domenica 31 ottobre 2021

Catacombe dei Cappuccini: il museo della morte a Palermo

    Palermo – Sconsigliata a chi è impressionabile, la visita alle Catacombe dei Cappuccini, poste sotto la chiesa di Santa Maria della Pace, a Palermo, nel quartiere Cuba/Calatafimi, rimane impressa nella memoria. Non è un caso che venga citata da tanti visitatori illustri; tra essi, poeti e scrittori come Alexandre Dumas, Guy de Maupassant, Ippolito Pindemonte, Carlo Levi, Mario Praz.
       Cosa hanno di speciale queste catacombe?  
Nonostante l’appellativo, si tratta in realtà di un cimitero, utilizzato come sepoltura dei frati cappuccini, che si erano stabiliti a Palermo nel 1534 nel convento adiacente alla chiesa di Santa Maria della Pace. I frati, come allora era consuetudine, seppellivano i confratelli defunti in una fossa comune, sotto un altare della chiesa stessa, calandoli dall’alto avvolti in un lenzuolo. 
   Alla fine del 1500, poiché la fossa era diventata insufficiente, fu scavato un ulteriore cimitero sotterraneo, denominato ‘catacomba’, secondo l’uso linguistico del tempo. Quando, nel 1599, i Frati si apprestarono a trasferirvi i resti dei confratelli defunti, trovarono 45 corpi intatti, mummificati naturalmente. Interpretando l’evento come un segno divino, i corpi furono allora posti in piedi all’interno di nicchie create attorno alle pareti del corridoio delle catacombe.  
     La prima salma a essere ospitata ed esposta nel nuovo cimitero fu quella di fra Silvestro da Gubbio, il 16 ottobre del 1599. A poco a poco, nelle catacombe, in cambio di generose offerte e donazioni, furono ammesse anche le salme mummificate di defunti laici e, dal 1783, vi ebbero accesso i cadaveri di tutti coloro i cui parenti potevano permettersi la spesa dell’imbalsamazione. Così questo cimitero sotterraneo, con la creazione di altre nicchie nei nuovi corridoi, acquistò il macabro primato di esposizione museale della morte. 
     Anche se manca un conteggio ufficiale, il numero delle salme dovrebbe essere di circa 8000. Il maggior numero è costituito dai corpi dei frati Cappuccini; il resto è composto da cadaveri dei ceti più ricchi - prelati, nobili e borghesi - poiché il processo di imbalsamazione era abbastanza costoso. Le salme, in piedi o coricate, sono suddivise per sesso e appartenenza sociale. Nei vari settori, rivestiti con gli abiti della festa, si riconoscono preti, ufficiali dell’esercito, borghesi e commercianti; giovani donne morte prima delle nozze, vestite in abito da sposa; gruppi familiari; bambini.
     Dopo il ritrovamento dei 45 cadaveri intatti, i frati agevolarono il processo di mummificazione con tecniche specifiche: portavano i defunti nel cosiddetto ‘colatoio’ dove ai corpi venivano prima asportati gli organi interni per essere poi riempiti con paglia e foglie di alloro, per favorire la disidratazione, bloccare la crescita batterica e il processo di putrefazione. Nei ‘colatoi’, caratterizzati da bassa umidità, i corpi così trattati perdevano l’acqua e si andavano asciugando. Poi le salme venivano poste all’aria aperta e pulite con un po’ di aceto; venivano infine rivestite con il loro abito migliore e collocate nelle nicchie loro riservate. Al termine del processo di mummificazione la pelle assumeva un colore bruno, con la consistenza del cuoio, mentre il corpo aveva ormai una notevole rigidità. 
     Nei periodi di epidemie, i corpi venivano anche sottoposti a bagni di arsenico o di acqua di calce: metodo questo utilizzato per il cadavere di Antonio Prestigiacomo, morto nel 1844 a 50 anni e imbalsamato con arsenico. Di Prestigiacomo si tramanda che sia morto a causa di un duello e che, prima di spirare, abbia espresso la volontà di essere imbalsamato con due occhi di vetro, per continuare a guardare le donne che sarebbero passate…
    A metà del 1800, le nuove disposizioni sanitarie vietarono le sepolture nelle chiese e nei sotterranei. Venne allora costruito accanto alla chiesa l’attuale cimitero esterno. Dal 1880, nelle ‘catacombe’ non furono più introdotti altri cadaveri, ma ci fu qualche eccezione: nel 1911 fu accolta, ad esempio, la salma di Giovanni Paterniti, viceconsole degli Stati Uniti, nel 1920 quella della piccola Rosalia Lombardo (nata il 13 dicembre del 1918 e morta di polmonite il 6 dicembre del 1920), il cui padre, distrutto dal dolore, a supplicò che il corpo della bimba venisse imbalsamato. 
      A curare l’imbalsamazione della bambina, considerata oggi la mummia più bella del mondo, fu il professore palermitano Alfredo Salafia, specialista nel campo delle imbalsamazioni, le cui tecniche e i cui prodigiosi composti chimici sono stati svelati un decennio fa dall’antropologo Dario Piombino-Mascali. 
Per imbalsamare la piccola, Salafia utilizzò una miscela composta da alcool, glicerina, formalina, per uccidere i batteri, acido salicilico, per impedire la formazione di funghi, paraffina disciolta in etere per mantenere la rotondità del volto e sali di zinco, per conferire rigidità. 
    Poiché nel corso degli anni aveva però iniziato a presentare qualche piccolo segno di decomposizione, il corpicino di Rosalia è stato collocato all'interno di una teca di acciaio e vetro, satura di azoto, alla temperatura costante di 20 °C e con umidità del 65%. 
La bambina appare ancora intatta, con un viso paffutello, la pelle morbida e distesa e un bel fiocco giallo tra i riccioli dorati. Sembra davvero si sia solo addormentata…

