venerdì 31 dicembre 2021

Futuro/a

mari@dasolcare



"Indovinami, Indovino,
tu che leggi nel destino:
l'anno nuovo come sarà?
Bello, brutto o metà e metà?"





"Trovo stampato nei miei libroni
che avrà di certo quattro stagioni,
dodici mesi, ciascuno al suo posto,
un Carnevale e un Ferragosto
e il giorno dopo del lunedì
sarà sempre un martedì.

Di più per ora scritto non trovo
nel destino dell'anno nuovo:
per il resto anche quest'anno
sarà come gli uomini lo faranno!"

Gianni Rodari,  Filastrocche in cielo e in terra (Torino, Einaudi 1960).


giovedì 30 dicembre 2021

Le sacre sinfonie del tempo

mari@dasolcare

Le sento più vicine
Le sacre sinfonie del tempo
Con una idea
Che siamo esseri immortali
Caduti nelle tenebre
Destinati a errare
Nei secoli dei secoli
Fino a completa guarigione



Guardando l'orizzonte
Un'aria di infinito mi commuove
Anche se a volte
Le insidie di energie lunari
Specialmente al buio
Mi fanno vivere
Nell'apparente inutilità
Nella totale confusione

Che siamo angeli caduti
In terra dall'eterno
Senza più memoria
Per secoli, per secoli
Fino a completa guarigione

(Fonte: Musixmatch, Compositori: Franco Battiato)


domenica 26 dicembre 2021

L'impegno di dare un senso al tempo

       Palermo – “E un altro giorno è andato, la sua musica ha finito/Quanto tempo è ormai passato e passerà?/Le orchestre di motori ne accompagnano i sospiri/L'oggi dove è andato l'ieri se ne andrà…”             Questo l’incipit di una storica canzone di Francesco Guccini; poesia canora che conserva intatta la sua valenza suggestiva se a ‘giorno’ si sostituisce ‘anno’. Tra pochi giorni anche la musica di quest’anno svanirà e il ricordo del 2021 sarà conservato nell’archivio polveroso della Storia. 
       La tragedia accaduta qualche settimana in Sicilia, nel piccolo paese di Ravanusa, dove per una fuga di gas un’intera palazzina è crollata e nove persone sono decedute, l’ultimo terribile incidente sul lavoro a Torino, con tre vite spezzate, il riacutizzarsi dappertutto della pandemia… Questi accaduti inducono un velo nero di tristezza nel cuore e ci rendono poco inclini a festeggiare il transito tra il 2021 e il 2022. 
    Certo, per ciascuno il 2021 avrà avuto un sapore e un colore diverso a seconda delle esperienze vissute: chi ha trovato l’amore della sua vita, chi ha iniziato un bel lavoro, chi ha realizzato un suo sogno, dell’anno appena trascorso porterà dentro di sé una musica allegra; chi in quest’anno invece ha perso il lavoro, o si è gravemente ammalato oppure ha avuto il lutto di un proprio caro, conserverà del 2021 solo rintocchi tristi.
   Le strofe successive della canzone di Guccini - Giornate senza senso, come un mare senza vento/Come perle di collane di tristezza/Le porte dell'estate dall'inverno son bagnate/Fugge un cane come la tua giovinezza/Negli angoli di casa cerchi il mondo/Nei libri e nei poeti cerchi te/Ma il tuo poeta muore e l'alba non vedrà/E dove corra il tempo chi lo sa? - non ci aiutano a essere allegri, impregnate come sono di accenti esistenziali poco inclini a orizzonti ottimistici.
     Perché, in ultima analisi, la partita con la speranza si gioca tutta sulla nostra concezione del tempo: una concezione ciclica, per cui tutto si fa e si distrugge, in una sequenza eterna e infinita, ma non finalistica; o una concezione lineare, se si crede che il tempo scorra verso un fine ultimo buono, concezione propria delle principali religioni monoteistiche, dall’ebraica a quella cristiana.
   Forse, diversamente da Guccini che canta ancora: “La sfera di cristallo si è offuscata/E l'aquilone tuo non vola più/Nemmeno il dubbio resta nei pensieri tuoi/E il tempo passa e fermalo se puoi" la maggior parte di noi si pone invece dubbi e interrogativi su quale sia il fine ultimo del tempo e della vita; e oscilla tra l’idea più pessimista del tempo, quella ciclica, e quella più fiduciosa, la lineare.
    Quale che sia comunque la nostra idea e il nostro credo, potremo vivere al meglio i nostri anni, a partire dal 2022 ormai alle porte, se ascolteremo la sapienza di Antoine de Saint-Exupéry, del quale riportiamo un pezzetto del celeberrimo dialogo tra la volpe e il piccolo Principe: “É il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante … Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…”
    Se, qualunque sia la nostra opinione sull’universo, diveniamo consapevoli che abbiamo tutti, qui e ora, una ‘rosa’ da annaffiare, da coltivare, da amare, allora, anziché ‘Kronos’ vuoto e senza significato, il tempo disponibile si trasforma in ‘Kairos’: termine derivante dal greco, che significa tempo opportuno, tempo di qualità, tempo speciale. 
    L’invito è allora quello di non sciupare il tempo che ci è stato misteriosamente donato e trasformarlo in kairos, tempo di grazia: tempo speso per donare bellezza, bontà, generosità, cultura, intelligenza, cura: in famiglia, innanzitutto, e poi nelle relazioni che, in cerchi sempre più vasti, includono tutta la società.
     Forse questa è una ricetta credibile per onorare e dare senso al 2022.

Maria D'Asaro, 26.12.21, il Punto Quotidiano


venerdì 24 dicembre 2021

Cometa

Cometa Leonard, la più luminosa del 2021

Cometa

Di luce

Che attraversa, fugace,

I nostri cuori in attesa:

Natale




Buon Natale. Un abbraccio virtuale a tutte/i.

