venerdì 31 luglio 2020

Possiamo salvare il mondo prima di cena?

     Nel 2018, pur sapendo più di quanto abbiamo mai saputo sull’origine umana dei mutamenti climatici, l’umanità ha prodotto più gas serra che mai […]. Esistono spiegazioni dettagliate: il crescente consumo di carbone in Cina e in India, un’economia globale in espansione, stagioni con temperature insolitamente estreme che hanno reso necessari picchi di consumo energetico per il riscaldamento e il rinfrescamento. Ma la verità è tanto ovvia quanto cruda: non ce ne importa nulla.

     E’ naturale partire dal presupposto che, per mettere insieme la volontà necessaria ad affrontare la crisi del pianeta, dovremmo mettere insieme il coinvolgimento necessario. Avremo bisogno di considerare la Terra come la nostra unica casa, non in senso figurato, non a livello intellettuale ma a livello viscerale. Per usare le parole dello psicologo e premio Nobel Daniel Kahneman, uno dei primi studiosi a capire che la nostra mente ha una modalità lenta (deliberativa) e una veloce (intuitiva): «Per mobilitare le persone, questa (la crisi climatica) deve diventare una questione emotiva». Se continuiamo a sentire lo sforzo di salvare il nostro pianeta come una partita fuori casa di metà campionato, non avremo speranza.

J.Safran Foer Possiamo salvare il mondo prima di cena,
Guanda, Milano, 2019, €18: pagg. 44 e 38

mercoledì 29 luglio 2020

Respira


Regola

Con sapienza

E nuovo coraggio

Le lancette del cuore

Respira...                                                 







(dalla pagina FB dell'amica Daniela Cucè, che ringrazio)

domenica 26 luglio 2020

"L'arte di essere maschi" senza violenza



         Palermo - Ci sono libri la cui importanza è inversamente proporzionale al loro piccolo formato. E’ il caso del libretto L’arte di essere maschi libera/mente di Augusto Cavadi (Di Girolamo Ed., Trapani, 2020, € 13,90) in cui, con un linguaggio assai chiaro, l’autore ha il merito di fare il punto su una questione delicata e dolorosa quale quella della violenza sulle donne, indicando ai lettori una diagnosi e una possibile terapia. 
     
       Il testo nasce dalle riflessioni maturate a Palermo da un gruppo di uomini che si incontrano - dal 2015 ad oggi - per confrontarsi sul tema della violenza sulle donne, sulla scia del gruppo “Uomini in cammino”, coordinato a Pinerolo da Beppe Pavan, e del movimento italiano “Maschile plurale”.

     Cavadi sgombra subito la questione da un equivoco, spesso alimentato dai media, che etichettano come ‘emergenza’ i casi di femminicidio; e avanza un parallelismo con la violenza mafiosa, affermando che “Come la mafia quando non spara non è meno insidiosa di quando uccide platealmente, così la violenza maschile non è meno perniciosa quando non esplode in casi eclatanti”. Allora: “Il contrasto alla violenza maschile – proprio come il contrasto al dominio mafioso – non può profilarsi con i caratteri della ‘emergenza’ occasionale: deve far parte, piuttosto, di una strategia di lungo periodo che si basi sulle radici del fenomeno che si vuole estirpare”.

     Dove ricercare tali radici? In un “ordine patriarcale oppressivo” che appare “naturale, neutrale, ovvio” che ha invece un radicamento biologico - “una struttura anatomica più solida e più avvantaggiata dal punto di vista della difesa e dell’attacco fisici”- e una collocazione storica precisa in ambito socio-economico e giuridico-culturale: per secoli l’uomo è stato proprietario e gestore dei beni materiali e la donna non ha avuto accesso al mondo del lavoro perché ad essa è stata demandata la cura esclusiva della famiglia e della prole. In Italia, sino al 1942, il Codice civile prevedeva l’autorizzazione del marito perché la moglie potesse sottoscrivere un contratto di lavoro, mentre bisognerà aspettare la riforma del diritto di famiglia del 1975 perché sia definitivamente superata la “potestà maritale” che, tra le tante limitazioni, escludeva le donne dalla tutela legale dei figli e dalla possibilità di ricevere beni in eredità.