Maria D'Asaro, 31.10.21, il Punto Quotidiano

mercoledì 27 ottobre 2021

L'immagine poetica, motore dell'anima

  
Alberto Savinio: Souvenir d'infanzia ad Atene
   “La poesia è un impegno dell’anima. Nei poemi si manifestano forze che non passano attraverso i circuiti di un sapere. Per mezzo della sua novità un’immagine poetica mette in moto tutta l’attività linguistica. Il verso ha sempre un moto, l’immagine s’infiltra nelle linee dei versi e porta con sé l’immaginazione, come se l’immaginazione creasse una fibra nervosa. 
    Il poeta, nella novità delle sue immagini, è sempre origine di linguaggio. L’atto poetico non ha un passato vicino, lungo il quale sia possibile seguire ciò che lo prepara, la sua stessa epifania. L’immagine poetica non è l’eco di un passato ma è piuttosto il contrario: attraverso una folgorante immagine il passato lontano risuona di echi, e non si riesce a cogliere fino a quale profondità tali echi si ripercuoteranno e si estenderanno.
    Le grandi immagini sono sempre allo stesso tempo ricordo e leggenda. Ogni grande immagine ha un fondo onirico insondabile, sul quale il passato dipinge immagini particolari. Bisogna spingersi fino alle profondità dei sogni, al di là dei ricordi in una pre-memoria (…)
    L’immaginazione con materiali familiari crea oggetti stranieri. Con un dettaglio poetico, l’immaginazione si trova davanti un mondo nuovo. Una semplice immagine, se è nuova, apre un mondo, e il mondo, visto dalle mille finestre dell’immaginario, è mutevole.
    L’immagine che la lettura del poema ci offre, eccola diventata veramente nostra: essa si radica in noi stessi, e, sebbene noi non abbiamo fatto altro che accoglierla, nasciamo all’impressione che avremmo potuto crearla noi, che avremmo dovuto crearla noi. Essa diventa un essere nuovo del nostro linguaggio, ci esprime facendoci diventare quanto essa esprime o, in altre parole, essa è al tempo stessa un divenire espressivo e un divenire del nostro essere. Così l’espressione crea l’essere."

Gaston Bachelard, La poetica dello spazio
Gaston Bachelard
"La nostra appartenenza al mondo delle immagini è più forte, più costitutiva del nostro essere che non l'appartenenza al mondo delle idee".


lunedì 25 ottobre 2021

E Facebook diventa solo cortile di casa?

