domenica 31 dicembre 2023

Pacem in Terris: sempre ‘no’ alla guerra

    Palermo – Alla vigilia del nuovo anno, è difficile mantenere viva la speranza nel futuro se, come negli ultimi mesi, si è costretti ad assistere alle atrocità commesse in Israele e in Palestina e a convivere nel mondo con la disumanità della guerra. La gente comune ha la triste sensazione che la politica sia diventata quasi impotente ed ‘afasica’: senza parole e senza un percorso alternativo al terrore e alla violenza istituzionale della guerra. 
      In Italia, una delle poche voci costanti di dissenso, oltre a quella dei movimenti nonviolenti, è quella di papa Francesco, che da tempo implora i potenti perché desistano dalla pazzia delle armi.
     Nella Chiesa cattolica la condanna ‘senza se e senza ma’ della guerra è arrivata comunque già 60 anni fa grazie a papa Giovanni XXIII che l’11 aprile 1963, Giovedì Santo, pubblicò l’Enciclica Pacem in Terris. In essa il Pontefice si rivolse non solo ai cristiani, ma a “tutti gli uomini di buona volontà” credenti e non credenti, consapevole ormai, con il Concilio Vaticano II, che il messaggio della Chiesa dovesse andare oltre ogni contrapposizione e annunciare una ‘buona novella’ universale ed ecumenica. 
Nella Pacem in Terris, infatti, tutte le nazioni della Terra sono invitate a cercare il dialogo e il negoziato e a ricercare ciò che unisce, tralasciando ciò che divide. 
    Nel 1963, in un clima politico assai teso, denominato ‘Guerra fredda’ per il contrasto ideologico tra gli USA e l’allora URSS, l’Enciclica fu un segnale forte e dirompente. Non a caso, approvarono il documento papale, oltre che l’allora segretario generale dell’ONU U-Thant, sia la diplomazia statunitense che quella sovietica.
    Con la Pacem in Terris venne proclamato il valore assoluto della Pace, fondamento dell’intera comunità umana. Per la prima volta nei suoi pronunciamenti ufficiali, la Chiesa cattolica affermò l'impossibilità di una cosiddetta ‘guerra giusta’: nella versione latina del documento, la guerra - in latino ‘bellum’, sostantivo maschile - viene definita senza mezzi termini ‘alienum a rationem’, vale a dire una pazzia, un delirio collettivo, privo della luce della ragione. 
     La Pacem in terris è allora l’esortazione illuminata e profetica che indica “l'evoluzione verso una nuova, migliore umanità” e traccia con chiarezza il percorso profetico nonviolento che la società è chiamata a compiere.
    Dopo l’Enciclica, che darà a papa Roncalli, già chiamato il ‘Papa buono’, anche l’appellativo di ‘Papa della Pace’, in tutti i documenti ufficiali della Chiesa la condanna della guerra sarà una costante. Nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa (pubblicato nel 2004) si legge: “La guerra è un flagello e non rappresenta mai un mezzo idoneo per risolvere i problemi che sorgono tra le Nazioni. Non lo è mai stato e mai lo sarà, perché genera conflitti nuovi e più complessi. Quando scoppia, la guerra diventa una ‘inutile strage’, un’avventura senza ritorno, che compromette il presente e mette a rischio il futuro dell’umanità. ‘Nulla è perduto con la pace. Tutto può essere perduto con la guerra’. I danni causati da un conflitto armato non sono solamente materiali, ma anche morali. La guerra è, in definitiva, ‘il fallimento di ogni autentico umanesimo’, una sconfitta dell’umanità”.
    Infine, un passaggio accorato del messaggio di papa Francesco nella Benedizione ‘Urbi et Orbi’, impartita nel giorno di Natale: “Allora dire “sì” al Principe della pace significa dire “no” alla guerra, e questo con coraggio: dire “no” alla guerra, a ogni guerra, alla logica stessa della guerra, viaggio senza meta, sconfitta senza vincitori, follia senza scuse.  Ma per dire “no” alla guerra bisogna dire “no” alle armi. Perché, se l’uomo, il cui cuore è instabile e ferito, si trova strumenti di morte tra le mani, prima o poi li userà. E come si può parlare di pace se aumentano la produzione, la vendita e il commercio delle armi?”
   Si spera allora che, dal 1° gennaio 2024, 57° Giornata Mondiale della Pace, le donne e gli uomini di buona volontà si adoperino con maggiore convinzione per bandire per sempre la guerra dalla Storia.

Maria D’Asaro, 31.12 23, il Punto Quotidiano

giovedì 28 dicembre 2023

Finitudine



Cosa
Resterà di noi?
Del transito terrestre,
Delle impressioni di una vita?
Ciao…





domenica 24 dicembre 2023

Charles Messier, l’astronomo francese ‘cacciatore di comete’

