domenica 30 giugno 2024

Tartaruga depone le uova vicino Palermo

        Palermo – Deve essersi sentita al sicuro, in un luogo propizio e non troppo inquinato, la tartaruga caretta-caretta che, il 20 giugno, nella notte quieta del solstizio d’estate, è approdata a Mondello, la suggestiva località balneare a pochi chilometri da Palermo, e ha deposto le uova nella spiaggia bianca e fine del litorale, nel tratto vicino Valdesi.
       Allertati anche da un gruppo di pescatori, i volontari di Liberambiente, un’associazione che si occupa di monitoraggio ambientale e di ripulire della plastica la zona balneare, hanno individuato la tartaruga ancora presente in spiaggia e hanno posto una recinzione temporanea di protezione attorno alle uova.  – “Ho provato una grande emozione nel vedere il nido pronto nella sabbia” – ha detto a Laura Pasquini, giornalista del TG regionale siciliano, Giuseppe Chiofalo, il volontario presidente di Liberambiente, che si è subito preso cura della nidiata della tartaruga e ha allertato la Capitaneria di Porto.
   C’è stato poi l’intervento della sezione nord-occidentale del WWF siciliano. Il vice presidente Giorgio De Simone, in accordo con i gestori dei lidi di Mondello, ha concordato le modalità operative per la tutela delle uova: - “Ci saranno dei volontari che si alterneranno nella sorveglianza. Ci daranno una mano anche i gestori dei lidi. Vigileremo insieme perché le tartarughe vengano alla luce in sicurezza”. – 
   La schiusa delle uova dovrebbe avvenire dopo circa 50/70 giorni dalla loro deposizione, quindi tra fine luglio e inizio agosto. 
    Dopo l’accoppiamento, che avviene nella stagione estiva, le tartarughe femmine attendono per qualche giorno in acque calde e poco profonde il momento propizio per deporre le uova, spesso disturbate dalla presenza di persone, animali, rumori e luci. Giunte sulla spiaggia prescelta, vi depongono fino a 200 uova, grandi come palline da pingpong, disponendole in buche profonde, scavate con le zampe posteriori. Le ricoprono poi con cura, per garantire una temperatura d'incubazione costante e per nascondere la loro presenza ai predatori. Completata l'operazione, fanno ritorno al mare. 
Le uova si schiudono quasi tutte simultaneamente. Per uscire dal guscio, le tartarughine neonate utilizzano una struttura particolare, il "dente da uovo", che verrà poi riassorbito in un paio di settimane. Fuori dal guscio, sono necessari ancora dai due ai sette giorni per scavare lo strato di sabbia che sormonta il nido e raggiungere la superficie. Poi, in genere col calare della sera, si dirigono rapidamente verso il mare.  
     Solo una piccola parte dei neonati riesce nell'impresa, cadendo spesso vittima dei predatori. Giunti in mare, per più di un giorno nuotano ininterrottamente per allontanarsi dalla costa e raggiungere la piattaforma continentale, dove le correnti concentrano una gran quantità di nutrienti. Dei piccoli che raggiungono il largo, pochi riescono però a sopravvivere sino all'età adulta.
     La tartaruga comune o tartaruga caretta-caretta è quella più comune del mar Mediterraneo. Diffusa anche in altre zone acque - si può trovare negli oceani Atlantico, Indiano e Pacifico e anche nel mar Nero – la sua sopravvivenza nel nostro mare è molto minacciata. La IUCN Red List (Lista rossa dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) la classifica come specie vulnerabile. Infatti, la specie è a rischio per l'inquinamento marino, la riduzione degli habitat di nidificazione, per le collisioni con le imbarcazioni,  per gli incidenti causati dalle reti a strascico e dagli altri sistemi di pesca. Nel Mediterraneo gli ambienti di riproduzione sono ormai molto limitati per il disturbo umano dovuto al turismo balneare.
       Auguri, allora, alle tartarughine che nasceranno a luglio o agosto a Mondello.