     Palermo – Il 4 febbraio 2004 ebbe davvero un’intuizione geniale Mark Zuckerberg – allora ventenne al secondo anno di università ad Harvard - quando, con alcuni colleghi, progettò una piattaforma informatica che permetteva agli studenti della sua università di entrare in collegamento gli uni con gli altri. Nacque così Facebook, sino a qualche anno fa ‘re’ incontrastato dei social media: nel giugno 2017 aveva infatti raggiunto mensilmente 2,23 miliardi di utenti, classificandosi a livello mondiale come primo servizio di rete sociale per numero complessivo di fruitori attivi. 
    Incalzato oggi da altri social come Instagram, Twitter e, soprattutto per i giovanissimi, Tik Tok, bisogna riconoscere a Zuckerberg e soci di avere intercettato con la creazione di Facebook - e di averci immensamente guadagnato - uno dei bisogni fondamentali degli esseri umani: quello di relazione e di visibilità. Ormai Facebook, e in genere tutti i social, sono considerati una sorta di virtuale agorà postmoderna, sia polis/città che oikos/casa, aperti a ogni ora del giorno, senza confini spazio-temporali, senza (apparenti) distinzioni anagrafiche e sociali. 
     Ma comunichiamo davvero di più tramite Facebook? Secondo lo studioso statunitense Eli Pariser, che ha esposto le sue tesi nel libro The Filter Bubble: What the Internet Is Hiding from You (La bolla di filtraggio: cosa Internet ti sta nascondendo), gli utenti di Internet – in particolare quelli dei social - vengono esposti molto marginalmente a punti di vista diversi dai propri e sono ‘isolati nella propria bolla’ di informazioni. 
    Infatti, a loro insaputa, gli utenti rimangono chiusi nel loro mondo di idee, nella propria sterile “bolla di filtraggio”, così definita da Wikipedia: «Il risultato del sistema di personalizzazione dei risultati di ricerche su siti che registrano la storia del comportamento dell'utente. Questi siti sono in grado di utilizzare informazioni sull'utente (come posizione, click precedenti, ricerche passate) per scegliere selettivamente, tra tutte le risposte, quelle che vorrà vedere l'utente stesso. L'effetto è di escluderlo da informazioni che sono in contrasto con il suo punto di vista, isolandolo in tal modo nella sua bolla culturale o ideologica. Esempi importanti sono la ricerca personalizzata di Google e le notizie personalizzate di Facebook». 
    Le intelligenze artificiali che gestiscono i principali social network propongono quindi all’utente solo quello che ritengono possa piacergli o interessarlo, escludendolo di fatto da ogni esposizione a idee nuove e distanti dalla sua percezione del mondo, quelle che potrebbero invece arricchirlo e favorire nuovi scambi. Eli Pariser evidenzia infatti che il potenziale difetto della ricerca filtrata è che «ci taglia da nuove idee, argomenti e informazioni importanti» e «crea l'impressione che i nostri stretti interessi siano tutto ciò che esiste»; realtà che è negativa sia per i singoli individui che per la società nel suo insieme. Il ricercatore avverte infatti che «algoritmi invisibili che modificano il web» potrebbero «limitare la nostra esposizione a nuove informazioni e restringere la nostra mentalità»; inoltre gli effetti negativi delle bolle di filtraggio ricadono anche nella società, in quanto sono capaci di «indebolire il discorso civico» e rendere le persone più vulnerabili a «manipolazioni e propaganda».
Pariser conclude così: «Un mondo costruito su ciò che ci è familiare è un mondo dove non c'è nulla da imparare, poiché c'è un'invisibile auto-propaganda che ci indottrina con le nostre idee».
   Il fenomeno della ‘Bolla di filtraggio’ è simile a quello del ‘Paradosso della Rilevanza’: che capita spesso quando persone o intere organizzazioni cercano un'informazione che è inizialmente percepita come importante, ma che in realtà è inutile o solo parzialmente utile, e contribuisce però a scartare informazioni percepite come irrilevanti, invece realmente utili. Il Paradosso della Rilevanza si verifica soprattutto perché la reale importanza di un particolare fatto o concetto risulta evidente solo dopo che esso è diventato noto. Prima, l'idea di tenere in considerazione un dato o un’informazione viene appunto viziata da un errore di percezione o di irrilevanza. 
   Compito fondamentale di tutti i formatori ed esperti della comunicazione (docenti e giornalisti in primo luogo) è quello allora di segnalare agli utenti meno consapevoli l’esistenza di queste pericolose trappole comunicative.  È bene sapere che nella Rete non è tutto oro quello che luccica: a volte una chiacchierata dal vivo può essere più feconda di uno pseudo-dibattito su Facebook e/o di cento Mi piace.

Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 24.10.21

domenica 24 ottobre 2021

Zia Lillia: la grazia dei 102...

 

     Zia Lillia, che ho presentato già qui,  oggi compie 102 anni. Purtroppo, a causa delle cautele dovute al permanere della pandemia, anche il compleanno odierno, come è stato per i 101 anni, si festeggia con minore bagno di folla e qualche cautela in più.

    Tranne la difficoltà di udito, la zia gode di buona salute: continua ad occuparsi delle sue amate piante, a cucinare con maestria, ad abbrustolire le mandorle  - e a preparare un dolce particolare con mandorle e miele! -  ad andare in chiesa per assistere alla messa. Si aggiorna su politica e attualità leggendo ogni giorno una sua particolare rassegna stampa: il quotidiano ‘Avvenire’ e vari altri giornali. Ha sempre un libro sottomano da leggere o rileggere. Ha a cuore le sorti dei familiari, la carissima sorella Ninì, i nipoti, i pronipoti e i pro-pronipotini; ma ha altrettanto a cuore le sorti di tutta la comunità umana – sostiene tanti progetti di aiuto per i poveri per il Terzo mondo – e del pianeta tutto. E' sempre sorretta e animata da un autentico spirito francescano di desiderio di giustizia, di pace e di bene.

       Grazie di esistere e auguri di cuore, cara zia. 

E… ancora tanti di questi giorni!

venerdì 22 ottobre 2021

Appunti su... una scrittrice in penombra

      I pensieri di Natalia Ginzburg sbucano all’improvviso e nulla si sa del loro percorso sotterraneo. Sono intonati ogni volta in modo diverso (la sua monotonia è un inganno dell’orecchio poco esercitato), e solo queste curvature foniche offrono qualche indizio sul loro cammino coperto. Al tranello acustico se ne aggiunge uno topografico. La Ginzburg può dire tutto (o almeno: può darne l’impressione) su un determinato frangente della sua esistenza, su un circoscritto episodio.
      Ma le parole di ogni suo testo autobiografico formano come l’orlo di un crepaccio, al quale per giunta si arriva di notte. Oltre quel ciglio non si può andare, bisogna riprendere da un’altra parte; e il punto da cui ripartire sarà lontano, apparterrà a un paesaggio rischiarato da altre luci.
    L’autobiografia di Natalia Ginzburg, che ci si può illudere di saper ricostruire (…), e che forse davvero con uno studio scrupoloso si potrebbe distribuire lungo una linea del tempo, assegnando a ciascun episodio una sede e dei comprimari precisi, nella realtà è una sequenza di spezzoni discontinui, anzi incomponibili, esplosi in uno spazio che ha più di tre dimensioni e ci nega le coordinate.
    L’universo in frammenti che è la sua biografia ci costringe a perlustrare l’angolo giro per osservarli tutti: pianetini di luminosità variabile che costringono a entrare in confidenza soprattutto nel buio che li cerchia, con la densità graduata dei suoi intervalli.
     La Ginzburg non fa che raccontarci storie ma non ci racconta mai tutta la storia: troncamento che distingue il vero scrittore. La sua statura è proporzionale all’illusione di completezza che sa produrre. Non ha mai fatto l’elogio della sincerità, bensì quello della verità: che è fatta anche di reticenza, di silenzio, di cose taciute o ricacciate nell’ombra. Traccia le sue righe dritte tra due punti che nessuno aveva avvistato prima di lei, né quello che parte dall’io né quello che arriva al cuore della cosa. 