      In questo contesto, sino alla metà degli anni ’90, lo stupro era considerato un reato contro la morale e non contro la persona: Addirittura, con le motivazioni espresse in alcune sentenze, qualche giudice ha avallato il pesante pregiudizio che la donna vittima di violenza “se l’era andata a cercare”. Cavadi ci ricorda poi che anche l’universo simbolico-religioso ha avuto un ruolo nel legittimare il sistema del ‘patriarcato oppressivo”: nel mondo greco il pensiero filosofico e la prassi legislativa prevedevano una completa subordinazione della donna alla figura maschile; mentre oggi nelle tre religioni prevalenti (ebraismo, cristianesimo, islamismo) “siamo all’interno di un’idea del Divino antropomorfica e sessista da cui non è per nulla facile liberarsi.”Dio, per quanto non abbia sesso, ha però da migliaia di anni un genere: il genere maschile. […] Come non pensare allora che questa millenaria identificazione culturale di Dio con la maschilità non abbia conseguenze nella società umana?”. Citando una teologa, Cavadi sottolinea che “sino a quando Dio viene concepito sempre e solo come Maschio, il maschio (non necessariamente credente, confessante, praticante) avvertirà la tentazione di concepirsi come dio”.   L’autore passa poi in rassegna le obiezioni più frequenti a tale analisi: tra esse, quelle che lo scenario maschilista e patriarcale sia ormai anacronistico, e che la violenza sia un dato antropologico ineliminabile, per cui “ammesso che gli uomini che esercitano violenza sulle donne siano più numerosi delle donne che la esercitano sugli uomini, essi feriscono e uccidono non in quanto maschi, ma in quanto violenti”.  A queste obiezioni, si controbatte che, se è vero che “la violenza che si consuma ogni ora sul pianeta non è solo quella ai danni delle donne in quanto tali […] nel caso della violenza maschile contro le femmine […]ci troviamo probabilmente alla radice di tutte le manifestazioni, alla madre di tutte le violenze.” Viene infatti evidenziato che il modello virilistico, militaristico, bellicistico, l’uomo “che non deve chiedere mai” “è la prima radice e il primo paradigma di ogni violenza, di ogni oppressione”. Si registra infatti in tutte le epoche “una concatenazione fra l’esercizio della violenza da parte degli uomini, le attività belliche e i tratti tradizionali della maschilità”.

Se questa è la diagnosi, quale la terapia?

Il gruppo “Noi uomini a Palermo contro la violenza sulle donne” invita tutti gli uomini a essere responsabili del modello socio-culturale di maschio che ognuno vuole incarnare, consapevoli che “mettere in discussione l’assetto culturale e sociale prevalentemente androcentrico è un gesto non solo di equità verso le donne, ma almeno altrettanto di cura verso noi stessi”. L’invito è allora quello di “abbattere le corazze di cui la maschilità è da millenni rivestita”, corazze che impediscono agli uomini di vivere appieno la loro umanità che include capacità di cura, emozioni e sentimenti ed empatia.

Nella post-fazione Francesco Seminara – uno dei componenti del gruppo palermitano – indica alcuni antidoti alla violenza maschile: la destrutturazione degli stereotipi di genere che fondano la cultura maschilista e patriarcale; la pratica, da parte maschile, di professioni di cura, quali quella di maestro di scuola e/o di infermiere; la riacquisizione della parità genitoriale in caso di separazione; la scoperta della propria dimensione sentimentale, che includa la dolcezza e la tenerezza, perché, come affermato in un testo citato: “Il mondo è pieno di parole maschili in ogni campo del sapere e del potere […]. Spesso questa parola maschile […] ha nascosto un grande silenzio sui propri sentimenti. Rompere questo silenzio su sé stessi è una frontiera del cambiamento maschile, nel nostro tempo”.

   Ecco allora infine il convincente appello di “Maschile Plurale”, in occasione del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne: ”Quando il disprezzo per le donne, l’ostentazione del potere e le minacce contro i gay e gli stranieri diventano modelli di virilità […] dobbiamo reagire: come uomini prima ancora che come cittadini. Sentiamo la responsabilità di impegnarci come uomini, contro la violenza che attraversa la nostra società e le nostre relazioni. […] Non ci sentiamo ‘protettori’ né ‘liberatori’. Sappiamo che le donne non sono affatto deboli. La loro libertà, la loro autonomia […] non sono una minaccia per noi uomini e nemmeno una concessione da far loro per dovere. Sono un’opportunità per vivere una vita più libera e ricca.”

Per camminare insieme verso orizzonti di una comune libertà e felicità.

Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 26.07.2020

giovedì 23 luglio 2020

Archeologia

E allora, poveruomo,
nel mio campo c’è stato un progresso.
Sono trascorsi millenni
da quando mi chiamasti archeologia.