     Palermo – D’accordo con Keplero, ormai gli astronomi affermano che, circa duemila anni fa, i Magi siano andati alla ricerca di Gesù bambino seguendo la rara congiunzione planetaria di Marte, Giove e Saturno, pianeti allora assai vicini che apparivano come un unico luminosissimo astro. 
    La stella cometa, che ormai per tradizione si colloca nel presepe, pare risalire invece all’influenza del quadro di Giotto “L’Adorazione dei Magi”, che mostra appunto sulla grotta una cometa dalla lunga coda: particolare suggestivo dovuto quasi sicuramente al fascino esercitato anche su Giotto dal passaggio della Cometa di Halley, nel 1301. Il pittore realizzò poi il dipinto (che si trova nella Cappella degli Scrovegni a Padova) proprio qualche anno dopo, nel 1303-05 circa. 
      A proposito di comete, forse in pochi conoscono la storia dell’astronomo francese Charles Messier, che ha consacrato la sua esistenza a scrutare con impegno il cielo parigino.
   Si deve a lui la compilazione del Catalogue des Nébuleuses et des Amas d'Étoiles (Catalogo delle Nebulose e degli Ammassi di Stelle), ormai noto come ‘Il Catalogo di Messier’, primo inventario di oggetti celesti diversi dalle stelle comete.     
Tale catalogo, pubblicato inizialmente nel 1774, comprendeva 45 oggetti celesti; l’edizione definitiva fu pubblicata nel 1781 e ne racchiuse 110. La catalogazione, in vigore ancora oggi, fa precedere a ogni numero la lettera M, per indicare che si tratta appunto del Catalogo di Messier. Gli oggetti catalogati sono molto eterogenei: l'unico legame tra loro è di essere relativamente brillanti, vi si trovano sia nebulose ed ammassi stellari molto vicini, sia grandi galassie, poste a distanze enormi.
    Quale era lo scopo del catalogo di Messier? Quello di aiutare gli osservatori della volta celeste, e in particolare i cercatori di comete,  a distinguere gli oggetti fissi nel cielo, che potevano essere scambiati per comete perché si presentavano al telescopio come un oggetto ‘debole’ di natura nebulare, dalle comete vere. Al tempo di Messier agli astronomi interessava infatti l'osservazione delle comete, mentre le nebulose visibili in posizioni fisse del cielo erano per lo più ignorate, anche per la mancanza di mezzi tecnici (come telescopi sufficientemente potenti) che ne permettessero lo studio. 
    Ironia della sorte, Messier, definito ‘il cacciatore di comete’, diventerà poi famoso per aver catalogato (come non comete) importanti corpi celesti che non gli interessava vedere, tra cui Andromeda (oggi una delle più note galassie diverse dalla nostra Via Lattea), indicata con M31.
     Messier, nato nel 1730 in una cittadina del Nord-Est della Francia, cominciò ad occuparsi di astronomia quasi per caso, quando a 21 anni decise di trasferirsi a Parigi in cerca di fortuna. Nella capitale francese, venne assunto dall'astronomo Joseph Nicolas Delisle, possessore di un osservatorio privato, con l’incarico di tenere i registri delle osservazioni e copiare una mappa della Grande Muraglia cinese e una di Pechino. Lavorando presso l’osservatorio, Messier si ricordò del piacere che aveva provato nell'osservare una cometa del 1744: così, seguendo gli insegnamenti di altri astronomi che lo iniziarono nell'uso degli strumenti astronomici e all'osservazione delle comete e delle eclissi, iniziò una sistematica ricognizione del cielo stellato.
    In quel periodo gli astronomi attendevano il ritorno di una cometa previsto da Halley per il 1758. Nel 1782, nella Storia dell’astronomia moderna di Jean S.Bailly si legge: “Questo astro così interessante fu visto a Parigi il 21 gennaio 1759: Messier lo scoprì per primo in Francia”. Allora infatti Messier, con tenacia e sacrificio, per quasi 18 mesi,  aveva trascorso tutte le notti nella torre dell'osservatorio in cerca della cometa.
    Nel 1768 il suo datore di lavoro morì e Messier si dedicò interamente alla ricerca delle comete con notevoli risultati, scrutando il cielo tutte le notti serene e scoprendo così tutte le comete apparse in quegli anni nel cielo di Parigi.  Le scoperte gli permisero di ottenere fama ed onori in ogni parte del mondo: riportava il percorso dell'astro scoperto su mappe celesti realizzate con cura e precisione, mentre per il calcolo dell'orbita si avvaleva della collaborazione dell’amico Bochart de Saron, presidente dell'Accademia delle Scienze, specializzato nel calcolo delle orbite cometarie e nella previsione del loro ritorno. 
    Il suo lavoro di osservazione era davvero duro durante l'inverno parigino, caratterizzato da freddo intenso e temperature spesso sotto lo zero. I mezzi a disposizione non erano paragonabili a quelli odierni: si doveva rimanere all'aperto per l'intera notte con l'occhio all'oculare, manualmente si puntava il telescopio e si eseguiva la compilazione del registro delle osservazioni e i disegni, al lume di candela o di lampada a petrolio.
    Sopravvissuto nel 1781 a un grave incidente, Messier rimise piede sulla torre dell'osservatorio un anno e tre mesi dopo, osservando il 12 novembre 1782 il passaggio di Mercurio sul Sole. 
    L’astronomo riuscì anche a superare gli anni del Terrore rivoluzionario, che chiuse nel 1793 l’Accademia delle Scienze e bollò come corrotti e ciarlatani molti scienziati. Lo studioso continuò le sue ricerche, anche se attraversò momenti duri e spesso fu costretto a chiedere aiuto, anche solo per rifornire di olio la lampada che usava la notte per le osservazioni. Nel settembre 1793 scoprì una nuova cometa nella costellazione di Ofiuco. Però gli astronomi parigini erano dispersi, e Saron era in prigione. Messier riuscì comunque a far pervenire le osservazioni al collega il quale, pochi giorni prima di essere ghigliottinato, calcolò l'orbita della nuova cometa. 
   Dopo la Rivoluzione, a Messier furono tributate varie onorificenze, tra cui la Legione d’Onore. Continuò le sue osservazioni sino all’età di 82 anni, quando un grave abbassamento della vista gli impedì di scrutare ancora il cielo. Morì a 86 anni, il 12 aprile 1817.
Ancora oggi l’opera di Messier viene menzionata da tutti gli studiosi di astronomia: altre al celebre catalogo delle non-comete, gli si attribuisce la scoperta di 19 comete (13 scoperte da solo e 6 co-scoperte insieme ad altri). Sulla Luna un cratere porta il suo nome; gli è stato dedicato anche l’asteroide 7359 ‘Messier’. 
    Buon Natale a tutte/i, con gratitudine verso tutte le persone di buona volontà che, come monsieur Messier, si sono impegnate per accrescere la luce della conoscenza.

Maria D'Asaro, 24.12.23, il Punto Quotidiano

venerdì 22 dicembre 2023

Non serrare la porta...

Renè Magritte (1950)

Lascia che grazia
si diffonda sulle cose…
non serrare la porta.

Datti all’ora assolata
e al cielo cupo
senza riserve.

Fai del mare
un acquario
e della notte
una coperta
per il tempo del riposo.






Sciogli nella bellezza
anche l’ultima fibra
arrendi della mente
i labirinti.
Semplice è l’atto
che dura e non consuma
nella buia domanda del mondo
stare con misura.

Alberto Melucci (poeta, sociologo e psicoterapeuta;  notizie qui) 

Grazie alla Scuola GTK (Gestalt Therapy Kairos) che, con gli auguri natalizi, ha donato la poesia


mercoledì 20 dicembre 2023

Viaggiu dulurusu: spiritualità, musica, bellezza

Monreale (foto di Lorena Carlisi)
     Peccato davvero non avere potuto assistere, lunedì 18 dicembre scorso, nella splendida cornice del Duomo di Monreale, alla magnifica esibizione di Viaggiu dulurusu, opera musicale di don Cosimo Scordato e Vincenzo Mancuso, eseguita dal Coro San Francesco Saverio Band’s, diretto da Emanuele Amorello e Monica Inglima, con la suggestiva coreografia a cura di Eliana Lombardo (direttrice dello Studio di Danza di Bagheria).