Domenico Scarpa: Appunti su un’opera in penombra 
(alla fine del libro di Natalia Ginzburg: Mai devi domandarmi)


mercoledì 20 ottobre 2021

Il cielo

R.Magritte: La corde sensible (1960)
Da qui si doveva cominciare: il cielo. 
Finestra senza davanzale, telaio, vetri. 
Un’apertura e nulla più, 
ma spalancata. 

Non devo attendere una notte serena, 
né alzare la testa, 
per osservare il cielo. 
L’ho dietro a me, sottomano e sulle palpebre. 
Il cielo mi avvolge ermeticamente 
e mi solleva dal basso. 

Perfino le montagne più alte 
non sono più vicine al cielo 
delle valli più profonde. 
In nessun luogo ce n’è più 
che in un altro. 
La nuvola è schiacciata dal cielo 
inesorabilmente come la tomba. 
La talpa è al settimo cielo 
come il gufo che scuote le ali. 
La cosa che cade in un abisso 
cade da cielo a cielo. 

Friabili, fluenti, rocciosi, 
infuocati e aerei, 
distese di cielo, briciole di cielo, 
folate e cumuli di cielo. 
Il cielo è onnipresente 
perfino nel buio sotto la pelle. 

Mangio cielo, evacuo cielo. 
Sono una trappola in trappola, 
un abitante abitato, 
un abbraccio abbracciato, 
una domanda in risposta a una domanda. 

La divisione in cielo e terra 
non è il modo appropriato 
di pensare a questa totalità. 
Permette solo di sopravvivere 
a un indirizzo più esatto, 
più facile da trovare, 
se dovessero cercarmi. 
Miei segni particolari: 
incanto e disperazione. 


 Wislawa SzymborskaLa gioia di scrivere (trad. di Pietro Marchesani) p.493, Adelphi, Milano, 2016