Maria D'Asaro, 30.6.24, il Punto Quotidiano

venerdì 28 giugno 2024

Prof... che ci fa lei qui?!!

  Incontri e intrecci esistenziali imprevedibili hanno condotto la scrivente a una circostanza non programmata: fare la volontaria in un penitenziario (mamma entra ed esce dal carcere… – esclamano i figli impertinenti). 
      Insieme ad alcune tenaci 'colleghe' con maggiore esperienza, in carcere si occupa di gestire una biblioteca e di prestare libri ai detenuti. Tempo fa, ha così incontrato due ex alunni, che lei aveva seguito da psicopedagogista. Lieti e sorpresi, sono stati loro a riconoscerla per primi e a salutarla cordialmente, chiedendole “Che ci fa lei qui?”. 
     I due, però, nel penitenziario hanno un posto diverso: uno è guardia penitenziaria, l’altro detenuto. Chi scrive ricorda bene le situazioni familiari e scolastiche di entrambi, che erano ‘ragazzi difficili', a rischio, più volte bocciati. 
       Uno è riuscito a conseguire la terza media, grazie a una mamma formidabile e a insegnanti speciali. L’altro no. Chissà se c’entra col fatto che sia lui il detenuto…

martedì 25 giugno 2024

Se...


Se i generali
si inebriassero
del profumo delicato e ardito 
dei ligustri in fiore…
se si commuovessero
per l’infinito parto di fiori rosati
delle umili e generose sterculie…
se ammirassero il miracolo cangiante
dei tramonti da sogno...


capirebbero, forse,
che uccidono la loro anima,
quando comandano di fare la guerra.