       Chi vorrà e potrà, ha ancora due date a disposizione per non perdere Viaggiu Dulurusu

venerdì 22 dicembre, ore 21, presso la Chiesa della Madonna Immacolata, a Casteldaccia (Palermo)
sabato 6 gennaio, ore 20,15, presso la chiesa di Sant’Agostino a Corleone (Palermo)

Se si vuole approfondire qualcosa sull’opera musicale, si può leggere qui.

(grazie a Lorena Carlisi per la condivisione delle sue belle foto)








E a Castelbuono i Lorimest  eseguono Viaggiu dulurusu di Binidittu Annuleru  in assetto itinerante per le edicole esterne del paese, nelle chiese e nella cappella di Sant'Anna per tutti i giorni della novena, come  da locandina allegata.




Una bella possibilità recarsi anche a Castelbuono! (grazie, Giusè Palumbo, per la notizia)

domenica 17 dicembre 2023

Qualità della vita 2023: bocciate le città siciliane

        Palermo – Il Sole24 ore ha pubblicato a fine novembre lo studio che, per il trentaquattresimo anno consecutivo, prende in esame la qualità della vita nelle 107 province italiane. I risultati dell’indagine sono sconfortanti per i nove capoluoghi siciliani, che si posizionano tra l’86esimo e il 106esimo posto della classifica nazionale. 
    Tra le nove città, il miglior piazzamento è quello di Ragusa, appunto ottantaseiesima, seguita da Messina (89esima) e da Enna (90esima), che è l’unica a guadagnare posizioni rispetto al 2022 (+10). 
      Le altre sei province si piazzano in fondo alla classifica e peggiorano le loro posizioni anche rispetto allo scorso anno: Catania è 92esima, Agrigento e Palermo rispettivamente 94esima e 95esima (Agrigento perde otto posizioni e Palermo sette) Trapani 99esima (scivola più in basso di sei posti), Siracusa 104esima, Caltanissetta 106esima. Quest’ultima precede solo Foggia, ultima in assoluto nella graduatoria. 
           Da sottolineare il dato negativo di Siracusa, che arretra di ben 14 posizioni rispetto al report del 2022. Tra i fattori che hanno fatto precipitare Siracusa in fondo alla classifica la bassa speranza di vita (nel 2022 è stato registrato un picco di decessi per le ondate di calore estive), il numero elevato di imprese in fallimento, il ‘gender pay gap’ (il divario retributivo di genere, cioè la differenza tra il salario annuale medio percepito dalle donne e quello percepito dagli uomini), il numero assai basso di lavoratori domestici regolari.
     Le città siciliane condividono con le consorelle del Sud Italia il piazzamento negativo. I risultati dello studio di quest’anno evidenziano infatti, ancora una volta, la concentrazione delle città del Mezzogiorno in fondo alla graduatoria, con l’unica eccezione di Cagliari che si piazza al 23° posto.
     Le dieci città italiane dove si vive meglio si trovano invece tutte al nord e sono nell’ordine: Udine, Bologna, Trento, Aosta, Bergamo, Firenze, Modena, Milano, Monza e Brianza, Verona. 
    Come già nell’anno d’inizio dello studio, il 1990, la ricerca del Sole 24 Ore prende in esame sei macrocategorie tematiche: 1) ricchezza e consumi; 2) affari e lavoro; 3) ambiente e servizi; 4) demografia, società e salute; 5) giustizia e sicurezza; 6) cultura e tempo libero. Ciascuna macrocategoria è a sua volta composta da 15 indicatori.
    Il report, sempre pubblicato alla fine dell’anno esaminato, analizza i dati consolidati relativi ai mesi precedenti. Ma alcuni parametri sono aggiornati al 2023, con l’obiettivo di tenere conto degli effetti degli eventi e dei cambiamenti che hanno caratterizzato l’anno in esame, perché in alcuni ambiti i soli dati dell’anno scorso sarebbero risultati superati e avrebbero restituito una fotografia ormai invecchiata rispetto all’attualità: nell’indagine appena pubblicata si contano 46 parametri aggiornati al 2022 e ben 36 al 2023. 
    Tra gli indicatori di quest’anno, alcuni - il numero dei progetti finanziati dal PNRR, l’indice di solitudine, l’aumento delle temperature e l’impatto sulla salute delle ondate di calore, le farmacie, le famiglie con Isee sotto i 7mila euro, il gender pay gap, il consumo di farmaci contro l'obesità - non erano mai stati usati in precedenza.
     Ci sono infine nello studio degli indici sintetici che aggregano più parametri (Qualità della vita di giovani, bambini e anziani, Qualità della vita delle donne, Ecosistema urbano, Indice della criminalità, Indice di sportività, Indice del clima).
     L’aumento progressivo degli indicatori (prima erano 42, ora sono 90), proposto già dal 2019, consente di misurare in modo più preciso i fattori della qualità della vita. Gli indicatori sono tutti certificati e sono forniti al Sole 24 Ore da fonti ufficiali, istituzioni e istituti di ricerca, tra cui, ad esempio, Ministero dell’Interno o della Giustizia, Istat, Inps, Agcom, Siae e Banca d’Italia. 
      Allora, agli amministratori dei territori siciliani non resta che rimboccarsi le maniche per cercare di risalire la china. Nella consapevolezza che non basterà un ipotetico e discutibile ponte di cemento a colmare la distanza tra Udine e Caltanissetta…

Maria D'Asaro, 17.12.2023, il Punto Quotidiano

venerdì 15 dicembre 2023

Nuvole

Dovrei essere molto veloce
nel descrivere le nuvole –
già dopo una frazione di secondo
non sono più quelle, stanno diventando altre.

La loro caratteristica è
non ripetersi mai
in forme, sfumature, pose, disposizione.

Non gravate della memoria di nulla,
si librano senza sforzo sui fatti.

Ma quali testimoni di alcunché –
si disperdono all’istante da tutte le parti.

In confronto alle nuvole
la vita sembra solida,
pressoché duratura e quasi eterna.

Di fronte alle nuvole
perfino un sasso sembra un fratello
su cui si può contare,
loro invece sono solo cugine lontane e volubili.

Gli uomini esistano pure, se vogliono,
e poi uno dopo l’altro muoiano,
loro, le nuvole,
non hanno niente a che vedere
con tutta questa faccenda
molto strana.