domenica 17 ottobre 2021

Con Valérie Perrin lezione di resilienza

     Palermo – C’è un tempo propizio per ogni cosa, anche per le pagine di un romanzo. Il ‘kairòs’, il momento giusto per leggere “Cambiare l’acqua ai fiori”, di Valérie Perrin (tradotto dal francese da Alberto Bracci Testasecca, Edizioni E/O, Roma, 2020), è arrivato per la sottoscritta in agosto. Così il caldo del solleone ha avuto come contraltare la quiete e le fredde lapidi del cimitero francese di Brancion-en-Chalon, abitato dalla custode Violette Toussant, protagonista della storia. La lettrice agostana, come le migliaia prima di lei, è stata conquistata dal tocco sapiente e dalle pennellate delicate, quasi crepuscolari dell’autrice francese.
    Perché ci si innamora della storia di Violette - della sua casa, del saggio Sasha, persino dei becchini suoi amici e di chi visita il camposanto - nelle 473 pagine del romanzo?
A un certo punto della narrazione, una domanda del genere se la fa anche Violette: “Perché si va verso certi libri come si va verso certe persone? Perché siamo attratti da determinate copertine come lo siamo da uno sguardo, da una voce che (…) attira la nostra attenzione e cambierà forse il corso della nostra esistenza?”
   Forse perché in Violette - l’io narrante del romanzo, scritto in prima persona - c’è un pezzetto di ognuno/a di noi. Ci fa riflettere, e forse un po’ ci somiglia, Violette che dice di sé: “Ho sempre portato abiti colorati sotto vestiti scuri per fare uno sberleffo alla morte.” “Mi piace dare la vita. Seminare, innaffiare, raccogliere e farlo di nuovo ogni anno.  (…) Mi piacciono i piatti di porcellana e le tovaglie di cotone, i bicchieri di cristallo e le posate d’argento. Mi piacciono le cose belle perché non credo alla bellezza delle anime. Mi piace la vita com’è oggi, ma la vita non vale niente se non puoi condividerla con un amico.” E ancora: “Parlo da sola. Parlo ai morti, ai gatti, alle lucertole, ai fiori, a Dio (non sempre gentilmente). Parlo a me stessa, mi interrogo, mi chiamo, mi faccio coraggio. Non rientro negli schemi…” 
    Violette che, colpita dalla disgrazia più grande che possa capitare a una madre, ritrova la forza di vivere: “Essendosi spenta la vita principale, il vulcano era morto, ma sentivo crescere dentro di me ramificazioni e controviali, sentivo quel che seminavo. Eppure la terra desertica di cui ero fatta era molto più povera di quella dell’orto del cimitero, era una pietraia. Ma un filo d’erba può crescere ovunque, e io ero fatta di quell’ovunque.” 
Presi per mano da Violette, ci si commuove per tanti scorci narrativi, come il racconto del funerale di Marcel Gambini e l’amore inconsolabile di Emilie per il suo amante, uniti per sempre da ciuffi profumati di lavanda. Così, si leggono rapidamente i 94 capitoli del libro, i cui titoli sono iscrizioni poste sulle lapidi tombali: Cosa sarà di me se non sento più i tuoi passi? È la tua vita o la mia che se ne va? Non lo so - C’è qualcosa di più forte della morte, ed è la presenza degli assenti nella memoria dei vivi - Il tempo è magnifico quando qualcuno ti ama…. E si ha la sensazione di entrare in una sorta di testo-matrioska: infatti la storia di Violette racchiude e si intreccia con altre vicende toccanti, di vivi e di morti: l’amore quasi impossibile tra Olivia e il suo professore di francese; la tragica storia di Sasha; la personalità oscura di Philippe (marito della protagonista) e i retroscena della sua vita; l’appassionata storia d’amore tra Irene e Gabriel…
   La forza del libro è allora quella di aver saputo narrare, con sensibilità femminile, l’inestricabile intreccio tra la morte e la vita, tra felicità e disgrazia, tra bene e male, in un universo dove ciascuno è più complesso di come sembra, dove non ci sono confini netti tra ragione e sentimento, tra terra e Cielo.
Il libro è insieme possibile storia reale e fiaba a lieto fine: non a caso qualcuno ha paragonato Violette ad Amelie, la protagonista del film omonimo, col suo mondo favoloso. 
   Per questi pregi, si perdonano al testo alcune ripetizioni e qualche incertezza nell’evoluzione psicologica dei personaggi. Infatti, specie verso la fine, si avverte quasi il fiatone di una struttura narrativa un po’ in affanno, e il rischio che la vicenda narrata si vada ingrossando in modo ‘eccessivo’, peccando di qualche ingenuità.
    Ma si tratta di peccati veniali che si perdonano all’autrice, in forza della grazia complessiva della storia. Le cui eventuali incongruenze ricalcano forse gli eccessi spudorati dell’amore, l’insensatezza e la cieca crudeltà della morte e i repentini cambiamenti che riserva a volte la vita… 
    E comunque la scrivente, che ama le piante e adora le storie a lieto fine, confessa che in agosto della resilienza di Violette aveva proprio bisogno…
Da Violette ci si congeda allora ritemprati; consapevoli che: “Certo c’è la morte, i dispiaceri, il brutto tempo, il giorno dei morti, ma (…) arriva sempre un mattino in cui c’è una bella luce e l’erba rispunta dalla terra riarsa”. Perché, per quanto l’esistenza sia lacerata da delusioni, lutti e ferite, c’è sempre una misteriosa sorgente di cura, che ci fa ritrovare la forza di “aprire le tende, poi le finestre… mettere a bollire l’acqua per il tè e fare prendere aria alla stanza. Dedicarsi al giardino e cambiare l’acqua ai fiori…”

Maria D'Asaro, 17.10.21, il Punto Quotidiano

giovedì 14 ottobre 2021

Alessandro e Giulia: l'incontro a Parigi

Alessandro Manzoni (di Maria Cosway) - 1805 circa
    Vincenzo Monti, in un suo soggiorno a Parigi, fu ospite di Giulia e di Carlo Imbonati: era non molto tempo prima che Imbonati morisse. Vincenzo Monti parlò di Alessandro. Imbonati allora scrisse ad Alessandro e lo invitò a venire da loro. Sentiva curiosità di conoscerlo e si sentiva in colpa, non avendo mai né lui né Giulia pensato seriamente a quel ragazzo che cresceva lontano. E lui in verità gli aveva portato via la madre. Inoltre forse inconsciamente prevedeva la propria morte e voleva che Giulia avesse il figlio accanto a sé. Alessandro aveva ora diciannove anni.
   Ricevuta la lettera di Imbonati, chiese a don Pietro il denaro per la partenza. Don Pietro gli diede il denaro e pensò alla sua partenza con un senso di liberazione. Nella primavera, giunse la notizia che Imbonati era morto. Alessandro partì per Parigi in giugno.
    A Parigi, in rue Saint-Honorè, madre e figlio si trovano uno davanti all’altra e si guardano come due che non si sono mai visti prima. Non sono madre e figlio ma una donna e un uomo. Lei soffre per una recente perdita e porta i segni del dolore su viso. Lui si sente a un tratto chiamato a esserle di sostegno. Non sono madre e figlio perché tra loro i vincoli materni e filiali sono stati lacerati nel corso degli anni, vivendo essi lontani uno dall’altra ed essendo ognuno dei due desideroso di dimenticare l’altro.
    In lui l’immagine materna che l’ha lasciato solo e si è dileguata è stata sotterrata nella memoria emanando angoscia e ispirandogli un confuso rancore. In lei l’immagine infantile a cui non ha dato tenerezze materne e da cui è fuggita è stata sotterrata emanando angoscia e rimorso. Tutto questo retroterra di sentimenti sepolti rinasce fra loro di colpo e subito di nuovo sprofonda nell’oscurità. Sprofonda però gettando lampi e clamori ed essi ne sono assordati e abbagliati. Per l’uno e per l’altra comincia una nuova esistenza.