martedì 21 dicembre 2021

domenica 19 dicembre 2021

Vero o finto? La scelta dell'albero di Natale

     Palermo – Una recente ricerca della Coldiretti informa che l’albero di Natale viene allestito almeno dall’88% delle famiglie italiane; inoltre, da un’indagine dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) si apprende che circa sette famiglie su dieci scelgono un albero in plastica, magari perché facile da acquistare nei supermercati e forse anche perché convinti che tale opzione contribuisca a salvaguardare i boschi.
     È questa la scelta giusta per l’ambiente?  Il servizio di Dario Morricone, andato in onda il dieci dicembre scorso al Telegiornale scientifico ‘Leonardo’, toglie ogni dubbio in proposito: un albero artificiale ha un impatto ambientale assai maggiore di uno vero. L’albero finto infatti ha un’impronta di carbonio pari a circa 40 kg. di emissioni di CO2, il doppio di un albero autentico smaltito in discarica. 
   Il pesante tributo ambientale dell’albero artificiale è dovuto all’utilizzo del petrolio come materia prima, ai metodi di fabbricazione e al trasporto. L’impronta di carbonio dell’albero natalizio di plastica diventa addirittura dieci volte maggiore di quella di un albero naturale che, una volta dismesso, sia opportunamente consegnato in un’isola ecologica, dove sarà riutilizzato per fertilizzare i terreni.
Albero di Natale al Quirinale/(2018)
   Nel servizio citato, sono stati sottolineati gli ulteriori vantaggi ecologici dell’utilizzo di un albero naturale: intanto solo il 10% degli alberi veri candidati a divenire natalizi proviene da tagli di normale gestione boschiva e forestale, mentre il 90% arriva da vivai dove di solito, dopo il taglio o lo sradicamento, il vivaista pianta quattro o cinque nuovi alberelli per essere sicuro che almeno uno cresca sano. C’è da ricordare poi che l’albero autentico, anche tagliato, continua ancora ad assorbire anidride carbonica dall’ambiente. Al contrario, un ulteriore limite ambientale dell’albero finto è che, in discarica, potrebbe impiegare anche 200 anni per degradarsi nell’ambiente.
   “Acquistare alberi di Natale veri è una scelta sostenibile – ha dichiarato un esponente di Confagricoltura – perché fa bene all’ambiente, alla salute ed è di sostegno ai comparti florovivaistico e boschivo, essenziali per l’economia nazionale. I potenziali alberi di Natale provengono da coltivazioni specializzate o da cime derivanti da potature o sfoltimenti, indispensabili per la salute dei boschi”.
“Attenzione agli alberi di plastica – avverte poi Francesco Mati, presidente della Federazione nazionale che riunisce i florovivaisti in Confagricoltura – Molti sono di dubbia provenienza, possono rilasciare particelle nocive negli ambienti chiusi, compromettendo la salubrità dell’aria nelle nostre case. La maggior parte degli alberi di plastica viene prodotta all’estero e potrebbe anche contenere cloruro di polivinile o altri composti che rilasciano sostanze pericolose.”
   Gli esperti, inoltre, raccomandano di acquistare sempre alberi naturali certificati, riconoscibili dal cartellino che contiene il nome del produttore e il numero regionale di registrazione. Infatti, solo le piante commercializzate con il tagliando sono allevate per la produzione specifica di alberi di Natale.
Veduta natalizia di Betlemme
    Allora, anche se per questo Natale i giochi, pardon gli alberi, sono fatti, sappiamo almeno come comportarci il prossimo anno. Con un’avvertenza comunque: se a casa abbiamo già un albero finto, anche se ‘spelacchiato’ facciamolo durare il più possibile prima di gettarlo; oppure diamo libero sfogo alla nostra creatività, allestendo alberi natalizi con materiale di scarto; consapevoli che la vera economia verde è la riduzione dei consumi, prima ancora che la loro razionalizzazione ecologica.
Con l’auspicio che l’anno prossimo la competizione - nelle case e nelle piazze di tutte il mondo - non sia tra chi prepara l’albero più luminoso e imponente, ma tra chi lo allestisce nel modo più ecologicamente sostenibile. 
   Nella speranza che il Natale non si traduca in un aumento ingiustificato e scriteriato di anidride carbonica nell’atmosfera, ma sia davvero un momento di crescita della gentilezza e dell’attenzione generosa verso gli esseri umani e di cura intelligente verso il creato.

Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 19.12.21

mercoledì 15 dicembre 2021

Green-pass: se si vuole riflettere...

J:Pollock: Blue Poles (1953)
     Parte da oggi l’obbligo del cosiddetto super green-pass per Docenti e Forze dell’Ordine. Il tema è scottante e divisivo, si sa.

Qui -  se si ha la voglia e la pazienza di leggerlo sino alla fine - dal punto di vista giuridico e filosofico, uno dei più approfonditi e documentati articoli  letti sinora sull'argomento;
Qui, l'opinione del presidente dell'ANP, Associazione Nazionale Presidi.