Al di sopra di tutta la tua vita
e della mia, ancora incompleta,
sfilano fastose così come già sfilavano.

Non devono insieme a noi morire,
né devono essere viste per fluttuare.

  Wislawa Szymborska, La gioia di scrivere, tutte le poesie (1945-2009), 
a cura di Pietro Marchesani, pag. 571, Adelphi, Milano



giovedì 14 dicembre 2023

Oslo, Nobel per la Pace: sedia vuota per Narges

     Al centro una sedia vuota. Ai lati, Kiana e Ali, i due figli gemelli di Narges Mohammadi, Nobel per la Pace 2023.
     Nel giorno della consegna del premio, sul palco del municipio di Oslo va in scena la tragedia della repressione alla quale Teheran sottopone la sua gente, le donne prima di tutto.
      Narges, attivista iraniana per i diritti umani, non può ricevere il premio perché dal 2021 è rinchiusa nella prigione di Evin, l'inferno dei detenuti politici, a causa della sua campagna contro l'uso obbligatorio dell'hijab e contro la pena di morte. A farlo, al suo posto, sono i suoi due ragazzi, 17 anni, riusciti ad arrivare ad Oslo solo perchè dal 2015 vivono in esilio in Francia. 

Narges Mohammadi
     Leggono un po' ciascuno il discorso scritto in cella dalla mamma che  è riuscita a farlo uscire di nascosto dalle "alte e fredde mura di una prigione" e dalla quale scaglia un attacco durissimo alla Guida Suprema Ali Khamenei e ai suoi.
     (Continua nel sito del Movimento nonviolento PA)

martedì 12 dicembre 2023

No al Natale militarizzato: succede a Modena...

       In una piazza di Modena per le festività natalizie è stato allestito un carro armato… 
Ecco il comunicato stampa del Movimento Nonviolento modenese 
“Sarà segno dei tempi tristissimi in cui viviamo, in cui guerre, bombe, missili e armi di ogni tipo sono entrati a fare parte della nostra vita di ogni giorno, soprattutto da quando è vicinissima a noi la guerra tra Russia e Ucraina e un'altra divampa in Palestina e Israele con una ferocia senza precedenti.
Sta di fatto che la guerra e i suoi simboli ci stanno diventando famigliari, ci stiamo abituando alle città rase al suolo e alle migliaia di morti, soprattutto civili e bambini, che ci vengono raccontati quasi come una spiacevole, inevitabile conseguenza dell'altrettanto spiacevole, ma inevitabile ricorso alla guerra per risolvere le controversie. Entra nelle nostra case la “normalità” della guerra e delle sue conseguenze.
Forse per questo anche Babbo Natale si è adeguato allo spirito dei tempi e ha deciso quest'anno di arrivare a Modena a bordo di un carro armato. Può darsi che siamo troppo schizzinosi ... (continua nel blog del Movimento nonviolento di Palermo
Il Movimento Nonviolento di Modena
Modena,  9 dicembre 2023

Qui la protesta dell'Osservatorio contro la militarizzazione delle Scuole e delle Università

domenica 10 dicembre 2023

"The old oak", accorato appello di Ken Loach all'umanità

  Palermo – Con The old oak, uscito nelle sale italiane il 26/11 scorso, l’ottantasettenne Ken Loach rivolge al suo pubblico, se non un vero e proprio commiato, un appello etico estremo e accorato.
     Chi ha visto i precedenti lavori di Loach, percepisce infatti in questo film (il 28° del regista britannico, girato ancora una volta in collaborazione con lo sceneggiatore Paul Laverty) una cifra espressiva diversa, meno combattiva, più malinconica e dolente. 
     Certo, anche in quest’ultima pellicola c’è la denuncia per le diseguaglianze sociali, lo sguardo attento verso gli ultimi e gli emarginati, l’analisi puntuale di temi quali il razzismo, i pregiudizi, gli assurdi conflitti di interesse tra i poveri. Pur non arretrando quindi di un passo rispetto alle sue posizioni, qui però il regista assume lo sguardo mite, silenzioso e attento di TJ Ballantain, proprietario di un pub piuttosto malmesso – il cui nome è, appunto, The old oak (La vecchia quercia) - che si trova in un piccolo comune in declino, a due passi dal mare, nella contea di Durham, vicino a Newcastle, un tempo zona di miniere.
       Quando in paese arriva un gruppo di profughi siriani che alloggeranno in vecchie case ormai abbandonate, un abitante del paese, urtato dal fatto che sta scattando delle foto, scaraventa a terra, danneggiandola, la macchina fotografica di una ragazza siriana, Yara. Mosso a compassione, TJ gliela fa riparare e stringe con Yara, che parla inglese ed è appassionata di fotografia, un profondo legame di amicizia.
   Andando oltre l’opposizione sorda e tenace degli abituali frequentatori del pub, TJ e Yara rimettono in sesto il retrobottega del pub con l’aiuto dei sindacati e della chiesa locale, per offrire pasti gratuiti sia ai siriani che agli abitanti del luogo che se la passano male. Ripetono così l’esperienza già fatta in paese negli anni ‘80, ai tempi delle lotte contro la politica della Tatcher, quando si preparavano insieme i pasti per i lavoratori in sciopero e le loro famiglie. La vicenda avrà poi un’evoluzione che ovviamente qui non si racconta. 
Pur essendo una fan del cinema di denuncia sociale di Loach, la scrivente ritiene però che, da un punto di vista meramente artistico, The old oak abbia un limite: è troppo esplicito e didascalico. La morale del film è dichiarata in modo palese attraverso i dialoghi tra i protagonisti - piuttosto scontati e prevedibili - anziché desumersi dalla loro evoluzione psicologica o dalle vicende narrate.

    Ciò nonostante, il film rimane limpido e potente. Come le altre pellicole di Ken Loach, si tratta di un film ‘necessario’ che, seppure con una narrazione ‘didattica’, mostra con chiarezza l’assurdità dei pregiudizi dettati da paura e ignoranza, l’insensatezza della chiusura del cuore alle necessità degli altri, il vicolo cieco dell’odio e della violenza sui più deboli, spesso solo frutto di rabbia e di questioni personali irrisolte.
    Anche in The old oak, Loach non si stanca di ripetere tra le righe che oggi si è vittime di un sistema economico che stritola i meno garantiti e rende tutti un po’ naufraghi, senza un porto sicuro. 
   Le parole pronunciate da Yara: “Ci vuole coraggio per sperare …Ma se smetto di sperare il mio cuore smette di battere… E io, quando guardo attraverso questa fotocamera, scelgo di vedere qualche speranza", fanno parte sono del messaggio finale consegnato agli spettatori. Ken Loach ci esorta quindi ad abbandonare la strada vecchia della rabbia, dell’indifferenza, della paura per camminare insieme lungo la via maestra della misericordia e della solidarietà, coltivando sempre, nonostante tutto, semi di speranza. Per rimanere umani.