Natalia Ginzburg: La famiglia Manzoni, pag.20 (Einaudi, Torino, 2016)

                                                           Carlo Imbonati (autore ignoto)

martedì 12 ottobre 2021

Caro papà ti scrivo

Erice, papà e io
Caro papà, 

mi manchi da trent’anni. Ma il tuo sorriso aleggia nella foto sulla mia scrivania, la foto che ti ritrae mentre, assai contento, percorrevi i viali del Policlinico di Palermo per assistere alla laurea in Medicina di Sally. E il tuo sorriso è indelebile nel mio cuore.
Oggi saresti assai orgoglioso dei tuoi tre nipoti e dei nipotini: l’amatissima Irene, docente seria e appassionata e mammina di due splendidi bambini; Riccardo, che tenevi in braccio, oggi ingegnere energetico assai competente e tanto altro ancora; Luciano, il tuo omonimo che non hai fatto in tempo ad abbracciare, ingegnere informatico. Anche lui, come la sorella e il fratello maggiori, una meraviglia di figlio.
Papà carissimo, sono nonna e continuo in parte a sentirmi orfana della tua presenza. Cesare Garboli, il critico amico di Natalia Ginzburg, scriveva che Natalia in fondo è sempre stata alla ricerca disperata di un padre. E io come lei, persi per strada riferimenti e punti di appoggio… Ma bisogna farsi forza e cercare un percorso sensato nei sentieri oscuri e a zig-zag della vita. 
E tu volevi che io fossi una donna coraggiosa: “Maruzza, pensa alle donne forti della Bibbia” – ripetevi spesso.
                                    Spero di non deluderti. Ti abbraccio. Ti voglio bene.





domenica 10 ottobre 2021

Parisi, un altro italiano Nobel per la Fisica


      Palermo – Il premio Nobel per la Fisica si tinge di tricolore: a ricevere quest’anno il prestigioso riconoscimento è stato infatti l’italiano Giorgio Parisi, professore all’Università ‘La Sapienza’ di Roma, ricercatore all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, vice Presidente dell’Accademia dei Lincei, membro della National Academy of Sciences degli Stati Uniti d'America.  
 L’insigne studioso è stato premiato dall’Accademia di Stoccolma per i suoi studi sui sistemi complessi, precisamente «per la scoperta dell'interazione fra disordine e fluttuazioni nei sistemi fisici dalla scala atomica a quella planetaria».
   «Hanno telefonato un po’ in anticipo e all’inizio ho avuto paura che fosse uno scherzo, ma poi è stato subito chiaro che non lo era». Giorgio Parisi ha raccontato così i momenti in cui ha saputo di avere ottenuto il Nobel per la Fisica. «Mi avevano detto che le telefonate sarebbero arrivate dopo le 11 e quindi sono stato colto di sorpresa. Ma quando ho visto il numero che cominciava con un 4, e quindi dell’Europa settentrionale, mi sono detto: può darsi che sia la volta buona!». Comunica di aver ricevuto più di duecento telefonate di congratulazioni e di aver potuto rispondere per caso al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Poi aggiunge: «Mi sono occupato della fisica dei sistemi disordinati sin dal 1979, quei sistemi in cui gli atomi sono messi in maniera casuale; questi sistemi disordinati hanno caratteristiche molto diverse dagli altri. Io li ho studiati per anni inventando idee, tecniche e matematiche nuove».
   I risultati che lo hanno reso noto a livello internazionale riguardano la fisica statistica, la teoria dei campi, i sistemi dinamici, la fisica matematica e la fisica della materia condensata, dove ha introdotto i cosiddetti vetri di spin (anche noti come ‘spin glass’), una classe di modelli della meccanica statistica, di cui lo stesso Parisi ha fornito numerose applicazioni in teoria dell'ottimizzazione, biologia e medicina.
   I contributi teorici del professore Parisi sono stati fondamentali anche nel campo della fisica delle particelle elementari, in particolare in cromodinamica quantistica e nella teoria delle stringhe. I suoi studi hanno avuto inoltre un impatto rilevante in molti altri settori: non a caso il vincitore del Nobel è uno degli studiosi più influenti del panorama scientifico internazionale. Si ricorda che, nell’infuriare della pandemia da Covid, fu il primo a fornire proiezioni corrette su quanti decessi ci saremmo purtroppo potuto aspettare.
   Prima del professore Parisi, sono stati cinque gli italiani a ricevere il Nobel per la Fisica:  il primo nel 1909 è stato Guglielmo Marconi, per il contributo allo sviluppo della telegrafia senza fili; poi, nel 1938, è la volta di Enrico Fermi, per aver dimostrato l’esistenza di nuovi elementi radioattivi prodotti dall’irradiazione di neutroni; nel 1959 il riconoscimento è andato a Emilio Gino Segrè - anche lui, come Fermi, un ex del gruppo di geniali fisici dell’Istituto romano di via Panisperna - premiato per la scoperta dell’antiprotone, immagine riflessa della materia. Infine, nel 1984 il Nobel va a Carlo Rubbia, per la scoperta delle particelle di campo W e Z per l’interazione debole e, nel 2002, a Riccardo Giacconi, italiano ma naturalizzato negli USA, per i contributi all’astrofisica che hanno portato alla scoperta di sorgenti cosmici di raggi X.
   Con Parisi, sono stati insigniti del Nobel per la Fisica anche il tedesco Klaus Hasselmann e lo statunitense Syiukuro Manabee   - che hanno condiviso insieme la metà del premio complessivo - per aver inventato i modelli climatici predittivi per il riscaldamento globale e provato il legame tra aumento delle temperature ed emissioni umane di CO2. 
   Nell’intervista al TG scientifico ‘Leonardo’, Parisi ha sottolineato l’importanza del conferimento del Nobel anche ad Hasselmann e Manabee: “Noi scienziati dobbiamo prevedere il futuro. E per prevedere il futuro è fondamentale che la scienza abbia dei modelli precisi, una comprensione esatta di quello che sta succedendo, per pianificare le azioni necessarie per bloccare il cambiamento climatico. Il lavoro di questi due scienziati è di fondamentale importanza. E io sono orgoglioso di avere preso il Nobel con loro.”

Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 10.10.21

sabato 9 ottobre 2021

Il Nobel per la Pace a due giornalisti: l’informazione bene comune

     Il Nobel per la Pace 2021 è stato assegnato a due giornalisti: Dmitrij Muratov, caporedattore del giornale d'inchiesta russo Novaja Gazeta, e Maria Ressa, filippina, cofondatrice del sito di informazione Rappler. 
   Novaja Gazeta fu anche il giornale di Anna Politkovskaja; Rappler è un sito web che ha smascherato gli scandali e la corruzione dell’amministrazione Duterte.
    Dunque è un Nobel al giornalismo di inchiesta, al giornalismo coraggioso che cerca la verità senza aver paura della violenza del potere. Perchè la verità è la prima vittima delle dittature, della guerra, dei poteri politici corrotti. Il giornalismo esercitato da professionisti competenti e coraggiosi come Dmitrij Muratov e Maria Ressa è un bene comune dell’umanità.
  Questa la motivazione ufficiale del conferimento del Nobel per la Pace: "Per i loro sforzi per salvaguardare la libertà di espressione, che è una precondizione per la democrazia e una pace duratura".




Anna Politkovskaja, impegnata sul fronte dei diritti umani, è nota principalmente per i suoi reportage sulla seconda guerra cecena e per le sue aspre critiche contro le forze armate e il governo russi sotto la presidenza di Vladimir Putin, accusati del mancato rispetto dei diritti civili e dello stato di diritto. 
Il 7 ottobre 2006 è stata assassinata a Mosca mentre stava rincasando.










giovedì 7 ottobre 2021

Mai devi domandarmi… cos’è la vecchiaia

Bansky: Show me the Monet 
   "Ora noi stiamo diventando quello che non abbiamo mai desiderato diventare, e cioè dei vecchi. La vecchiaia non l’abbiamo mai né desiderata, né aspettata; e quando abbiamo cercato di immaginarla, era sempre in modo superficiale, grossolano e distratto. (…) Lo strano è che anche adesso che stiamo invecchiando noi stessi, non sentiamo alcun interesse per la vecchiaia. (…) Il nostro sguardo sarà ancora puntato sulla giovinezza e l’infanzia. 
   La vecchiaia vorrà dire, essenzialmente, in noi la fine dello stupore. Perderemo la facoltà sia di stupirci, sia di stupire gli altri. Noi non ci meraviglieremo più di niente, avendo passato la nostra vita a meravigliarci di tutto. (…)
    Ci potrà succedere di diventare o rottami abbandonati nell’erba, o rovine gloriose e visitate con devozione; saremo forse anzi qualche volta una cosa e qualche volta l’altra… (…) E del resto fra l’essere una cosa o l’altra non c’è nessuna differenza apprezzabile: perché nell’un caso e nell’altro il caldo fiume dei giorni scorre su altre sponde. (…)
    Il mondo che ruota e si trasforma intorno a noi conserva solo qualche pallida traccia del mondo che è stato il nostro. Noi lo amavamo non perché lo trovassimo bello o giusto, ma perché vi spendevamo le nostre forze, la nostra vita e il nostro stupore. (…)
    Il mondo che abbiamo davanti e che ci appare inabitabile, sarà tuttavia abitato e forse amato da alcune delle creature che amiamo. Il fatto che questo mondo sia destinato ai nostri figli, e ai figli dei nostri figli, non ci aiuta a capirlo di più, ma anzi aumenta la nostra confusione. Perché il modo come i nostri figli riescono ad abitarlo e a decifrarlo ci è oscuro; e loro d’altra parte sono abituati sin dall’infanzia a dirci apertamente che non abbiamo mai capito nulla. Perciò il nostro atteggiamento di fronte ai nostri figli è umile e a volte anche vile.
     Ci sentiamo davanti a loro come bambini in presenza di adulti, essendo in verità assorti nel nostro lentissimo processo di invecchiamento. Ogni gesto che i nostri figli compiono ci sembra il frutto di una grande sagacia e pertinenza, ci sembra quello che anche noi avevamo sempre voluto fare e che chissà perché non abbiamo mai fatto.  (...)
    Così misuriamo le immense distanze che ci separano dal presente, vediamo come avremmo sciolto ogni stretta con il presente se non fossimo ancora avviluppati nelle trame imbrogliate e dolorose dell'amore. E una cosa ancora ci stupisce, noi che siamo ormai sempre più raramente colpiti da meraviglia: guardare come i nostri figli riescano ad abitare e a decifrare il presente, e noi eccoci qua sempre assorti a sillabare ancora le parole limpide e chiare che incantavano la nostra giovinezza."