Non mi servono più
dèi di pietra
e rovine con iscrizioni chiare.

Mostrami di te il tuo non importa che,
e ti dirò chi eri.
Di qualcosa il fondo
e per qualcosa il coperchio.
Un frammento di motore. Il collo d’un cinescopio.
Un pezzetto di cavo. Dita sparse.
Può bastare anche meno, ancora meno.

Con un metodo
che non potevi conoscere allora,
so destare la memoria
in innumerevoli elementi.
Le tracce di sangue restano per sempre.
La menzogna riluce.
Si schiudono i codici segreti.
Si palesano dubbi e intenzioni.

Se solo lo vorrò
(perché non puoi avere la certezza
che lo vorrò davvero),
guarderò in gola al tuo silenzio,
leggerò nella tua occhiaia
quali erano i tuoi panorami,
ti ricorderò in ogni dettaglio
che cosa ti aspettavi dalla vita oltre alla morte.

Mostrami il tuo nulla
che ti sei lasciato dietro,
e ne farò un bosco e un’autostrada,
un aeroporto, bassezza, tenerezza
e la casa perduta.

Mostrami la tua poesiola
e ti dirò perché
non fu scritta né prima né dopo.

Ah, no, mi fraintendi.
Riprenditi quel ridicolo foglio
scribacchiato.
A me serve soltanto
il tuo strato di terra
e l’odore di bruciato
evaporato dalla notte dei tempi.

                                       Wislawa Szymborska  ("Gente sul ponte", 1986, trad. di Pietro Marchesani)



(Santa Maria dello Spasimo - Palermo)

domenica 19 luglio 2020

Via D’Amelio, strage che cambiò l’Italia

          Palermo – Tutti i palermitani ricordano dov’erano la domenica pomeriggio del 19 luglio 1992. Chi scrive, si trovava per qualche giorno in vacanza nell’isoletta di Ustica, dove fu raggiunta dalla telefonata angosciata della sorella che diceva: “Maria, il ‘botto’ si è sentito anche qui, alla Stazione centrale: hanno ammazzato con un’autobomba il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta, sotto casa di sua madre …”
Dopo questa notizia, l’azzurro del mare di Ustica perse la sua luce e il rientro in città fu anticipato. 
        Ci sono eventi spartiacque nella storia di un Paese. (continua su il Punto Quotidiano)

Maria D'Asaro, 19.07.2020, il Punto Quotidiano

[Ecco inoltre l'Orazione funebre pronunciata da Antonino Caponnetto ai funerali di Paolo Borsellino il 24 luglio 1992 a Palermo, presente il Presidente della Repubblica Scalfaro]