domenica 12 dicembre 2021

Disabilità e inclusione: il peso delle parole

      Palermo – In occasione della giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità, il 3 e 4 dicembre scorso, a Palermo, nell’aula magna di Palazzo Chiaramonte-Steri, si è tenuto un convegno sul tema: “Le politiche attive per l’inclusione”. In particolare, la mattina del 4 dicembre ha avuto luogo un corso di formazione per giornalisti dal titolo “Il linguaggio della comunicazione nel solco della deontologia professionale: la strada giusta per una migliore inclusione”, 
      Il corso, moderato dal giornalista Giacomo Cagnes, è stato significativo sia per l’importanza della tematica trattata sia per la toccante competenza dei relatori, persone con disabilità.
     Tutti gli interventi hanno sottolineato l’importanza di non confondere e/o identificare la persona con la sua disabilità. Salvatore Mirabella, presidente dell’Associazione “Come Ginestre” ha riportato, tra l’altro, alcuni episodi vissuti in prima persona: : “Mi è capitato di sentire, per giunta nel corridoio di una ASP, un impiegato che urlava: “Nel corridoio c’è un disabile”, mentre sarebbe stato corretto dire: “Nel corridoio c’è una persona, c’è il sig. Salvo Mirabella, disabile”.  
Mirabella ha evidenziato poi che termini come ‘diversabile’, ‘persona normo-dotata’, ‘ragazzi speciali’, purtroppo usati e abusati dai media magari in buona fede, alimentano una sorta di “flebo nefasta” che non aiuta l’inclusione sociale: “Bisognerebbe invece ricordare la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, Convenzione che ha messo in primo piano l’irripetibile unicità di ogni persona umana. Si può affermare ormai che la disabilità riguarda soprattutto il rapporto con l’Ambiente: se non ci sono barriere (e la tecnologia fa passi da gigante per abbatterle) il limite della disabilità viene sconfitto.
    “É giusto che i riflettori sulla disabilità siano sempre accesi – ha continuato Mirabella – ma è fondamentale parlarne senza stereotipi, perché le parole possono essere muri o ponti. Ad esempio, è assolutamente errata l’equazione persona disabile uguale persona malata. Infatti, anche se io mi muovo con una sedia a rotelle, non sono un malato, non ho prescrizioni mediche.” 
  Vanno quindi evitate espressioni del tipo: portatore di handicap, persona svantaggiata, persona con handicap, diversamente abile… A tal proposito, è stato fatto notare che anche la legge 104/92 contiene ormai termini obsoleti. Parlando ancora della sua esperienza, Mirabella ha suggerito che a frasi come ‘persona confinata/relegata su una sedia a rotelle” bisogna sostituire ‘persona che utilizza la sedia a rotelle per i suoi spostamenti’.
  Ha poi parlato la giornalista Antonella Folgheretti, che ha ribadito la stretta connessione tra uso corretto del linguaggio e inclusione delle persone con disabilità. La giornalista ha evidenziato che si tende spesso ad associare eroismo e disabilità, senza riflettere che l’utilizzo del termine ‘eroe’ per indicare una persona con disabilità che lavora, che fa sport, che mantiene una famiglia, presuppone uno sguardo pietistico, tendente ad affibbiare comunque uno stigma: “Bisogna essere molto attenti nell’uso di termini che presentano la persona disabile come speciale, eroica, asessuata… La persona disabile è del tutto uguale agli altri: può essere simpatica, antipatica, introversa o estroversa, di buon umore o di cattivo umore, coraggiosa, vigliacca. La disabilità è solo una delle tante caratteristiche della persona. Per arrivare - o almeno tendere - all’effettiva uguaglianza, è importante allora che si abbia una percezione positiva e propositiva della disabilità, e guardare alle persone con disabilità come protagoniste attive della propria esistenza.” 
   É seguito quindi l’intervento della dottoressa Carmela Tata, neuropsichiatra, Autorità Garante delle Persone disabili nella Regione Siciliana; la dottoressa ha evidenziato il percorso evolutivo dal 1946 - data della prima classificazione di tutte le malattie da parte dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) con l’ICD (International Classification of Deseases) - alla recente pubblicazione della versione n.11 dell’ICD. Nella prima stesura dell’ICD si parlava dell’handicap nei termini di una menomazione, quindi come esteriorizzazione di uno stato patologico; oggi ci si confronta con una concezione complessiva della salute che non è semplice assenza di malattia, ma uno stato complessivo di benessere: fisico, mentale e sociale. Nell’attuale contesto, che adotta un modello bio-psico-sociale, si valutano diversi fattori per stabilire la condizione di salute e benessere di una persona: la disabilità viene vista quindi come una condizione multifattoriale che si rapporta con un Ambiente sfavorevole.
Roberta Cascio
   Roberta Cascio, vicepresidente della Giunta Regionale del CIP (Comitato Italiano Paralimpico) e delegato della FISDIR (Federazione Italiana Sport paralimpici per persone con Disabilità Intellettiva e Relazionale) sottolinea a sua volta come lo sport sia uno dei mezzi migliori per aiutare le persone con disabilità a condurre una vita autonoma e senza barriere.
   La vicepresidente del CIP lamenta come talvolta stampa e tv, riguardo alle persone con disabilità che praticano sport, alimentino stereotipi e luoghi comuni negativi, quali l’idea che la persona disabile faccia sport per passare il tempo, come se la dimensione del tempo per la persona disabile non avesse lo stesso valore che per gli altri. Inoltre, ancora oggi le agevolazioni per chi ha una disabilità vengono viste all’esterno quasi come dei privilegi.
Marcella Li Brizzi
   Sottolinea concetti simili Marcella Li Brizzi, campionessa paralimpica di scherma, che ribadisce la forza ‘risanatrice’ della pratica sportiva: “La sport aiuta a trovare soluzioni, fa vincere le paure: io sono riuscita a superare la paura di prendere un aereo e a fare 14 ore di volo!” La campionessa ricorda poi l’enorme valenza inclusiva della pratica sportiva per i ragazzi con disabilità, che acquistano autonomia, competenze personali e sociali, autostima, indipendenza dai genitori.
  I relatori hanno fatto infine appello alla politica perché aumenti la spesa per migliorare la qualità della vita delle persone con disabilità. Ecco alcune considerazioni emerse nel corso degli interventi: “Non è possibile che nel capoluogo siciliano non ci sia un centro specializzato che insegni a utilizzare una carrozzina”… “Non è ammissibile che si preveda la consegna di una carrozzina solo ogni sei anni: la carrozzina è il nostro paio di scarpe e un paio di scarpe non dura sei anni… È assurdo poi che la carrozzina leggera (6 Kg circa) venga fornita soltanto a chi ‘dimostri’ di avere una vita sociale: è solo il possesso di una carrozzina leggera (anziché quella classica che pesa sui 14 kg) che permette di muoversi e avere una vita sociale…” 
  Al termine del corso di formazione anche una proposta concreta: quella di istituire, nell’ambito dell’Ordine dei Giornalisti, una commissione che tracci delle linee guida, una sorta di vademecum per comunicare in modo corretto i temi legati alle persone con disabilità. 
   Con l’auspicio finale, sottolineato dall’intervento di un giornalista, che l’informazione non ceda alle facili lusinghe del pietismo e dei pezzi di ‘colore’, ma ritrovi la bussola del servizio e lo sguardo in avanti del giornalismo civile.

Maria D'Asaro, 12.12.21, il Punto Quotidiano

giovedì 9 dicembre 2021

Il problema del Principio: e Teoretica fu...

     C’era piuttosto freddo a Palermo, il 9 dicembre del 1980. Monte Cuccio era persino imbiancato… Maruzza, sino a due giorni prima, era indecisa:  dare o no l’esame di Teoretica? 
    Alla fine l’aveva incoraggiata e convinta l’amica e collega, Nunzia Musacchia, con la quale studiava da luglio: “O la diamo ora o non la daremo mai più…”. Si perché l’esame di Teoretica era lo scoglio più duro della facoltà di Filosofia: non tanto perché c’era da leggere la Metafisica di Aristotele, ma per i testi del professore Nunzio Incardona, la cui oscurità era ormai una leggenda metropolitana dell’Ateneo palermitano.
    Così quel martedì mattina si sedette di fronte al sommo Incardona, che ascoltava in silenzio, con una mano sugli occhi, farfugliando a bassa voce ogni tanto qualcosa di incomprensibile, non si capiva se alla candidata o agli angeli custodi seduti a destra e a sinistra... Se la memoria non inganna i suoi ‘delfini’: professori Giuseppe Nicolaci e Giorgio Palumbo…
    Sulla Metafisica di Aristotele andò alla grande; un po' meno quando le fu chiesto qualcosa sulla striminzita dispensa su Hegel e sulle lezioni, che lei non poteva seguire perché lavorava in banca, nella città gloriosa di Girgenti. Alla fine lei e Nunzia rimediarono entrambe un dignitoso 25, che per fortuna non incise sulla media, abbastanza alta.
    Così al traguardo finale mancavano a Maruzza 5 complementari e la tesi. Le materie furono date con prio e con successo nel 1981 (Sociologia, Antropologia culturale, Storia delle dottrine economiche…) e la laurea fu conseguita nel 1982. 
    Nunzia diede tutte le materie, con una media assai brillante. Ma non fece mai la tesi e non si laureò mai.
    Nel 1983 vennero trasferite entrambe a Palermo e continuarono a vedersi e sentirsi. Finché Nunzia non lasciò troppo presto la vita per un tumore assassino.

    (Nostra signora aveva deciso di chiudere con i post intimisti. Ma, chissà perché, oggi le urgeva dare parole a questo ricordo. Forse per inviare un grazie e un abbraccio misterioso a Nunzia, amica e collega davvero speciale).

martedì 7 dicembre 2021

Allarme Natale: troppa roba ci seppellirà...