Maria D’Asaro – Dillo con parole tue





domenica 23 giugno 2024

Danilo Dolci, il Gandhi italiano in Sicilia

         Palermo – Nato il 28 giugno 1924 a Sesana, comune allora in provincia di Trieste, oggi sloveno, l’allora ventottenne Danilo Dolci, che insieme ad Aldo Capitini sarebbe poi stato appellato il Gandhi italiano, nel 1952 si trasferì in Sicilia, precisamente nel piccolo comune marino di Trappeto, a metà strada circa tra Palermo e Trapani, spinto forse da un’ispirazione a Nomadelfia, la comunità fondata a Fossoli, nel modenese, da don Zeno Saltini, alla quale Dolci aveva aderito nel 1950, interrompendo per questo, alla vigilia della tesi, gli studi di Architettura.
      A Trappeto, Dolci trova un’estrema povertà. Un bambino, Benedetto Barretta, muore per denutrizione. Il 14 ottobre 1952 Dolci decide allora di fare la prima di tante lotte nonviolente: inizia un digiuno per attirare l’attenzione delle istituzioni sulla miseria. Il digiuno viene interrotto quando le autorità s'impegnano a fare alcuni interventi.
      Con il piemontese Franco Alasia, che si era trasferito con lui in Sicilia ed era diventato il suo principale collaboratore, l’attivista fa poi un altro digiuno nel 1957 a Palermo, a Cortile Cascino, uno dei quartieri più poveri del capoluogo, dove i bambini morivano di fame come a Trappeto.
    Intanto, nel 1953, Danilo Dolci aveva sposato Vincenzina, vedova di un contadino/marinaio di Trappeto. Ai cinque figli già avuti da Vincenzina, seguiranno Libera, Cielo, Chiara, Daniela e Amico (musicista e oggi continuatore dell'opera del padre).  
    A Partinico, paese vicino Trappeto, il 30 gennaio 1956 Dolci promuove lo ‘sciopero alla rovescia’: una forma di lotta basata sull’intuizione che, se un operaio, per protestare, si astiene dal lavoro, un disoccupato può scioperare invece lavorando. Così tanti disoccupati riattivano pacificamente una strada comunale abbandonata; ma i lavori vengono fermati dalla polizia e Dolci, con alcuni suoi collaboratori, viene arrestato.
    L'episodio suscita in Italia grande scalpore. Tra gli avvocati difensori di Dolci e degli arrestati c'è anche l’insigne giurista Piero Calamandrei che, il 30 marzo 1956, al Tribunale di Palermo pronuncia un’appassionata arringa difensiva. Condannato comunque a 50 giorni di carcere, Dolci ebbe l’appoggio alle sue iniziative nonviolente, oltre che da tanti giovani volontari, da personalità come Carlo Levi, Elio Vittorini, Giorgio La Pira, Renato Guttuso, Bruno Zevi, Aldo Capitini, Norberto Bobbio e, tra gli stranieri, da Erich Fromm e Jean Piaget. 
     Lo studio attento delle cause della povertà siciliana porterà l’attivista anche a denunciare la mafia e i suoi rapporti col sistema politico. Dopo le accuse espresse a politici democristiani quali Calogero Volpe e Bernardo Mattarella, Dolci e Alasia vengono querelati per diffamazione e condannati. Da segnalare anche la netta condanna dell’allora cardinale di Palermo Ernesto Ruffini, per il quale Dolci disonorava la Sicilia quando affermava che nell’isola regnavano “estrema povertà e somma trascuratezza da parte dei poteri pubblici".
   Il 25 marzo 1970, assieme a Pino Lombardo e Franco Alasia, Danilo Dolci fu promotore di un'altra clamorosa iniziativa: l'apertura della prima radio libera italiana, Radio Partinico Libera, che infranse il monopolio della RAI. La radio, chiusa il giorno dopo, servì a lanciare un appello accorato per i poveri cristi che, dopo più di due anni dal terremoto del Belice, vivevano ancora nelle baracche in condizioni di estremo disagio.
   Oltre che sociologo e attivista nonviolento, Dolci fu soprattutto un educatore, assertore della ‘maieutica socratica’: a suo avviso, infatti non era possibile realizzare alcun cambiamento sociale significativo senza la presa di coscienza e il coinvolgimento diretto delle persone interessate. Così divenne animatore instancabile di incontri durante i quali i partecipanti imparavano ad ascoltare gli altri, a confrontarsi sulle questioni trattate e, infine, a prendere insieme le decisioni.
Dolci e, a ds., il giovane Peppino Impastato
   Proprio durante le riunioni ‘maieutiche’ con contadini e pescatori, nacque l'idea di chiedere la costruzione di una diga sul fiume Jato. La realizzazione del progetto favorì lo sviluppo economico della zona, consentendo la nascita di numerose aziende e cooperative e privando la mafia del suo potere di controllo sulle modeste risorse idriche disponibili. 
   A partire dagli anni ’70 l'impegno educativo diventa per Dolci fondamentale: viene approfondito lo studio della ‘struttura maieutica’, modalità cooperativa di dibattito e ricerca comune della verità. Col contributo di esperti, si avvia l'esperienza del Centro Educativo di Mirto (vicino Partinico), frequentato da centinaia di bambini. Negli anni successivi, lo studioso conduce in tutta l’Italia vari laboratori maieutici in scuole, associazioni, centri. 
    Danilo Dolci muore a Trappeto il 30 dicembre 1997, dopo aver ricevuto numerosi riconoscimenti per la sua opera nonviolenta e la sua azione maieutica: nel 1957 gli fu attribuito in Unione Sovietica il Premio Lenin per la pace, accettato pur dichiarando di non essere affatto comunista; nel 1968 l'Università di Berna gli conferisce la laurea honoris causa in Pedagogia; nel 1969, per la sua opera di diffusione dei valori umanitari e culturali, viene insignito della Medaglia d'oro dell'Accademia dei Lincei; nel 1970 ottiene il Premio Socrate di Stoccolma per «l'attività svolta in favore della pace, per i contributi di portata mondiale dati nel settore dell'educazione», e il Premio Sonning dell'Università di Copenaghen «per il contributo offerto alla civilizzazione europea».  
   Inoltre, negli anni ’70, per le sue composizioni poetiche – aveva iniziato a comporre liriche negli anni ’50 – ottiene il Premio Internazionale Viareggio. Nel 1989, in India, riceve il Premio Internazionale Gandhi per l’approfondimento dei valori rivoluzionari nonviolenti. Infine, nel 1996 l'Università di Bologna gli conferisce la laurea honoris causa in Scienze dell'educazione. 
    La scrivente ha conosciuto Danilo Dolci durante un convegno a Palermo, a inizio degli anni ’90: le sono rimasti impressi i suoi grandi occhi celesti, la pacata eloquenza e l’incoraggiamento a impegnarsi nel lavoro di docente. 
    E una sua poesia: “C'è chi insegna/guidando gli altri come cavalli/passo per passo:/forse c'è chi si sente soddisfatto/così guidato./C'è chi insegna lodando/quanto trova di buono e divertendo:/c'è pure chi si sente soddisfatto/essendo incoraggiato./C'è pure chi educa,/ senza nascondere/l'assurdo che è nel mondo,/aperto a ogni sviluppo,/cercando di essere franco all'altro come a sé,/sognando gli altri come ora non sono:/ciascuno cresce solo se sognato.”