     Queste sono le parole di un vecchio ex magistrato che e' venuto nello spazio di due mesi due volte a Palermo con il cuore a pezzi a portare l'ultimo saluto ai suoi figli, fratelli e amici con i quali ho diviso anni di lavoro di sacrificio di gioia, anche di amarezza. Soltanto poche parole per un ricordo, per un doveroso atto di contrizione che poi vi diro' e per una preghiera laica ma fervente.
Il ricordo e' per l'amico Paolo, per la sua generosita', per la sua umanita', per il coraggio con cui ha affrontato la vita e con cui e' andato incontro alla morte annunciata, per la sua radicata fede cattolica, per il suo amore immenso portato alla famiglia e agli amici tutti. Era un dono naturale che Paolo aveva, di spargere attorno a se' amore. Mi ricordo ancora il suo appassionato e incessante lavoro, divenuto frenetico negli ultimi tempi, quasi che egli sentisse incombere la fine. Ognuno di noi e non solo lo Stato gli e' debitore; ad ognuno di noi egli ha donato qualcosa di prezioso e di raro che tutti conserveremo in fondo al cuore, e a me in particolare mancheranno terribilmente quelle sue telefonate che invariabilmente concludeva con le parole: "Ti voglio bene Antonio" ed io replicavo "Anche io ti voglio bene Paolo".
     C'e' un altro peso che ancora mi opprime ed e' il rimorso per quell'attimo di sconforto e di debolezza da cui sono stato colto dopo avere posato l'ultimo bacio sul viso ormai gelido, ma ancora sereno, di Paolo. Nessuno di noi, e io meno di chiunque altro, puo' dire che ormai tutto e' finito.
Pensavo in quel momento di desistere dalla lotta contro la delinquenza mafiosa, mi sembrava che con la morte dell'amico fraterno tutto fosse finito. Ma in un momento simile, in un momento come questo coltivare un pensiero del genere, e me ne sono subito convinto, equivale a tradire la memoria di Paolo come pure quella di Giovanni e di Francesca.
     In questi pochi giorni di dolore trascorsi a Palermo che io vi confesso non vorrei lasciare piu', ho sentito in gran parte della popolazione la voglia di liberarsi da questa barbara e sanguinosa oppressione che ne cancella i diritti piu' elementari e ne vanifica la speranza di rinascita. E da qui nasce la mia preghiera dicevo laica ma fervente e la rivolgo a te, presidente, che da tanto tempo mi onori della tua amicizia, che e' stata sempre ricambiata con ammirazione infinita. La gente di Palermo e dell'intera Sicilia, ti ama presidente, ti rispetta, e soprattutto ha fiducia nella tua saggezza e nella tua fermezza. Paolo e' morto servendo lo Stato in cui credeva cosi' come prima di lui Giovanni e Francesca. 
    Ma ora questo stesso Stato che essi hanno servito fino al sacrificio, deve dimostrare di essere veramente presente in tutte le sue articolazioni, sia con la sua forza sia con i suoi servizi. E' giunto il tempo, mi sembra, delle grandi decisioni e delle scelte di fondo, non e' piu' l'ora delle collusioni degli attendismi dei compromessi e delle furberie, e dovranno essere, presidente, dovranno essere uomini credibili, onesti, dai politici ai magistrati, a gestire con le tue illuminate direttive questa fase necessaria di rinascita morale: e' questo a mio avviso il primo e fondamentale problema preliminare ad una vera e decisa lotta alla barbarie mafiosa. Io ho apprezzato le tue parole, noi tutti le abbiamo apprezzate, le tue parole molto ferme al Csm dove hai parlato di una nuova rinascita che e' quella che noi tutti aspettiamo, e laddove anche con la fermezza che ti conosco hai giustamente condannato, censurato, quegli errori che hanno condotto martedi' pomeriggio a disordini che altrimenti non sarebbero accaduti perche' nessuno voleva che accadessero.

     Solo cosi' attraverso questa rigenerazione collettiva, questa rinascita morale, non resteranno inutili i sacrifici di Giovanni, di Francesca, di Paolo e di otto agenti di servizio. Anche a quegli agenti che hanno seguito i loro protetti fino alla morte va il nostro pensiero, la nostra riconoscenza, il nostro tributo di ammirazione. Tra i tanti fiori che ho visto in questi giorni lasciati da persone che spesso non firmavano nemmeno il biglietto come e' stato in questo caso, ho visto un bellissimo lilium, splendido fiore il lilium, e sotto c'erano queste poche parole senza firma: "Un solo grande fiore per un solo grande uomo solo". Mi ha colpito, presidente, questa frase che mi e' rimasta nel cuore e credo che mi rimarra' per sempre.
    Ma io vorrei dire a questo grande uomo, diletto amico, che non e' solo, che accanto a lui batte il cuore di tutta Palermo, batte il cuore dei familiari, degli amici, di tutta la Nazione. Caro Paolo, la lotta che hai sostenuto fino al sacrificio dovra' diventare e diventera' la lotta di ciascuno di noi, questa e' una promessa che ti faccio solenne come un giuramento.

giovedì 16 luglio 2020

Il silenzio delle piante

La conoscenza unilaterale tra voi e me
si sviluppa abbastanza bene.

So cosa sono foglia, petalo, spiga, stelo, pigna,
e cosa vi accade in aprile, e cosa in dicembre.

Benché la mia curiosità non sia reciproca,
su alcune di voi mi chino apposta,
e verso altre alzo il capo.

Ho dei nomi da darvi:
acero, bardana, epatica,
erica, ginepro, vischio, nontiscordardimé,
ma voi per me non ne avete nessuno.

Viaggiamo insieme.
E quando si viaggia insieme si conversa,
ci si scambiano osservazioni almeno sul tempo,
o sulle stazioni superate in velocità.

Non mancherebbero argomenti, molto ci unisce.
La stessa stella ci tiene nella sua portata.
Gettiamo ombre basate sulle stesse leggi.
Cerchiamo di sapere qualcosa, ognuno a suo modo,
e ciò che non sappiamo, anch’esso ci accomuna.

lo spiegherò come posso, ma voi chiedete:
che significa guardare con gli occhi,
perché mi batte il cuore
e perché il mio corpo non ha radici.