     Capita che nostra signora non trovi dalle sue parti un negozio ‘italiano’ che venda un puntale per l’albero di Natale. Così, a malincuore, entra in una bottega cinese. Delle sensazioni di smarrimento e di nausea provate in questi luoghi ha già scritto qui (e anche qui). 
    Nostra signora prova oggi le stesse impressioni di allora. Nulla contro i cinesi, creature umane come tutti: ma una nausea infinita  per i miliardi di oggetti, spesso superflui o inutili, che uccidono la salute del nostro pianeta. I negozi cinesi – anche gli altri, ovviamente – sono il Regno incontrastato di Sua maestà il Profitto. I cinesi ci hanno battuto sul nostro  terreno, sfruttando il nostro sfrenato desiderio di consumo.
      Nessuna salvezza personale o collettiva potrà esserci finché non proveremo disagio e disgusto per la montagna di merci che ci circonda e sovrasta. “Troppa roba vi seppellirà” profetizzava il settimanale Cuore, alcuni decenni fa. Aveva ragione.
Maria D'Asaro

domenica 5 dicembre 2021

Come usare i beni confiscati alle mafie

     Palermo – Si deve al palermitano Pio La Torre l’idea vincente di introdurre nel nostro ordinamento giuridico una legge che prevedesse il reato di "associazione di tipo mafioso" e la confisca  dei beni frutto dei traffici illegali.
     Pio La Torre, politico e sindacalista assai stimato per il suo impegno sociale e la sua lotta a Cosa nostra, venne assassinato a Palermo, per ordine della cupola mafiosa, il 30 aprile 1982: la sua proposta di legge fu promulgata dopo il suo brutale assassinio, il 13 settembre 1982. 
    Dal 1982 a oggi, a 31 anni dalla legge n.646 nota ormai come “Legge Rognoni-La Torre”, si contano più di 36.000 proprietà immobiliari e circa 3000 aziende sottratte alla criminalità organizzata. La maggior parte dei beni confiscati si trova  nelle regioni che hanno avuto la maggiore presenza sul territorio di associazioni criminali: la Sicilia, la Calabria e la Campania. La Sicilia ne detiene il primato, con ben il 40% circa dei patrimoni sequestrati.
Pio La Torre
    Alla legge Rognoni-La Torre è seguita nel 1996 la legge n.109, che ha sancito il riutilizzo pubblico e sociale dei beni confiscati; nel 2010 è stata poi istituita l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC). Nonostante tale impegno legislativo, al 15 aprile 1921 sono stati consegnati e fruiti per finalità istituzionali e sociali solo circa 17.000 immobili, vale a dire poco meno della metà del totale dei beni confiscati. 
    In Sicilia la percentuale di beni tornata alla fruizione collettiva scende al 45%; mentre sul fronte delle aziende, delle quasi 800 sottratte nell’isola a Cosa nostra, ne sono state rese attive soltanto 40.
   Varie ragioni rendono difficile il recupero totale dei beni sottratti alla criminalità; in primo luogo, il fatto che molti immobili presentano varie forme di criticità come quote indivise, irregolarità urbanistiche, occupazioni abusive e condizioni strutturali precarie. C’è poi da sottolineare le difficoltà operative da parte dei Comuni, destinatari di oltre l’80% dei beni confiscati: ai Comuni spetta infatti promuoverne il riuso coinvolgendo la cittadinanza, anche attraverso la pubblicità dei dati sui propri siti istituzionali, come previsto dall’articolo 48 del Codice antimafia. Secondo RimanDati, un report dell’associazione Libera, su 1076 Comuni italiani monitorati, solo 406 hanno pubblicato l’elenco degli immobili confiscati. I più inadempienti riguardo alla trasparenza sono proprio i Comuni medio-piccoli e piccoli, che possiedono minori risorse, ma si trovano a gestire più di un terzo del totale dei beni.
   Ad impedire l’assegnazione e la piena fruizione da parte della collettività dei beni confiscati concorrono anche la scarsa capacità di spesa dei Comuni e i tempi lunghi dell’iter burocratico necessario per le varie concessioni. 
Liceo "Danilo Dolci" - Palermo
   Ad esempio, a Buonfornello, in provincia di Palermo, una vasta proprietà costituita da un villaggio turistico versa in stato di abbandono in quanto il Comune di Termini Imerese, al quale l’aerea è stata assegnata, non ha i fondi necessari per ristrutturarla. A Palermo, il liceo “Danilo Dolci”, per problemi burocratici, non può ancora di fruire di 2000 mq di magazzini confiscati alla mafia e consegnati da tempo all’Istituto: “Manca solo il cambio di destinazione d’uso”, afferma il dirigente dell’Istituto, professore Matteo Croce, che lamenta la mancata consegna di uno spazio vitale per la scuola, costretta a fare i conti con la carenza di locali.
    Per far fronte a questi ostacoli, il prefetto Bruno Corda, attuale Presidente dell’ANBSC, in un recente incontro organizzato a Trapani in occasione dei 30 anni dall’istituzione della Direzione Investigativa Antimafia (DIA), ha proposto la creazione di una diversa piattaforma per le assegnazioni dei beni confiscati ai Comuni, piattaforma che permetta agli Enti locali di avere maggiori potenzialità di accesso a fondi che consentano loro di ristrutturare i beni loro assegnati: troppo spesso infatti i Comuni più piccoli necessitano di percorsi di formazione/informazione per comprendere il valore del riutilizzo sociale dei beni e per potere utilizzare fondi nazionali ed europei.
    Papa Francesco, nel settembre 2017, ricevendo per la prima volta in udienza la Commissione parlamentare Antimafia, ha sottolineato che «l’Italia dev’essere orgogliosa della propria legislazione contro la mafia, e in particolare dei beni confiscati alle mafie e riconvertiti a uso sociale». Beni che, ha continuato papa Francesco, possono diventare "palestra di vita", soprattutto se si qualificano come beni comuni, accessibili, cooperativi, finalizzati ai bisogni della comunità e alla tutela del patrimonio ambientale. 