Maria D'Asaro, 10.12.23,  il Punto Quotidiano

giovedì 7 dicembre 2023

Guterres: fermate la catastrofe. Addio ad Hiba Abu Nada

Hiba Abu Nada
       In una lettera al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il segretario Antonio Guterres ha invocato l'articolo 99 della Carta dell'Onu, lo strumento diplomatico più potente nelle mani di un segretario generale, per portare all'attenzione del Consiglio la crisi nella Striscia di Gaza: "una questione che a mio avviso potrebbe aggravare le esistenti minacce al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale".
    Guterres scrive che "la situazione si sta rapidamente deteriorando fino a diventare una catastrofe, con implicazioni potenzialmente irreversibili per i palestinesi nel loro insieme e per la pace e la sicurezza nella regione".
Antonio Guterres
       "Un simile esito deve essere evitato a tutti i costi - aggiunge Guterres - e la comunità internazionale ha la responsabilità di usare tutta la propria influenza per scongiurare un'ulteriore escalation e mettere fine alla crisi. Invito i membri del Consiglio di sicurezza ad adoperarsi per scongiurare una catastrofe umanitaria. Rilancio il mio appello per la dichiarazione di un cessate il fuoco umanitario. E' urgente". L'articolo 99 della Carta Onu recita che "il Segretario Generale può richiamare l'attenzione del Consiglio di Sicurezza su qualunque questione che, a suo avviso, possa minacciare il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale". (dal sito di RaiNews)

      Hiba Abu Nada, nata nel 1991 alla Mecca, in Arabia Saudita, ha studiato all'Università Islamica di Gaza, dove ha conseguito una laurea in biochimica, e poi un master in nutrizione presso l'Università al-Azhar di Gaza. E’ stata una poetessa e romanziera palestinese Ha fatto anche parte del Movimento Wikimedia e si è classificata al secondo posto alla ventesima edizione del Premio Sharjah per la creatività Araba, nel 2017. Ha prestato servizio volontario su Wikipedia nel 2021 come partecipante ad un programma WikiRies di apprendimento a distanza.
     Il 20 ottobre 2023 è stata uccisa in un attacco aereo dell'aeronautica israeliana che ha colpito la sua casa a Khan Yunis; aveva 32 anni. (da Wikipedia)

martedì 5 dicembre 2023

Il mito di Sisifo

    “Sisifo, il suo mito, racchiude tutte le grandi domande esistenziali sul dolore, la morte, il lutto, i riti di cordoglio, la fatica di vivere, la felicità umana (…).  Sisifo rappresenta l’umanità che è sempre in cammino in salita e in discesa, nonostante i tanti limiti dell’esistenza, nonostante il macigno che ognuno di noi, tra le mille avversità della vita, continua, malgrado tutto, a spingere, contro tutto e tutti (compreso Dio) anche se il finale è già noto, perché «la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo»[1] (…)

     Silvano Arieti ha elaborato una visione ‘al contrario’ del mito di Sisifo per definire l’uomo creativo, partendo dall’assunto che è nell’essenza dell’uomo che stanno le radici della creatività ed interpretando ciò in termini vichiani, come la funzione di un certo finito che tende verso l’infinito. Egli afferma che, mentre Sisifo è desinato a spingere pesanti massi sulla cima delle montagne, massi che rotolano indietro e devono essere risospinti verso l’alto, l’uomo creativo non parte di nuovo dalla base della montagna, ma da dove gli altri si sono fermati; e quando raggiunge la cima della montagna, poiché l’infinito non può essere conquistato, egli trova altre e più alte montagne da scalare.

    Così mentre Sisifo è costretto a ridiscendere sempre, l’uomo creativo, al contrario, deve salire all’infinito. Però ad ogni traguardo raggiunto, ad ogni vetta conquistata, pur non essendo l’ultima, si aprono ai suoi occhi orizzonti sempre più ampi, di cui gioisce, percependo che la sua fatica non è stata vana, in quanto questi orizzonti saranno condivisi dall’umanità tutta. «Così, ciò che è rimasto incompiuto come ascesa cognitiva trova un termine come atto di amore sociale»[2]



Paola Argentino: La spiritualità è cura: la forza dell’amore nel dolore
 Mondadori, Milano, 2023
(un libro davvero speciale, a breve la recensione)




[1] A.Camus, Il mito di Sisifo, in Opere, Milano, Bompiani, 2003, p.319

[2] Ivi, p.449

domenica 3 dicembre 2023

Preziosa Salatino, icona (palermitana) del teatro impegnato

       Palermo - Preziosa Salatino, classe 1980, calabrese di nascita, ma palermitana per scelta dal 2005: attrice, autrice e, soprattutto, operatrice culturale impegnata e poliedrica. Un’artista assai nota e apprezzata, unica e ‘preziosa’ nel panorama culturale e nel variegato tessuto sociale cittadino. 

Vale la pena iniziare proprio dall’origine del nome, raro e impegnativo…

“Il mio nome ha un’origine familiare: sono nata a Rossano, un paesino calabrese in provincia di Cosenza e mia nonna paterna si chiamava così. Poiché sono la nipote primogenita, semplicemente mi toccava ereditarne il nome. Confesso che si è trattato di un nome ‘pesante’ e impegnativo, soprattutto da bambina: ‘non fare la preziosa’ oppure ‘preziosa di nome e di fatto’ , queste alcune delle tante battute che mi erano rivolte… Un nome così particolare mi ha imposto di mettere da parte la timidezza, perché, ad esempio, se chiamavano l’appello in classe l’attenzione si fermava su di me e su di me si posavano gli sguardi. Ho cominciato ad apprezzare di chiamarmi così quando, dopo la maturità classica, mi sono trasferita a Roma, per frequentare Storia del Teatro e dello Spettacolo all’Università di Roma 3. Lì ho iniziato a fare teatro: chi mi conosceva era incuriosito e attratto dal mio nome e, addirittura, mi veniva chiesto se non fosse un nome d’arte! Allora ho realizzato quanto fosse adatto alla mia scelta professionale e di vita”.