Maria D'Asaro, 23.6.24, il Punto Quotidiano

giovedì 20 giugno 2024

Il cielo sopra Palermo... grazie, Sandro!

Controluce...

Controluce...2

Controluce 3

 
Torre piezometrica (idrica) tra due pini

Chiesa di san Francesco di Paola (vista da villa Filippina)

Jacaranda in fiore a Porta Nuova (fine maggio 2024)

        "Mentre gli ultimi raggi indugiano sulle pendici del Monte Grifone e l’antico Mistral scompiglia le chiome di una nuvola appena giunta dal mare, due masse ormai in ombra sfidano il cielo, lo puntano e con esso sembrano parlare. La guglia piramidale di Porta Nuova e la Torre Pisana sono lì, sul luogo più alto dell’antica Palermo. L’una presidia l’accesso occidentale e veglia sulla città; l’altra attende la notte per dischiudere le sue cupole di rame e rinnovare l’incontro con Cerere, dea dei campi e protettrice della Sicilia.
       Da quell’osservatorio nel 1801 l’astronomo Giuseppe Piazzi scoprì il primo asteroide e lo chiamò così, “Cerere Ferdinandea”, in onore del mito di quella dea e del re Ferdinando.
Tra poco, in silenzio, cadranno le tenebre. E dall’Ade di nuovo tornerà Plutone, dio degli inferi, che impetuoso come il vento si aggirerà ancora in cerca di Proserpina, figlia di Cerere, per riaverla, per possederla. Invano. Proserpina non si tocca, è la nostra speranza, è la nostra Primavera".



Foto e testo sono dell'amico Sandro Riotta, che ringrazio di cuore.

Ecco qui, qui e qui le tre 'gallerie fotografiche virtuali' già ospitate!