Maria D'Asaro, 5.12.21, il Punto Quotidiano

sabato 4 dicembre 2021

Perché sono contrario allo scrivere oscuro: parla Primo Levi

P. Picasso: Ritratto di Ambroise Vollard,1909
    "Qui occorre far fronte a un'obiezione: talvolta si scrive (o si parla) non per comunicare, ma per scaricare una propria tensione, o una gioia, o una pena, ed allora si grida anche nel deserto, si geme, ride, canta, urla.
    Per chi urla, purché abbia motivi validi per farlo, ci vuole comprensione: il pianto e il lutto, siano essi contenuti o scenici, sono benefici in quanto alleviano il dolore. Urla Giacobbe sul mantello insanguinato di Giuseppe; in molte città il lutto gridato è rituale e prescritto. Ma l'urlo è un ricorso estremo, utile per l'individuo come le lacrime, inetto e rozzo se inteso come linguaggio, poiché tale, per definizione, non è: l'inarticolato non è articolato, il rumore non è suono. 
    Per questo motivo, mi sento sazio delle lodo tributate a testi che (cito a caso) "suonano al limite dell'ineffabile, del non-esistente, del mugolio animale". Sono stanco di "densi impasti magmatici", di "rifiuti semantici" e di innovazioni stantie. Le pagine bianche sono bianche, ed è meglio chiamarle bianche; se il re è nudo, è onesto dire che è nudo.
    Personalmente sono stanco anche delle lodi elargite in vita e in morte a Ezra Pound, che forse è pure stato un grande poeta, ma che per essere sicuro di non essere compreso scriveva a volte perfino in cinese, e sono convinto che la sua oscurità poetica aveva la stessa radice del superomismo, che lo ha condotto prima al fascismo e poi all'autoemarginazione: l'una e l'altro germinavano dal suo disprezzo per il lettore. 
    Forse il tribunale americano che giudicò Pound mentalmente infermo aveva ragione: scrittore d'istinto, doveva essere un pessimo ragionatore, e lo confermano il suo comportamento politico ed il suo odio maniacale per i banchieri: ora, chi non sa ragionare deve essere curato, e nei limiti del possibile rispettato, anche se, come Ezra Pound, si induce a fare propaganda nazista contro il proprio paese in guerra contro la Germania di Hitler: ma non deve essere lodato né indicato ad esempio, perché è meglio essere sani che insani.

   L'effabile è preferibile all'ineffabile, la parola umana al mugolio animale. Non è un caso che i due poeti tedeschi meno decifrabili Trakl e Celan, siano entrambi morti suicidi, a distanza di due generazioni. Il loro comune destino fa pensare all'oscurità della loro poetica come ad un pre-uccidersi, a un non- voler- essere, ad una fuga dal mondo, a cui la morte voluta è stata coronamento. Sono da rispettarsi, perché il loro " mugolio animale" era terribilmente motivato: per Trakl, dal naufragio dell'impero Asburgico, in cui egli credeva, nel vortice della Grande Guerra; per Celan, ebreo tedesco scampato per miracolo alla strage tedesca, dallo sradicamento, e dall'angoscia senza rimedio davanti alla morte trionfatrice. Per Celan soprattutto, perché è un nostro contemporaneo (1920-70), il discorso deve farsi più serio e responsabile.
    Si percepisce che il suo canto è tragico e nobile, ma confusamente: penetrarlo è impresa disperata non solo per il lettore generico, ma anche per il critico. L'oscurità di Celan non è disprezzo del lettore né insufficienza espressiva né pigro abbandono ai flussi dell'inconscio: è veramente un riflesso dell'oscurità del destino suo e della sua generazione, e si va addensando sempre più intorno al lettore, stringendolo come in una morsa di ferro e di gelo, dalla cruda lucidità di Fuga di morte (1945) al truce caos senza spiragli delle ultime composizioni. Questa tenebra che cresce di pagina in pagina, fino all'ultimo disarticolato balbettio, costerna con il rantolo di un moribondo, ed infatti altro non è. Ci avvince come avvincono le voragini, ma insieme ci defrauda di qualcosa che doveva essere detto e non lo è stato, e perciò ci frustra e ci allontana. 
    Io penso che Celan poeta debba essere piuttosto meditato e compianto che imitato. Se il suo è un messaggio, esso va perduto nel "rumore di fondo": non è una comunicazione, non è un linguaggio, o al più è un linguaggio buio e monco, qual è appunto quello di colui che sta per morire, ed è solo, come tutti lo saremo in punto di morte. Ma poiché noi vivi non siamo soli, non dobbiamo scrivere come se fossimo soli. Abbiamo una responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno.
   Del resto, parlare al prossimo in una lingua che egli non può capire può essere malvezzo di alcuni rivoluzionari, ma non è affatto uno strumento rivoluzionario: è invece un antico artificio repressivo, noto a tutte le chiese, vizio tipico della nostra classe politica, fondamento di tutti gli imperi coloniali. E' un modo sottile di imporre il proprio rango: quando padre Cristoforo dice "Omnia munda mundis" in latino e fra Fazio che il latino non lo sa, a quest'ultimo, "al sentir quelle parole gravide d'un senso misterioso, e proferite così risolutamente… parve che in quelle dovesse contenersi la soluzione di tutti i suoi dubbi. S'acquietò, e disse: 'Basta! Lei ne sa più di me'".
    Neppure è vero che solo attraverso l'oscurità verbale si possa esprimere quell'altra oscurità di cui siamo figli, e che giace nel nostro profondo. Non è vero che il disordine sia necessario per dipingere il disordine; non è vero che il caos della pagina scritta sia il miglior simbolo del caos ultimo a cui siamo votati: crederlo è vizio tipico del nostro secolo insicuro. 
Finché viviamo, e qualunque sia la sorte che ci è toccata o che ci siamo scelta, è indubbio che saremo tanto più utili (e graditi) agli altri ed a noi stessi, e tanto più a lungo verremo ricordati, quanto migliore sarà la qualità della nostra comunicazione. Chi non sa comunicare, o comunica male, in un codice che è solo suo o di pochi, è infelice, e spande infelicità intorno a sé. Se comunica male deliberatamente, è un malvagio, o almeno una persona scortese, perché obbliga i suoi fruitori alla fatica, all'angoscia o alla noia.
    Beninteso, perché il messaggio sia valido, essere chiari e inutili, chiari e bugiardi, chiari e volgari, ma questi sono altri discorsi. Se non si è chiari non c'è messaggio affatto. Il mugolio animali è accettabile da parte degli animali, dei moribondi, dei folli e dei disperati: l'uomo sano ed intero che lo adotta è un ipocrita o uno sprovveduto, e si condanna a non avere lettori. Il discorso fra uomini, in lingua d'uomini, è preferibile al mugolio animale, e non si vede perché debba essere meno poetico di questo.
Ma, ripeto, queste sono mie preferenze, non norme.
   Chi scrive è libero di scegliersi il linguaggio che più gli si addice, e tutto può darsi: che uno scritto oscuro per il suo stesso autore sia luminoso ed aperto per chi lo legge; che uno scritto non compreso dai suoi contemporanei diventi chiaro ed illustre decenni e secoli dopo."