Natalia Ginzburg Mai devi domandarmi: La vecchiaia, Einaudi, Torino

domenica 3 ottobre 2021

Come non innamorarsi dell’onirica Genova?

   Palermo – Una città importante e complessa come Genova non la si può conoscere in pochi giorni. Specie se si è turisti per caso poiché ci si è andati per altri motivi. Eppure è bastata una settimana scarsa di permanenza perché la sottoscritta ne annusasse l’essenza e se ne innamorasse. Austera e scanzonata, grigia e solare, ricca ed essenziale, indolente e frenetica, irregolare e ordinata, solida e onirica, città marinara aggrappata a monti e colline: Genova ispira coppie di ossimori, con la sua poliedricità che la rende attraente. 
    Anche se il mare lo si vede bene solo dall’alto, lo si intuisce dietro le navi, le banchine, le mille darsene. Si sente che lo spirito del mare - rude, audace e avventuroso - governa la città, in qualche modo ancorata anche alla mite saggezza delle colline.
     Il suo essere porto sul Mediterraneo la rende simile a Palermo, con la quale condivide cultura marinara, splendide palme e pezzi importanti di storia: davanti al teatro “Carlo Felice”, la statua equestre di Giuseppe Garibaldi - uomo di avventura, assetato di libertà e indipendenza, prestato al Risorgimento italiano - collega idealmente la città ligure alla Sicilia, dove nel 1860, con l’impresa dei Mille, l’eroe dei due mondi pose una pietra miliare per l’unificazione politica della penisola. Ma, senza indulgenze per il capoluogo siciliano, bisogna ammettere che Genova batte Palermo per pulizia, per il sistema del trasporto pubblico, per il costante e discreto controllo del territorio da parte delle Forze di polizia locale.
    La turista occasionale è rimasta poi affascinata dai mille angoli del capoluogo ligure che ne segnano l’antica grandezza storica: ad esempio la Torre degli Embriaci, l’unica delle numerose torri esistenti nel centro storico ad essere stata risparmiata dall'editto del 1196 del podestà Drudo Marcellino che impose il taglio ad 80 palmi (20 metri attuali circa) di tutte le torri cittadine; torre costruita all’inizio del XII secolo da Gugliemo Embriaco, che si distinse nella conquista cristiana di Gerusalemme nel 1099. 
    L’ex docente di Storia vibra poi di autentica commozione davanti alla casa di Giuseppe Mazzini, mito del pensiero politico dell’unificazione italiana; si emoziona dinanzi alle vie dedicate ai caduti della Resistenza, e ai tanti monumenti e giardini voluti dall’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) per ricordare il valore della libertà contro tutte le dittature; si perde nel ricordo dell’epica impresa davanti a quella che si dice essere la casa di Cristoforo Colombo, a cui è dedicato un imponente monumento, nel cuore del capoluogo ligure, vicino alla centralissima piazza Raffaele De Ferrari, con la sua storica fontana.  
   Il centro storico di Genova, uno dei più estesi e densamente popolati d'Europa, ha poi un fascino particolare: brulicante di vita, con i suoi intriganti intrecci di strade, scale, vicoli, portici che si aprono su scorci, chiese e palazzi di straordinaria bellezza, come quelli nei pressi di via Garibaldi. Non a caso dal 2006 una parte del centro cittadino – in particolare le Strade nuove e il Sistema dei Palazzi dei Rolli – è diventato Patrimonio mondiale dell’umanità, tutelato dall’Unesco.
    E in via del Campo, nei ‘caruggi’ della città vecchia “Nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi/ ha già troppi impegni per scaldar la gente d'altri paraggi” riecheggia la magia della musica di Fabrizio De André.
    Genova si ammira dall’alto da svariate prospettive: ad esempio, dal punto di arrivo della storica funicolare dei Righi (inaugurata nel 1895) e dalla spianata di Castelletto, grazie a uno splendido ascensore pubblico gratuito stile liberty. 
Tappe irrinunciabili - se il tempo non è tiranno, come per la turista per caso - sono la visita all’Acquario, uno dei più grandi del mondo, e alla Lanterna, il monumento-simbolo della città, il più antico faro d’Europa, tra quelli ancora attivi, essendo stato costruito nel 1128 circa, anche se la forma attuale la si deve alla ricostruzione del 1543. La Lanterna di Genova, alta 77 metri, è anche il faro più alto del Mediterraneo e il secondo in Europa dopo il Faro dell’Île Vierge, nel dipartimento francese di Finistère. 
   La turista per caso si congeda malvolentieri da una città operosa, sempre in movimento, dappertutto innervata da gallerie, ponti e passanti ferroviari e percorsa a tutte le ore da treni, autobus, tram, funicolari; oltre che - purtroppo – da un frenetico e inquinante viavai di mezzi privati, automobili e moto. Una città resiliente, capace di rialzarsi dalle sue ferite, come il tragico crollo del viadotto Morandi, ora viadotto Genova san Giorgio, ricostruito in tempi record, su progetto del geniale architetto genovese Renzo Piano.
Una città che ha la luce e il calore di casa. E dà sensazioni di forza e pienezza. 
      E la voglia di tornare.

Maria D'Asaro, 3.10.21, il Punto Quotidiano