Ma come rispondere a domande non fatte,
se per giunta si è qualcuno
che per voi è a tal punto nessuno.

Cespugli, boschetti, prati e giuncheti –
tutto ciò che vi dico è un monologo
e non siete voi che lo ascoltate.

Parlare con voi è necessario e impossibile.
Urgente in questa vita frettolosa
e rimandato a mai.

Wislawa Szymborska, traduzione di Pietro Marchesani
 (La gioia di scrivere, tutte le poesie - Adelphi Editore)











martedì 14 luglio 2020

Il seme prezioso della parola

Vincent Van Gogh: Seminatore al tramonto (1888). Qui l'analisi del dipinto.
       (...) La domanda che ci rivolge il Vangelo di oggi è: che uso facciamo della parola? Che è santa, sin dall’origine. Talmente che il figlio di Dio viene definito anche “Verbo, parola eterna di amore”. 
       Che uso facciamo delle nostre parole? Montagne di parole per non dire, montagne di parole per nascondere, montagne di parole per offendere, montagne di parole per negare la vita, per nascondere la luce, per inebetirci, per renderci stupidi dietro a tante chiacchiere inutili, dannose, fuorvianti.
      E il Vangelo ci dice: “Ma sei in grado, vuoi scoprire la gioia di dire una parola che genera vita intorno a te, che porta respiro, che porta aria, che porta solarità, che porta voglia di andare avanti… "
(...) Vogliamo per davvero rimettere in discussione tutti questi meccanismi con cui noi ci nascondiamo a noi stessi, ricorrendo alle parole. E spesso non ce ne rendiamo neppure conto, non sempre è facile metterci a nudo per davvero, perché ci siamo nascosti a noi stessi, oltre che agli altri, e ci siamo detti bugie.
      Invece la parabola di Gesù è semplice: il seminatore esce, ci consegna la parola. Ci dice: Mi fai vedere come la fai fruttificare? Con la poesia, con l’arte, con la musica, col gesto che l’accompagna e la rende autentica e ne fa un tutt’uno con la tua vita. Non menti a te stesso o agli altri, stai cercando te stesso nella verità di questa parola che è un compito per la nostra vita..
      Quando nel Vangelo Giovanni ci dice: “E il verbo si è fatto carne ed abitò in mezzo a noi” è un invito a ciascuno di noi perché la parola del Signore possa diventare carne anche nella nostra vita. Non è un fatto riservato a Gesù. Al contrario, è un compito che vuole condividere con noi: far sì che la parola possa essere carne, corpo donato, vita condivisa, gioia sprigionata.
E adesso professiamo la nostra fede nella parola di Dio di cui ciascuno di noi è, in qualche modo, contenitore, terreno, è bella la metafora del terreno:  terreno chiamato a essere fertile per accogliere questo seme e fare nascere una spiga fiorita, per fare un pane gustoso, bello, pulito, fragrante, profumato.
Professiamo così la nostra fede. Impegnandoci a essere uditori, ascoltatori della parola e, soprattutto, facitori, realizzatori di questa parola. “Non chi dice Signore, Signore… ma chi fa la volontà del Padre mio… “: chi dà spazio a questa parola facendola diventare azione vitale e ricreativa della realtà.

(parte finale dell'omelia pronunciata da don Cosimo Scordato domenica 12 luglio 2020 nella chiesa di san Francesco Saverio a Palermo: eventuali errori o omissioni sono della scrivente, Maria D’Asaro, che si assume pertanto la responsabilità delle imprecisioni e manchevolezze della trascrizione)