Dunque, come dicevano i Latini, nomen omen: in un nome così evocativo e inusuale era forse già iscritta una vocazione. Che matura quando e come?

 “Il mio interesse per il teatro nasce a sedici anni, quando a scuola, al liceo, partecipo a un laboratorio condotto da Ciccio Tedesco (formatore, animatore ed educatore di strada, counselor in teatro-terapia), condotto con la metodologia del ‘Teatro dell’Oppresso’: lì noi studenti potevamo esprimerci e comunicare il malessere per i nostri vissuti, il nostro disagio… Ho avuto una sorta di folgorazione: ho capito allora che il teatro non ha solo una valenza artistico-estetica, ma è anche qualcosa che può migliorare e cambiare la realtà, sia dei singoli che a livello sociale. Ho intuito in quell’occasione il potere trasformativo del teatro e ho deciso che quello sarebbe stato il mio percorso umano e professionale”. 


Da qui la decisione di studiare teatro a Roma. La tua formazione e le tue prime esperienze?

“Intanto non è stato facile nel 1999 trasferirmi a Roma per studiare. A Roma, per vivere e mantenermi agli studi, ho sempre lavorato: ho fatto la cameriera, la baby sitter, la guardarobiera… E studiavo moltissimo: collezionavo 30 e lode sia perché mi appassionavo alle varie discipline sia perché dovevo avere una media alta per mantenere la borsa di studio prevista per i fuorisede. A parte il Dams, non ho seguito una formazione accademica, ma ho frequentato vari corsi e laboratori imparando il più possibile da grandi professionisti: l’uso della voce e del canto dallo specialista Mauro Tiberi, commedia dell’arte e mimo corporeo da Michele Monetta, il teatro di narrazione da Marco Baliani, Vincenzo Pirrotta, Ascanio Celestini e Mimmo Cuticchio. Nel 2001, prima della laurea, ho un’opportunità straordinaria: studiare per un anno a Parigi con l’Erasmus…”.

E a Parigi c’è un incontro importante…

“A Parigi, oltre a studiare presso l’Università Paris 8, frequento diversi seminari presso il Centre Théatre de l’Opprimé e ho l’opportunità di lavorare direttamente con Augusto Boal e con suo figlio. La fine del 2001 e il primo semestre del 2002 sono intensi e fecondi: imparo il francese, faccio esperienza diretta di Teatro dell’Oppresso, comincio a scrivere la mia tesi che avrà questo titolo: Il teatro dell’Oppresso nel passaggio dall’America Latina all’Europa”.

Chi è Augusto Boal e che cos’è il ‘Teatro dell’oppresso’?

“Sebbene Boal negli anni ’80 abbia percorso l’Italia presentando il suo metodo e realizzando spettacoli e laboratori per un pubblico assai vasto, il Teatro dell’Oppresso, apprezzato in ambito sociale ed educativo, è quasi ignorato dal mondo teatrale accademico. Nel mio saggio ‘Il teatro dell’oppresso nei luoghi del disagio – Pratiche di liberazione’ – scritto nel 2011, grazie al concorso letterario ‘Giri di Parole’ – racconto la storia di questa sorta di ‘rivoluzione culturale’ (e politica) combattuta coi mezzi del teatro, che dal Brasile, in cui è nata, si è diffusa nell’arco di 50 anni in decine di Paesi in tutto il mondo. Il nome ‘Teatro dell’Oppresso’ (TdO), è piuttosto infelice, si dovrebbe dire invece ‘Teatro per la liberazione dell‘Oppresso’. Si tratta di un metodo nato sotto la dittatura brasiliana negli anni ‘60 e diffusosi in Europa dagli anni ’80 in poi, a seguito dell’esilio forzato del suo fondatore Augusto Boal, regista brasiliano esiliato in Francia negli anni ’70 a causa della dittatura esistente nel suo Paese, e morto a Rio de Janiero nel 2009, nel Brasile ormai democratico. La metodologia teatrale da lui elaborata, il cosiddetto Teatro dell’Oppresso, è una forma di teatro che oggi si muove in una zona di confine: fra politica e terapia, fra teatro e animazione sociale. Il nome è mutuato dalla Pedagogia degli Oppressi di Paulo Freire, pedagogo brasiliano non molto conosciuto molto in Italia. In origine il TdO nasce come teatro politico, sociale, popolare, come atto di protesta al regime dittatoriale, e strumento artistico di liberazione: si diffonde fra i contadini latinoamericani analfabeti, fra i dissidenti clandestini, con lo scopo di stimolare un dibattito su temi attuali davanti a persone che ignorano di assistere a una finzione”.

Al ritorno a Roma, nel 2003, la laurea a pieni voti, un biennio di formazione a Reggio Emilia presso la Cooperativa Giolli e diversi seminari presso il Centre Théatre de l’Opprimé di Parigi, il titolo di operatrice di Teatro dell’Oppresso. Anche un anno di Servizio Civile. Ma, nel 2005, il trasferimento a Palermo. Come mai?
“Nel 2004 ho occasione di venire a Palermo per fare varie attività con Mimmo Cuticchio, puparo e ‘cuntista’ fondamentale per la mia formazione: Palermo mi ha subito folgorata. Sono stata attratta dalla sua atmosfera, dalla sua ricchezza culturale, dai suoi spazi, dalla sua gente. In città ho conosciuto anche Sergio Di Vita, operatore e formatore del Tdo, che mi diede allora tutto il necessario supporto materiale per potere vivere in una città nuova. Ho sentito che Palermo sarebbe stata la mia meta elettiva, la mia Itaca…”.

E poi, la conoscenza con il regista Emilio Ajovalasit, con cui inizia un fecondo sodalizio artistico e affettivo. Insomma, vi sposate! E nel 2006 fondate il Teatro Atlante. Cosa c’è dietro a questo nome e a questa – ormai quasi ventennale – esperienza teatrale, culturale e sociale?