Primo Levi: Dello scrivere oscuro, in L’altrui mestiere, Einaudi, Torino, 2018 pagg.54-57

giovedì 2 dicembre 2021

Sulla scrittura, secondo Primo Levi

Jan Vermeer: Donna che scrive una lettera (1665)
      "Non si dovrebbero mai imporre limiti o regole allo scrivere creativo.  (…)
      Detto questo, e rinunciando quindi enfaticamente a qualsiasi pretesa normativa, proibitiva o punitiva, vorrei aggiungere che a mio parere non si dovrebbe scrivere in modo oscuro, perché uno scritto ha tanto più valore, e tanta più speranza di diffusione e di perennità, quanto meglio viene compreso e quanto meno si presta ad interpretazioni equivoche.
        E' evidente che una scrittura perfettamente lucida presuppone uno scrivente totalmente consapevole, il che non corrisponde alla realtà. Siamo fatti di Io e di Es, di spirito e di carne, ed inoltre di acidi nucleici, di tradizioni, di ormoni, di esperienze e traumi remoti e prossimi; perciò siamo condannati a trascinarci dietro, dalla culla alla tomba, un Doppelgänge, un fratello muto e senza volto, che pure è corresponsabile delle nostre azioni, quindi anche delle nostre pagine. Come è noto, nessun autore capisce a fondo quello che ha scritto, e tutti gli scrittori hanno avuto modo di studiare delle cose belle e brutte che i critici hanno trovato nelle loro opere che loro non sapevano di averci messe; (…) E' un fatto contro cui non si può combattere: questa fonte di inconoscibilità e di irrazionalità che ognuno di noi alberga deve essere accettata, anche autorizzata ad esprimersi nel suo (necessariamente oscuro) linguaggio, ma non tenuta per ottima od unica fonte di espressione.
      Non è vero che il solo scrivere autentico è quello che viene dal "cuore", e che in effetti viene da tutti gli ingredienti distinti dalla conoscenza che sono citati sopra. Questa opinione, del resto onorata dal tempo, si fonda sul presupposto che il cuore che "ditta dentro" sia un organo diverso da quello della ragione e più nobile di esso, e che il linguaggio del cuore sia uguale per tutti, il che non è. Lungi dall'essere universale nel tempo e nello spazio, il linguaggio del cuore è capriccioso, adulterato e instabile come la moda, di cui in effetti fa parte: neppure si può sostenere che esso sia uguale a se stesso limitatamente ad un paese e ad un'epoca. Altrimenti detto, non è un linguaggio affatto, o al più un vernacolo, un argot, se non un'invenzione individuale.
Primo Levi
     Perciò, a chi scrive nel linguaggio del cuore può accadere di riuscire indecifrabile, ed allora è lecito domandarsi a che scopo egli abbia scritto: infatti (mi pare che questa sia un postulato ampiamente accettabile) la scrittura serve a comunicare, a trasmettere informazioni o sentimenti da mente a mente, da luogo a luogo, e da tempo a tempo, e chi non viene capito da nessuno non trasmette nulla, grida nel deserto. 
     Quando questo avviene il lettore di buona volontà deve essere rassicurato: se non intende un testo, la colpa è dell'autore, non sua. Sta allo scrittore farsi capire da chi desidera capirlo: è il suo mestiere, scrivere è un servizio pubblico, e il lettore volenteroso non deve andare deluso.
     Questo lettore, che ho la curiosa impressione di avere accanto quando scrivo, ammetto di averlo leggermente idealizzato. E' simile ai gas perfetti dei termodinamici, perfetti solo in quanto il loro comportamento è perfettamente prevedibile in base a leggi più semplici, mentre i gas reali sono più complicati. Il mio lettore "perfetto" non è un dotto ma neppure uno sprovveduto; legge non per obbligo né per passatempo né per fare bella figura in società, ma perché è curioso di molte cose, vuole scegliere fra esse, e non vuole delegare questa scelta a nessuno; conosce i limiti della sua competenza e preparazione , ed orienta le sue scelte di conseguenza; nella fattispecie, ha volenterosamente scelto i miei libri, e proverebbe disagio o dolore se non capisse riga per riga quello che ho scritto, anzi, gli ho scritto: infatti scrivo per lui , non per i critici né per i potenti della Terra né per me stesso. Se non mi capisse, lui si sentirebbe ingiustamente umiliato, ed io colpevole di inadempienza contrattuale."

                         (continua…)

Primo Levi: Dello scrivere oscuro, in L’altrui mestiere, Einaudi, Torino, 2018 pagg.50-53


martedì 30 novembre 2021

Vita da blogger: i miei primi 13 anni…

Oggi 13 candeline, nella vita da blogger. 

Felice di essere una blogger, da quando, il 30 novembre 2008, ho messo in rete il  post n.1 (il primo di una rubrica su un settimanale cartaceo: 150 parole da Palermo)...

Qui uno dei post intimisti dell’era giurassica (4 novembre 2009)
Qui una delle mie 101 storie da docente/psicopedagogista:

Due tra le mie ultime recensioni (ormai una novantina):

Quiqui, circa sette anni fa , due  post a caldo dopo l’elezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica

Due petit-onze: Esercizi - Splendi

Un grazie immenso a chi ha la pazienza, l’attenzione, la curiosità, il prio (termine dialettale siciliano che significa piacere) di leggere quello che scrivo e lasciare una traccia della sua presenza nei mari (o in FB).

Ma perché scriviamo?

Ancora valide le riflessioni di Primo Levi (anche sostituendo a scrittori 'blogger, meno impegnativo e più pertinente, nel mio caso)

"Avviene spesso che un lettore, di solito un giovane, chieda a uno scrittore, in tutta semplicità, perché ha scritto un certo libro, o perché lo ha scritto così, o anche, più generalmente, perché scrive e perché gli scrittori scrivono. A questa ultima domanda, che contiene le altre, non è facile rispondere: non sempre uno scrittore è consapevole dei motivi che lo inducono a scrivere, non sempre è spinto da un motivo solo, non sempre gli stessi motivi stanno dietro all’inizio ed alla fine della stessa opera. Mi sembra che si possano configurare almeno nove motivazioni, e proverò a descriverle; ma il lettore, sia egli del mestiere o no, non avrà difficoltà a scovarne delle altre.

Perché, dunque, si scrive?
1)    Perché se ne sente l’impulso o il bisogno. È questa, in prima approssimazione, la motivazione più disinteressata. L’autore che scrive perché qualcosa o qualcuno gli detta dentro non opera in vista di un fine; dal suo lavoro gli potranno venire fama o gloria, ma saranno un di più, un beneficio aggiunto, non consapevolmente desiderato: un sottoprodotto, insomma. Beninteso, il caso delineato è estremo, teorico, asintotico: è dubbio che mai sia esistito uno scrittore, o in generale un artista, così puro di cuore. Tali vedevano se stessi i romantici; non a caso, crediamo di ravvisare questi esempi fra i grandi più lontani nel tempo, di cui sappiamo poco, e che quindi è più facile realizzare. Per lo stesso motivo le montagne lontane ci appaiono tutte dello stesso colore, che spesso si confonde con il colore del cielo.