domenica 12 luglio 2020

Natalia Ginzburg, lessico famigliare

       Palermo – Che libri o e/book leggere quest’estate in spiaggia, in montagna o, semplicemente, nel terrazzino di casa? Non mancano certo le proposte, nell’affollato e variegato universo della narrativa contemporanea, italiana e straniera. A partire dai sei romanzi finalisti del premio Strega, assegnato poi a Sandro Veronesi con “Il colibrì”.  
       Ma se si ha voglia di conoscere, o rileggere, autori del ‘900, si potrebbe prendere in mano: “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg, col quale nel 1963 la scrittrice vinse il Premio Strega. “Lessico famigliare” è un classico che va bene per tutte le età: in esso la Ginzburg racconta la storia della sua famiglia di origine, composta da papà, il professore Giuseppe Levi, insigne luminare di anatomia comparata; dalla mamma, Lidia Tanzi “con quella sua natura così lieta, che investiva ed accoglieva ogni cosa, e di ogni cosa e di ogni persona rievocava il bene e la letizia, e lasciava il dolore e il male nell’ombra, dedicandovi appena, di quando in quando, un lieve sospiro”; da cinque figli: Gino, il maggiore “che si interessava di storia naturale, di cristalli e d’altri minerali, ed era molto studioso; e quando tornava a casa dopo un esame, e diceva che aveva preso trenta, mio padre chiedeva: - Come è che hai preso trenta? Come è che non hai preso trenta e lode? -; Mario e Alberto, che litigavano spesso: Mario “con gli occhi piccoli, stretti e lunghi, da cinese”, Alberto “che passava le giornate o sui campi di foot-ball, da cui tornava sudicio, a volte con le ginocchia o la testa insanguinate e bendate: o in giro con i suoi amici […] di noi, il più comunicativo, espansivo ed allegro”, la sorella Paola, con la sua malinconia e predilezione per Proust e Verlaine.
       E poi c’è lei, la figlia più piccola, Natalia, che a un certo punto del libro di memorie, scrive: “Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo ora in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero; e non ci scriviamo spesso. […] Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. […] Una di quelle frasi o parole, ci farebbero riconoscere l’uno con l’altro, nel buio d’una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici degli egiziani o degli assiro-babilonesi, la testimonianza d’un nucleo vitale che ha cessato d’esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo”.
     E allora, leggendo o rileggendo “Lessico famigliare” si familiarizza non solo con l’indimenticabile famiglia Levi, della quale, grazie al tocco leggero e sapiente di Natalia, ci si sentirà magicamente di far parte; ma si farà anche un suggestivo e intrigante viaggio nel tempo, nel clima della Torino degli anni venti e trenta, della quale si conosceranno sfumature e aspetti inediti: il deciso e coraggioso antifascismo di papà Beppino consentirà di intravedere Filippo Turati, per una decina di giorni ospite di nascosto in casa Levi, prima di riparare fuggitivo in Francia; si vedrà di sfuggita un giovanissimo Gian Carlo Pajetta in calzoni corti, amico di Alberto, e un coraggioso Vittorio Foa. E Natalia non mancherà di presentarci anche l’imprenditore Adriano Olivetti, futuro marito di Paola, e un già inquieto Cesare Pavese.
     Se vorremo farci un’idea più completa dello stile e dello spessore narrativo di questa scrittrice, non potranno mancare, sotto l’ombrellone, in campagna o accanto alla nostra poltrona preferita, le raccolte di saggi “Le piccole virtù” e “Mai devi domandarmi”, la cui prima edizione del 1970 fu accompagnata da un risvolto di Enzo Siciliano che scriveva: “Natalia Ginzburg possiede la capacità di comunicare col proprio lettore senza diaframmi. […] La sua libertà compositiva e la rigorosa unità di fondo legano ogni sua pagina: tanto che il suo discorso […] appare come un continuo, un’opera in progress, nel corso della quale polifonicamente i diversi temi – dalla vita di casa alla vita in pubblico, dall’esperienza dell’arte a quella del pensiero – si rincorrono, si incastrano ‘musivamente’ fra loro così da comporre un quadro sottilmente elaborato, dalla precisa filigranatura. E poi la presa immediata sul lettore: quasi una virtù medianica attraverso cui Natalia Ginzburg arriva a toccare certe ansie nascoste, certi bisogni di luce che si annidano dentro l’anima di tutti. E dentro le pieghe delle emozioni ella sa muoversi inavvertibilmente, trovando subito la parola giusta, o nella parola da altri pronunciata una verità che nessuno vi sospetterebbe”.
     Buona lettura dunque e grazie di cuore alla cara Natalia Ginzburg, palermitana di nascita: infatti, anche se vissuta dai tre anni in poi a Torino, la scrittrice nacque a Palermo il 14 luglio del 1916, poichè il padre allora insegnava nell’ateneo universitario del capoluogo siciliano. Proprio davanti alla casa dove è nata - in una palazzina di Via Libertà, angolo Via Tommaso Gargallo - alla presenza del figlio Carlo, nel 2016, in occasione del centenario della sua nascita, è stata installata una targa per onorarne la memoria.

 Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 12.07.2020

martedì 7 luglio 2020

Sotto una piccola stella

Paul Klee: Oh! These Rumors! (1939)
Chiedo scusa al caso se lo chiamo necessità.
Chiedo scusa alla necessità se tuttavia mi sbaglio.
Non si arrabbi la felicità se la prendo per mia.
Mi perdonino i morti se ardono appena nella mia memoria.

Chiedo scusa al tempo per tutto il mondo che mi sfugge a ogni istante.
Chiedo scusa al vecchio amore se do la precedenza al nuovo.
Perdonatemi, guerre lontane, se porto fiori a casa.
Perdonatemi, ferite aperte, se mi pungo un dito.

Chiedo scusa a chi grida dagli abissi per il disco col minuetto.
Chiedo scusa alla gente nelle stazioni se dormo alle cinque del mattino.
Perdonami, speranza braccata, se a volte rido.
Perdonatemi, deserti, se non corro con un cucchiaio d’acqua.

E tu, falcone, da anni lo stesso, nella stessa gabbia,
immobile con lo sguardo fisso sempre nello stesso punto,
assolvimi, anche se tu fossi un uccello impagliato.

Chiedo scusa all’albero abbattuto per le quattro gambe del tavolo.
Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte.
Verità, non prestarmi troppa attenzione.
Serietà, sii magnanima con me.
Sopporta, mistero dell’esistenza, se strappo fili dal tuo strascico.

Non accusarmi, anima, se ti possiedo di rado.
Chiedo scusa al tutto se non posso essere ovunque.
Chiedo scusa a tutti se non so essere ognuno e ognuna.

So che finché vivo niente mi giustifica,
perché io stessa mi sono d’ostacolo.
Non avermene, lingua, se prendo in prestito parole patetiche,
e poi fatico per farle sembrare leggere.

Wislawa Szymborska: La gioia di scrivere, traduzione di Pietro Marchesani

domenica 5 luglio 2020

San Giovanni Decollato: l'impegno sociale all'Albergheria

      Palermo – “Se qualcuno sogna da solo, il suo sogno spesso rimane tale; se si è in cinque a sognare, il sogno può diventare possibile; quando si è in cento a condividerlo, il sogno si trasforma in realtà”. 
    Don Cosimo Scordato ha voluto ricordare la bella frase del vescovo brasiliano don Helder Camara nella ricorrenza del decennale del restauro della chiesa di san Giovanni Decollato e della sua conseguente restituzione al quartiere dell’Albergheria e alla città di Palermo.
    Infatti il restauro dell’edificio, realizzatosi nel giugno del 2010, proprio dieci anni fa, è stato reso possibile grazie alla lunga e tenace insistenza da parte di un comitato promotore, di cui don Cosimo Scordato è stato uno degli attivisti. Per il restauro sono stati utilizzati i fondi della Protezione Civile per il “sisma 2002”.
Dal 2010 la chiesa di san Giovanni Decollato – anche se non destinata al culto, tranne in occasioni particolari – è diventata avamposto di legalità, di impegno e di promozione sociale e luogo di vari appuntamenti artistici e culturali.
      In particolare, è la sede dell’Associazione Parco del Sole, che offre supporto scolastico a tanti bambini e ragazzi a rischio dispersione scolastica nel quartiere del centro storico. Ecco cosa ha detto il suo Presidente, Massimo Messina, il 24 giugno scorso: “Vogliamo essere una presenza significativa nel territorio, nel quale cerchiamo di operare con progettualità intelligente e mirata. Ai bambini del quartiere offriamo un doposcuola pomeridiano, ma anche laboratori artistici e musicali, grazie al contributo volontario di validi professionisti. Il nostro non vuole essere un volontariato assistenzialistico, ma un’attività che favorisce la crescita personale e sociale. Tra le tante iniziative, abbiamo offerto ai bambini e alle loro famiglie incontri con personalità significative quali, ad esempio Tina Montinaro, vedova dell’agente Antonio Montinaro, ucciso con Giovanni Falcone nella strage di Capaci, e Gregorio Porcaro, braccio destro di padre Pino Puglisi. Le parole di questi testimoni hanno fatto riflettere tutti sul ruolo importante delle Forze dell’Ordine e sulla necessità – come sottolineava don Puglisi – che ognuno faccia qualcosa per migliorare la società”.
    La chiesa, che si trova nel quartiere Albergheria, di fronte all’antico palazzo Sclafani e a un passo dalla magnifica Cattedrale cittadina, fu edificata alla fine del XVI secolo e dedicata alla Madonna Annunziata; poi passò in consegna ai confrati di san Giovanni della Galca che la consacrarono a san Giovanni Decollato. Prima del restauro, dopo i bombardamenti del 1943, versava ormai in uno stato di totale abbandono, tanto da essere utilizzata come rudere nel 1963 per una scena de “Il Gattopardo”; ed essere poi poco poeticamente invasa da rifiuti, galline e piante infestanti.
      L’attività di promozione sociale a san Giovanni Decollato non è stata fermata neppure dal lockdown: alle famiglie bisognose è stato dato un notevole supporto di generi alimentari e di prima necessità, mentre i volontari si sono prodigati a fornire ai bambini supporto scolastico a distanza.



 Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 05.07.2020

giovedì 2 luglio 2020

Emily e Natalia: l'incontro mancato

           Tempo fa sono stata ad Amherst, il paese della Dickinson: un paese situato non molto lontano da Boston, nel Massachusetts. Ho visto la sua casa. Ho visto anche un suo vestito in un armadio, un vestito bianco avorio a ricami, che sembrava una camicia da notte, e un plaid a lunghe frange che si metteva sulle ginocchia quando scriveva. 
        Ma allora non conoscevo le poesie della Dickinson, né le sue lettere, e il mio sguardo era vuoto e distratto. Avevo letto alcuni suoi versi, e forse anche qualche sua lettera, ma avevo capito poco di lei. Non avevo un solo suo verso nella memoria. Amherst è un paese molto bello, tutto prati verdi, casette verniciate di bianco sparse fra le querce, fra l'edera, le magnolie e le rose. Mi parve però che avesse, nella sua grazia, qualcosa di lezioso e professorale. Dietro a questo aspetto professorale e lezioso c'era una noia desolata e spettrale. 
        L'aspetto professorale il paese deve averlo preso dopo la morte della Dickinson, e in seguito alla coscienza d'esser la patria d'un grande poeta. Lo spettro della noia deve esserci stato sempre. Ricordo d'aver pensato che l'America è cupa e crudele nelle sue grandi città, e dove non è cupa e crudele, soggiace in una noia sterminata. 
      Era estate, e c'erano molte zanzare. Le zanzare dell'America sono diverse dalle nostre. Non hanno quel ronzio pigro e dolce, ma si avventano e sciamano sui visi umani in pieno giorno e in un protervo silenzio. Il silenzio e l'ombra della noia si stendevano a perdita d'occhio su quei prati fioriti e freschi. Così ho visto Amherst pensando delle futilità sulle zanzare, sul caldo e sull'America, e non ho prestato una reale attenzione al luogo dove Emily Dickinson è nata e morta. 
      Devo anche aver pensato varie futilità sulla Dickinson. Devo aver pensato che mi era antipatica. Avevo su di lei alcune nozioni confuse e avevo in mente due o tre cose che mi sembravano irritanti: che amava gli uccellini e i fiori; che andava incontro agli ospiti con una veste bianca (quella nell'armadio) e con in mano due gigli; che usciva poco di casa e tutt'al più andava a trovare una sua cognata che stava a un passo; che a questa cognata usava anche scrivere lettere appassionate; che i suoi soli interlocutori erano i suoi famigliari, un certo signor Higginson a  cui mandava i suoi versi e che le rispondeva con pedanterie, due cugine di Boston, qualche signora; che i suoi soli amori, d'altronde non mai consumati, erano stati il giudice Lord e il reverendo Wadsworth, cioè un vecchietto e un prete. In questi giorni mi son messa a leggere le sue lettere, e poi, nel mio debole inglese, i suoi versi. Che grande poeta era, questa Emily Dickinson. […]
      Di zitelle che passano la vita a scrivere versi nei borghi di campagna, in solitudine, con manie e stravaganze, ce ne sono infinite, e nessuna è un grande poeta; e lei invece lo era. Lo sapeva? non lo sapeva? Scrisse migliaia di poesie e non volle mai stamparle; le cuciva col filo bianco in fascicoletti.
 «Questa è la mia lettera al mondo — che non scrisse mai a me.» 
Era difficile che il mondo potesse scriverle, dato che lei era, e voleva essere, immersa nell'oscurità di una casa. 
Ma certo il mondo non le scrisse mai, in nessuna forma, perché, finché fu viva, non le diede niente. 
E del resto la sua lettera al mondo non chiedeva risposta.


Natalia Ginbzurg: Il paese della Dickinson 
(in Mai devi domandarmi –  Einaudi, Torino, pagg. 28-30)