“Il nome di quest’associazione culturale è legato al Mago Atlante, che nell’Orlando Furioso crea un castello incantato per attirarvi i paladini, mentre il logo richiama Atlante che, secondo la mitologia greca, è costretto da Zeus a reggere la volta celeste.  Il nostro primo spettacolo è stato ‘Il principe e la rondine’, di Oscar Wilde, uno spettacolo per bambini. E l’attenzione verso bambini e ragazzi non è mai venuta meno: abbiamo fatto ogni tipo di laboratori teatrali, specie con i ragazzi più disagiati, soprattutto quelli del quartiere Albergheria. Da allora abbiamo continuato con attività teatrali e laboratori nelle scuole e nelle piazze, in carcere e in strada, per grandi e bambini: quindi, dal 2006 ci occupiamo di produzione, formazione e ricerca teatrale, con uno sguardo attento verso la realtà che ci circonda, in una continua contaminazione fra teatro e vita. Collaboriamo con scuole, associazioni, teatri, singoli artisti, enti pubblici e privati sul territorio cittadino e nazionale: insomma, una rete di persone con cui negli anni si è costituita una vera e propria comunità. Nel 2011 abbiamo preso in affitto una piccola sala nel centro storico di Palermo che è diventata luogo di aggregazione e presidio culturale. Nel 2019, incoraggiati dal crescente numero di allievi e di spettatori, abbiamo potuto acquistare una nuova sede, uno spazio un po’ più grande nel quartiere storico della Kalsa, in via Vetriera: lì, oltre a una sala per i laboratori, abbiamo uno spazio scenico con gradinata che può accogliere fino a 70 persone, comunque una dimensione quasi ‘intima’ che consente di valorizzare il rapporto ravvicinato fra attori e spettatori. Date le piccole dimensioni dei nostri spazi, gli aspetti più comunitari del nostro fare teatro hanno sempre trovato il loro naturale palcoscenico in strada, nelle piazze, ma anche negli ospedali e in ogni luogo disponibile ad ospitare la nostra attività”.


Avete poi realizzato i ‘Classici in Strada’…

“Questa esperienza nasce quando sono stata chiamata a tenere dei laboratori presso un liceo scientifico palermitano. Discutendone con i professori Isabella Tondo (docente di italiano in quel liceo) e Andrea Cozzo (docente universitario di letteratura greca) nasce l’idea di organizzare degli spettacoli teatrali all’interno delle scuole o direttamente nelle piazze e nelle strade, perché tutti – anche chi non aveva mai assistito a una tragedia in un teatro come quello di Siracusa – potesse fruire dei Classici, appunto in Strada. Così nel 2013 a Ballarò, nel quartiere Albergheria di Palermo, abbiamo portato per la prima volta in strada l’Iliade e l’Odissea, in collaborazione con gli studenti del liceo scientifico ‘Benedetto Croce’ e con gli alunni della scuola primaria ‘Francesco Paolo Perez’.  In quell’occasione abbiamo anche utilizzato una delle tecniche del Teatro dell’Oppresso, il Teatro Forum: mentre si metteva in scena un conflitto (ad esempio, nell’Iliade, quello tra Agamennone e Achille, o nell’Odissea, il dramma di Penelope che attendeva da anni il ritorno di Ulisse), un conduttore coinvolgeva persone del pubblico chiedendo che strategia avrebbero utilizzato, se fossero stati al posto del personaggio in scena… C’è stato un grande coinvolgimento partecipativo. Dal 2013 a maggio/giugno scorso, la rete di insegnanti, scuole e persone coinvolte si è allargata fino a comprendere oggi 25 Istituti di ogni ordine e grado, insieme ad associazioni di volontariato, soggetti privati, con il patrocinio del Comune di Palermo e il sostegno dell’USR (Ufficio Scolastico Regionale) di Palermo. Abbiamo portato in piazza il Decameron, l’Orlando Furioso, le Supplici, l’Antigone… Siamo riusciti a mescolare, a mio avviso in modo fecondo e costruttivo, persone, esperienze, saperi, nei quartieri anche dimenticati della città”.

Avete quindi portato i ‘Classici in strada’ anche in carcere: dove e quando?

 “Per tre anni consecutivi, nel 2015, 2016, 2017 – in collaborazione con l’associazione AS.VO.PE. che si occupa di volontariato nelle carceri – ho condotto laboratori teatrali all’interno del carcere palermitano dell’Ucciardone, con un gruppo di detenuti che hanno recitato su testi di Omero e di Esopo. ‘Possiamo dirla in siciliano questa battuta?’ – mi chiesero un giorno dei detenuti. Lasciai che si appropriassero di Omero e lo rendessero dicibile anche in dialetto siciliano. Ripetevano le parti nelle loro celle. Gli spettacoli, a cui hanno assistito educatori, magistrati, la direttrice del carcere e varie persone esterne, furono un successo. I detenuti, durante quelle esperienze teatrali, si sono sentiti protagonisti, forse per la prima volta ‘attori positivi’ del loro futuro. Fare teatro in carcere è stata la mia esperienza umana e professionale più arricchente e difficile: non c’è stato mai alcun problema nelle prove con i detenuti, ma ovviamente il mio dispendio di attenzione e di energie era enorme e uscivo assai provata dall’Ucciardone”.

Come mai i ‘Classici in strada’ non sono tornati in carcere dopo il 2017?

“Il mondo del carcere e di chi ci opera è complesso, difficile, pieno di timori e di equilibri difficili da gestire. C’è stato il Covid e c’è stata la paura, da parte dei responsabili, di rischiare troppo ripetendo il progetto. Il mio sogno è che l’esperienza possa un giorno continuare: magari con laboratori integrati che includano insieme la presenza, oltre che dei detenuti, anche di educatori e di poliziotti penitenziari”.

Ritornando a oggi, cosa bolle in pentola? 

“L’iniziativa futura che mi sta più a cuore ha a che fare con la Poesia con la P maiuscola: sto lavorando alla terza edizione del Festival di Poesia Performativa, che dovrebbe tenersi a Palermo il 22, 23 e 24 marzo 2024. Nonostante le difficoltà del periodo pandemico, la prima edizione del Festival fu realizzata nell’ottobre del 2021 ai Cantieri culturali della Zisa, tenuta a battesimo da un ospite d’eccezione: il poeta Bruno Tognolini (autore della Melevisione e di varie raccolte di rime per grandi e bambini). L’idea è nata nel 2013, quando, dopo un progetto sulla poesia orale condotto in un Istituto superiore, è stato realizzato l’evento ‘Poesie gratis’: il 21 marzo, per la Giornata Mondiale della Poesia, davanti al Teatro Massimo di Palermo, una ventina di studenti diciassettenni fermava gli ignari passanti chiedendo: ‘Posso regalarti una poesia?’ e recitandola così occhi negli occhi. Tra gli studenti, ce n’era uno davvero appassionato, Giuseppe Di Vincenzo (oggi medico specializzando in Psichiatria a Ferrara). Anche grazie a lui, l’evento della ‘Poesia gratis’ si è ripetuto il 21 marzo puntualmente nei dieci anni a venire. Giuseppe e io nel 2020 decidiamo di pubblicare le nostre poesie in un testo dal titolo ’64 anni’ (la somma dei miei 40 di allora e dei 24 di Giuseppe), per diffondere e condividere la forza della poesia orale e performativa e finanziare il progetto del Festival. I lettori hanno comprato il libro, sostenendo economicamente il progetto e così, nel 2021 è nato P/Atto – Poesia in Azione. Se ci pensiamo, la parola ‘Poesia’ viene dal greco ‘Poieo’ che significa proprio fare, creare…”.