2)    Per divertire o divertirsi. Fortunatamente, le due varianti coincidono quasi sempre: è raro che chi scrive per divertire il suo pubblico non si diverta scrivendo, ed è raro che ci prova piacere nello scrivere non trasmetta al lettore almeno una porzione del suo divertimento. A differenza del caso precedente, esistono di divertitori puri, spesso non scrittori di professione, alieni da ambizioni letterarie e non, privi di certezze ingombranti e di rigidezze dogmatiche, leggeri e limpidi come bambini, lucidi e savi come chi ha vissuto a lungo e non invano. Il primo nome che mi viene in mente è quello di Lewis Carroll, il timido decano e matematico della vita intemerata, che ha affascinato sei generazioni con le avventure della sua Alice, prima nel paese delle meraviglie e poi dietro lo specchio. La conferma del suo genio affabile si ritrova nel favore che i suoi libri godono, dopo più di un secolo di vita, non solo presso i bambini, a cui egli idealmente li dedicava, ma presso i logici e gli psicoanalisti, che non cessano di trovare nelle sue pagine significati sempre nuovi. È probabile che questo mai interrotto successo dei suoi libri sia dovuto proprio al fatto che essi non contrabbandano nulla: né lezioni di morale né sforzi didascalici.

3)    Per insegnare qualcosa a qualcuno. Farlo, e farlo bene, può essere prezioso per il lettore, ma occorre che i patti siano chiari. A meno di rare eccezioni, come il Virgilio delle Georgiche, l’intento didattico corrode la tela narrativa dal di sotto, la degrada e la inquina: il lettore che cerca il racconto deve trovare il racconto, e non una lezione che non desidera. Ma appunto, le eccezioni ci sono, e chi ha sangue di poeta sa trovare ed esprimere poesia anche parlando di stelle, di atomi, dell’allevamento del bestiame e di apicoltura. Non vorrei dare scandalo ricordando qui “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi, altro uomo di cuore puro, che non si nasconde la bocca dietro la mano: non posa a letterato, ama con passione l’arte della cucina spregiata dagli ipocriti e dai dispeptici, intende insegnarla, lo dichiara, lo fa con la semplicità e la chiarezza di chi conosce a fondo la sua materia, ed arriva spontaneamente all’arte.

4)    Per migliorare il mondo. Come si vede, ci stiamo allontanando sempre più dall’arte che è fine a se stessa. Sarà opportuno osservare qui che le motivazioni di cui stiamo discutendo hanno ben poca rilevanza ai fini del valore dell’opera a cui possono dare origine; un libro può essere bello, serio, duraturo e gradevole per ragione assai diverse da quello per cui è stato scritto. Si possono scrivere libri ignobili per ragioni nobilissime, ed anche, ma più raramente, libri nobili per ragioni ignobili. Tuttavia, provo personalmente una certa diffidenza per chi “sa” come migliorare il mondo; non sempre, ma spesso, è un individuo talmente innamorato del suo sistema da diventare impermeabile alla critica. C’è da augurarsi che non possegga una volontà troppo forte, altrimenti sarà tentato di migliorare il mondo nei fatti e non solo nelle parole: così ha fatto Hitler dopo aver scritto “Mein Kampf”, ed ho spesso pensato che molti altri utopisti, se avessero avuto energie sufficienti, avrebbero scatenato guerre e stragi.

5)    Per far conoscere le proprie idee. Chi scrive per questo motivo rappresenta soltanto una variante più ridotta, e quindi meno pericolosa, del caso precedente. La categoria coincide di fatto con quella dei filosofi, siano essi geniali, mediocri, presuntuosi, amanti del genere umano, dilettanti o matti.

6)    Per liberarsi da un’angoscia. Spesso lo scrivere rappresenta un equivalente di una confessione o del divano di Freud. Non ho nulla da obiettare a chi scrive spinto dalla tensione: gli auguro anzi di riuscire a liberarsene così, come è accaduto in me in anni lontani. Gli chiedo però che si sforzi di filtrare la sua angoscia, di non scagliarla così com’è, ruvida e greggia, sulla faccia di chi legge; altrimenti rischia di contagiarla agli altri senza allontanarla da sé.

7)    Per diventare famosi. Credo che sono un folle possa accingersi a scrivere unicamente per diventare famoso: ma credo che nessuno scrittore, neppure il più modesto, neppure il meno presuntuoso, neppure l’angelico Carroll sopra ricordato, sia stato immune da questa motivazione. Aver fama, leggere di sé sui giornali, sentire parlare di sé, è dolce, non c’è dubbio; ma poche fra le gioie che la vita può dare costano altrettanta fatica, e poche fatiche hanno risultato così incerto.

8)    Per diventare ricchi. Non capisco perché alcuni si sdegnino o si stupiscano quando vengono a sapere che Collodi, Balzac e Dostoevskij scrivevano per guadagnare, o per pagare i debiti di gioco, o per tappare i buchi di imprese commerciali fallimentari. Mi pare giusto che lo scrivere, come qualsiasi altra attività utile, venga ricompensato. Ma credo che scrivere solo per denaro sia pericoloso, perché conduce quasi sempre ad una maniera facile, troppo ossequente al gusto del pubblico più vasto e alla moda del momento.

9)    Per abitudine. Ho lasciato ultima questa motivazione, che è la più triste. Non è bello, ma avviene: avviene che lo scrittore esaurisca il suo propellente, la sua carica narrativa, il suo desiderio di dar vita e forma alle immagini che ha concepite; che non abbia più desideri, neppure di gloria e di denaro; e che scriva ugualmente, per inerzia, per abitudine, per “tener viva la firma”. Badi a quello che fa: su quella strada non andrà lontano, finirà fatalmente col copiare se stesso. È più dignitoso il silenzio, temporaneo o definitivo”.

Primo Levi, L’altrui mestiere, Einaudi, Torino, 2018 (pag.33-36)

