momento della storia dell’umanità ci sono nel mondo 36 persone buone e speciali: se non fosse per la presenza di tutte queste persone, se anche una sola di esse mancasse, il mondo finirebbe.  

    Le lettere ebraiche che formano il numero 36 sono lamed, che è 30, e vav, che è 6. Di conseguenza queste 36 persone  vengono citate come Lamed-Vav Tzaddikim e noti anche come Nistarim (“nascosti”).

     I lamed-vavnik stessi non sanno di far parte dei 36 giusti. Infatti, la tradizione vuole che se una persona asserisse di essere uno dei 36, questa sarebbe la prova che certamente non lo sia. Dal momento che ognuno dei 36 è modello di anavah (“umiltà”), tale virtù gli precluderebbe la propria autoproclamazione. I 36 sono semplicemente troppo umili per credere di essere parte dei 36. Quando un Lamed-Vav muore, un altro uomo prende il suo posto. (da qui).



martedì 2 marzo 2021

Il sogno di Maria...

       Quando camminava nel suo quartiere per andare in farmacia o comprare il pane non riusciva a non pensarci. A come sarebbe stata bella via Oreto nuova se fra le aiuole non ci fossero state cartacce, bicchieri di plastica, sacchetti di ogni tipo, lattine, bottiglie, lordure varie. A volte, chiudeva persino gli occhi e immaginava le aiuole tutte linde, con ciuffi di lavanda e piantine di rosso geranio. 
       Ci sarebbe voluto poco: la sensibilità dei cittadini, la pulizia accurata della Rap, la cura di qualche appassionato giardiniere… Intanto le venivano pensieri strani: come mai andiamo su Marte e non siamo capaci di progettare e mantenere un quartiere bello, pulito e fiorito? A volte, acciuffava furtivamente qualche bottiglia, la infilava in un sacchetto che poi svuotava nell’apposito cassonetto. Doveva essere rapidissima, perché temeva di essere considerata matta da occhi indiscreti. 
       Prima o poi sognerà a occhi aperti. E Palermo sarà bellissima.

Maria D’Asaro