Infine, un consiglio a chi vuole fare l’attore/attrice di teatro?

 “Intanto deve essere chiara la differenza di base tra attori di Cinema e attori di Teatro: facendo solo teatro non si diventa quasi mai, anzi mai, né ricchi né famosi. C’è poi una formazione diversa: per il cinema si fanno specifiche scuole di recitazione e poi provini, il casting, cioè la selezione per prendere parte a un film… Per fare teatro, soprattutto il teatro come lo intendo io, con una ricaduta sociale, bisogna mettere da parte l’esaltazione del proprio Ego, studiare tantissimo, frequentarlo tanto, crearsi un gusto, cercare poi i propri maestri, più che fare rigidi percorsi accademici. Bisogna saper usare il corpo e la parola. Chi vuole fare l’attrice di teatro, a mio avviso, deve essere mosso da una forza, da un’energia precisa e da una sorta di necessità: una necessità al contempo sociale e personale, la volontà di migliorare sé stessi e il proprio contesto sociale. Oggi il teatro di massa ha un po’ dimenticato, a mio avviso, questa vocazione originaria, concentrandosi solo sulla bellezza estetica. Con il Teatro Atlante proviamo a mettere assieme bellezza, consapevolezza e possibilità di cambiamento”.

Buon lavoro e grazie di cuore, Preziosa. Che merita di essere salutata parafrasando al femminile la chiusa di un poema di Brecht: “Non dite: quella donna è un’artista. Dite piuttosto: è un’artista perché è una donna”.

                                                                                       Maria D’Asaro, 3.12.23 il Punto Quotidiano

sabato 2 dicembre 2023

"A volte sono oggetto" ...

     Fra le tante fortune della scrivente, c’è quella di aver conosciuto, attraverso il blog, persone assai belle: come Franco Battaglia (qui un assaggio di In risposta al cosa manca, sua delicata raccolta poetica) e come Santa Spanò, blogger (e tanto altro) davvero speciale,  che nel 2019 ho avuto il prio di incontrare a Palermo.
    Da Santa, qualche mese fa, ho ricevuto una raccolta di poesie dell’autrice modenese Silvia Borghi, raccolta impreziosita da prefazione, foto, disegni e opere di grafica al computer della stessa Santa.
    In anteprima, un assaggio delle liriche dove “tutto sembra scorrere lentamente, una lentezza che non abbiamo più l’abitudine di vivere, immers3 (1)  come siamo nella velocità e nella compulsione, questa raccolta si caratterizza per una grazia spartana, i contenuti non sono urlati, né descritti nell’esperienza soggettiva: Silvia Borghi intona melodie in un teatro volutamente vuoto lasciando a noi che leggiamo la libertà di intonarle e accordarle con le nostre armonie interne”  (dalla Prefazione)





Aperta,
mi lascio pensare,

Fossili d’ali
oltre i miei timpani
nuotano al sogno
e giocano
a rimboccarmi il mare.








Stringo pugni di sabbia
dietro al muro
mentre invento
la luce.

L’alba invecchia
sui petali
delle cose.



Posso offrirti lo Spazio
del ritorno,
la corsa liquida
tra gli argini,
dietro l’aquilone
spento
sul prato


Silvia Borghi A volte sono oggetto,  con prefazione e opere di Santa Spano'
Ed. Artestampa, Modena, 2023


(1)   In questa pubblicazione si sperimenta l’adozione di un linguaggio più inclusivo: al maschile sovraesteso si sostituisce il fonema ‘ə’ (al singolare) e ‘3’ per il plurale

giovedì 30 novembre 2023

Vita da blogger: i 15 anni di Mari da solcare

    Oggi nostra signora, con una certa commozione, spegne idealmente le candeline per il 15° compleanno del blog.
   La sua vita da blogger è iniziata infatti l’assai lontano 30 novembre 2008, con il Battesimo degli alberi, primo pezzo di una rubrica, 150 parole da Palermo, tenuta per otto anni sul settimanale 100nove, sino alla chiusura del giornale cartaceo. 
   Nei primi anni molta (troppa?!)  introspezione, con pezzi personali come What’s your name? 
   Poi l’angolo della poesia con decine di petit onze, e l’attenzione particolare a poetesse come Wislawa Szymborska (splendide sue liriche qui, qui e qui).
   Tante recensioni (oggi siamo a quota 100, con La vampa d'agosto di Camilleri e quella su un testo dedicato a padre Pino Puglisi, scritto a quattro mani da Augusto Cavadi e don Cosimo Scordato), insieme alle riflessioni ecologiste e nonviolente
    Dal 2018 la collaborazione con il giornale on line ‘Il Punto Quotidiano’, che le ha permesso di realizzare un’aspirazione antica: iscriversi all’Ordine dei giornalisti, con il mitico tesserino rosso!  Ogni domenica un pezzo: gli articoli, in sei anni di attività, domenica 10 dicembre saranno 300…
    Quest’anno poi, per nostra signora un ulteriore desiderato traguardo: le sue lettere sparse a Peppino Impastato, Andrea Camilleri, Franco Battiato, Giuliana Saladino, Alex Langer e compagnia bella ultraterrena, grazie alla fiducia della casa editrice Diogene Multimedia di Bologna, sono diventate il suo primo libro di carta: ‘Una sedia nell’aldilà’.
   Qui un po' di foto di una presentazione del testo a Palermo.
E la scrittura intesa come divertimento e leggerezza...

   Grazie di cuore a lettrici e lettori cortesi e gentili che continuano a navigare nel blog. La scrivente cercherà di far trovare a tutte/i  qualcosa di attraente e nutriente e, forse, un po' di bellezza. E un piccolo porto dove salpare per orizzonti di impegno, di umanità e di speranza.
      Un abbraccio virtuale e buona navigazione.