domenica 28 novembre 2021

Amnesty International, una candela accesa sui diritti umani

  Palermo – Ha compiuto 60 anni Amnesty International, l’organizzazione internazionale non governativa impegnata a promuovere e difendere in tutto il pianeta il rispetto dei diritti umani, sanciti il 10 dicembre 1948 nella Dichiarazione universale adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. 
   Fondatore e primo segretario generale di Amnesty è stato l’avvocato, attivista e filantropo britannico Peter Benenson che, appresa la notizia della condanna in Portogallo a sette anni di prigione di due studenti - responsabili solo di un brindisi alla libertà delle colonie portoghesi - il 28 maggio 1961 pubblicò una lettera nel giornale londinese The Observer, accompagnata dall’articolo del direttore “I prigionieri dimenticati”. Nella missiva, Benenson chiedeva ai lettori di scrivere anch’essi lettere a sostegno dei due studenti imprigionati e di altre persone incarcerate per le loro idee. L’adesione all’iniziativa fu enorme, tanto da costituire in una dozzina di paesi gruppi di sostegno alla causa dei due studenti. 
       Nacque così Amnesty International, diffusa oggi, a 60 anni di distanza, in oltre 150 nazioni, con più di sette milioni di soci sostenitori. Amnesty si batte in particolare a favore delle persone incarcerate per reati di opinione: donne e uomini privati della libertà per le proprie idee o il proprio credo politico o religioso o discriminati per l’orientamento sessuale. L’associazione si adopera anche per convincere i governi a modificare le leggi palesemente ingiuste e discriminatorie.
    Le denunce e le azioni di Amnesty si fondano sull'accertamento dei fatti grazie ai ricercatori che operano sul territorio dove è commesso l’abuso. Tali collaboratori, in situazioni spesso assai difficili e avverse, raccolgono prove, registrano le violazioni, aggiornano i dati disponibili, tentano di parlare con le vittime.
    Nell’ottica del pieno rispetto dei diritti umani, Amnesty International si oppone senza riserva a tutte le forme di tortura e alla pena di morte. Nel 1977 è stata insignita del Premio Nobel per la pace, per l'attività di "difesa della dignità umana contro la tortura, la violenza e la degradazione". L'anno seguente le è stato assegnato il Premio delle Nazioni Unite per i diritti umani. 
   A cura del segretariato internazionale, viene pubblicato ogni anno l’Amnesty International Report, il rapporto sullo stato dei diritti umani nel mondo. Il penultimo rapporto (2019-2020), esamina in particolare la situazione dei diritti umani in sei macro-Regioni mondiali: Africa subsahariana, Americhe, Asia e Pacifico, Europa orientale e Asia Centrale, Medio Oriente e Africa del nord. Tale rapporto ha denunciato i diritti umani violati dalle nazioni all’interno delle macroaree considerate, indicando sempre l’ambito particolare del diritto violato. 
   Ad esempio, sono stati effettuate denunce su uccisioni illegali, sparizioni forzate, pena di morte, tortura ed altri maltrattamenti, uso eccessivo della forza, condizioni carcerarie, violenza contro le donne; nonché denunce sul mancato rispetto della libertà di riunione, della libertà di espressione, del diritto alla salute, del diritto all'infanzia, dei diritti dei rifugiati, dei migranti e richiedenti asilo, dei diritti delle persone lesbiche, gay, bisessuali, dei diritti degli obiettori di coscienza…
Queste le nazioni dove si sono registrate le maggiori violazioni dei diritti umani: Arabia Saudita, Brasile, Cina, Egitto, India, Iran, Libia, Myanmar, Polonia, Repubblica Centrafricana, Russia, Siria, Somalia, Sudan, Turchia, Venezuela.  
    L'ultimo rapporto di Amnesty International (2020-21) ha evidenziato l'eccezionalità di un anno caratterizzato dalla pandemia, sottolineando che la mortalità da Covid-19 è stata incrementata dalle ampie diseguaglianze esistenti, e aggravata da sistemi sanitari indeboliti da tagli indiscriminati e da istituzioni internazionali rese più deboli nelle loro funzioni. In particolare, il Rapporto 2020-2021, che raccoglie informazioni da 149 nazioni, segnala vessazioni da parte delle autorità statali verso operatori sanitari nel 28% dei Paesi considerati; in altri 42 Paesi, inoltre, autorità governative hanno ostacolato e intimidito il personale sanitario.
    L’ultimo rapporto di Amnesty evidenzia poi, nel 58% dei 149 Stati considerati, il perdurare di torture e maltrattamenti, con esiti mortali nel 28% dei casi. Tra le violazioni dei diritti umani, viene anche segnalato il rimpatrio forzato di migranti o rifugiati anche verso quei Paesi dove erano a rischio di persecuzione.
In Italia, Amnesty International è presente con circa 170 gruppi, oltre a una trentina di gruppi giovani, formati da soci in età scolare o universitaria. In Sicilia, una delle regioni più attive nell’impegno associativo, i gruppi sono una ventina.
    Il 21 novembre scorso, in occasione della Giornata Nazionale degli Alberi, per celebrare i 60 anni dell’associazione e simboleggiare la necessità che i diritti umani ‘mettano radici’, gli attivisti delle quattro sezioni presenti a Palermo hanno piantato un albero, un ginkgo biloba, all’interno del Parco dell’Uditore. Roberto Zampardi, responsabile della sezione palermitana n.243, ha ricordato ai presenti gli obiettivi dell’associazione, accanto alla sagoma in cartone di Patrick Zaki,  il trentenne egiziano studente all’Università di Bologna, detenuto in condizioni disumane nel suo Paese dal 7 febbraio 2020 per reati di opinione.
    Significativo, infine, il simbolo scelto da Benenson per l’associazione: una candela avvolta nel filo spinato. Scrisse il fondatore; «Quando ho acceso la prima candela di Amnesty avevo in mente un vecchio proverbio cinese: "Meglio accendere una candela che maledire l'oscurità". Questo è anche oggi il motto per noi di Amnesty (…) Questa candela non brucia per noi, ma per tutte quelle persone che non siamo riusciti a salvare dalla prigione, che sono state uccise, torturate, rapite, o sono "scomparse"».
Che la luce sui diritti umani sia sempre accesa, anche negli angoli più lontani, bui e nascosti del mondo.

Maria D'Asaro, 28.11.21, il Punto Quotidiano





sabato 27 novembre 2021

Canzone in bianco

Joan Baez e Patty Smith
Candore:

vessillo glorioso,

musica della vita

ritmo possente del tempo...

Canzone





giovedì 25 novembre 2021

Sono una donna

G.Klimt: La danzatrice (1916-18)
Nessuno può immaginare
quel che dico quando me ne sto in silenzio
chi vedo quando chiudo gli occhi
come vengo sospinta quando vengo sospinta
cosa cerco quando lascio libere le mie mani.

Nessuno, nessuno sa
quando ho fame, quando parto
quando cammino e quando mi perdo,
e nessuno sa
che per me andare è ritornare
e ritornare è indietreggiare,
che la mia debolezza è una maschera
e la mia forza è una maschera,
e che quel che seguirà è una tempesta.
Credono di sapere
e io glielo lascio credere
e avvengo.

Hanno costruito per me una gabbia affinché la mia libertà
fosse una loro concessione
e ringraziassi e obbedissi.
Ma io sono libera prima e dopo di loro,
con loro e senza di loro
sono libera nella vittoria e nella sconfitta.

La mia prigione è la mia volontà!
La chiave della prigione è la loro lingua
ma la loro lingua si avvinghia intorno alle dita del mio desiderio
e il mio desiderio non riusciranno mai a domare.

Sono una donna.
Credono che la mia libertà sia loro proprietà
e io glielo lascio credere
e avvengo.

Joumana Haddad, qui sue notizie biografiche


Joumana Haddad

    Questa poesia, assieme ad altre, è stata proposta da Adriana Saieva mercoledì 10 novembre scorso,  presso la Casa dell’Equità e della bellezza a Palermo, in via Garzilli, 43)  nell’ambito di un incontro di meditazione sul tema: Stati d’animo, riflessioni a partire dalle poetesse di ogni tempo e luogo, con particolare sottolineatura della solitudine, condizione esistenziale e sociale propria a tante donne.
   Grazie, Adriana.

(Qui la splendida poesia di Blaga Dimitrova)