domenica 16 giugno 2024

Pace, presidio permanente delle donne a Palermo

         Palermo – Poche settimane dopo l’inizio della guerra in Ucraina nel 2022, un gruppo di associazioni femminili, su iniziativa dell’associazione Biblioteca delle donne e dell’UDIPalermo, ha organizzato a Palermo un presidio permanente per la pace che, nel primo anno di guerra, si è tenuto ogni settimana e poi, dal 24 febbraio 2023 sino a oggi, il giorno 24 di ogni mese. 
     Questa presenza, insieme simbolica, culturale e politica, è stata raccontata nel libro Corpi e parole di donne per la Pace, a cura di Mariella Pasinati (Navarra editore, Palermo, 2024), presentato nel capoluogo siciliano il 6 giugno scorso, durante la 15° edizione del festival dell’editoria Una marina di libri. La prima parte del testo comprende dieci interventi redatti da donne che hanno partecipato al presidio per la pace o da studiose di conflitti e nonviolenza, mentre la seconda parte contiene la riproduzione di 54 volantini diffusi in occasione dei presidi: dal primo, datato, 3 aprile 2022, all’ultimo preparato prima che il libro andasse in stampa, il 24 febbraio 2024.
      Quali le motivazioni che hanno spinto le associazioni di donne palermitane all’impegno ormai biennale del presidio per la pace? 
     Le espone nell’introduzione Mariella Pasinati: “Lo abbiamo fatto perché il femminismo non è teoria ma pratica di relazione e abbiamo voluto, anche se a distanza, sfidare la ‘solidarietà silenziosa’ con le popolazioni colpite dalla guerra, esserci in prima persona per far sentire la voce di chi vuole la pace (…). Lo abbiamo fatto perché rifiutiamo il nazionalismo, il militarismo, l’accaparramento delle risorse … Perché sapevamo che il conflitto avrebbe peggiorato la crisi climatica e fatto passare in secondo piano l’urgenza di un’azione volta a contrastarla. (…) Lo abbiamo fatto perché rifiutiamo le semplificazioni sostenute in nome della guerra – le contrapposizioni bene-male, amico-nemico, vincitori-vinti… - e per sottrarci alla richiesta di aderire in modo acritico alle decisioni degli uomini al comando. La guerra non è inevitabile, non fa parte della ‘natura umana’, sebbene le ragioni che ogni volta sono portate a sua giustificazione la facciano apparire come necessaria.”
    Il presidio ha espresso la sua voce anche in occasione di ulteriori atrocità verificatesi negli ultimi due anni: nell’ottobre 2022, dopo l’uccisione di Masha Amini e di Hadith Najafi, insieme alle donne iraniane presenti a Palermo ha manifestato contro la brutale repressione effettuata dal regime iraniano verso le rivendicazioni femminili; dopo l’orrendo attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023 contro lo stato israeliano e il conseguente massacro da parte di Israele della popolazione civile a Gaza, le donne hanno poi protestato contro lo sterminio di civili e la distruzione del martoriato territorio palestinese, invocando il cessate il fuoco e l’inizio di un negoziato.
   Nel testo si riportano le parole contro la guerra di pensatrici come Agnes Heller, Judith Butler, Vandana Shiva e Svetlana Aleksievič, scrittrice e giornalista bielorussa, nata in Ucraina, premio Nobel per la letteratura nel 2015. 
   Nel saggio dedicato a Svetlana, Maria Concetta Sala scrive: “La si è spesso definita scrittrice delle catastrofi, ma in verità la sua attenzione è volta al rinvenimento di ‘parole d’amore’, perché lei sente e sa che non sarà l’odio a salvare l’umano e l’umanità, sarà solo l’amore. Grazie alle sue opere (…) ci si può accostare a una differente lettura delle violenze, delle guerre e dell’orrore, una lettura che lascia affiorare in tutto il suo splendore e in tutta la sua pena l’epopea della vita, nella quale non ci sono né eroi né eroine. Un’epopea capace (…) di effondere su vinti e vincitori con straordinaria equità l’inguaribile «amarezza che deriva dalla tenerezza», e in grado altresì di opporre alle armi della distruttività, al fascino della gloria, al prestigio della vittoria l’accesso ai sentimenti creativi che soli possono fabbricare felicità”
   Daniela Dioguardi e Anna Marrone, nel capitolo da loro curato dal titolo significativo Un cambio di sguardo per rendere impensabile la guerra, riprendono le considerazioni della studiosa Maria Luisa Boccia che afferma: «credo sia compito peculiare del pensiero politico prefigurare il possibile, pensando l’impossibile». Bisogna quindi esperire forme di risoluzione dei conflitti internazionali diversi dalla pratica inumana, barbara e distruttiva della guerra: “è necessario, in un momento storico in cui camminiamo sul baratro di una guerra nucleare, pensare, riflettere su tutte le forme e pratiche politiche che si sono avvalse di altre modalità e altre rappresentazioni rispetto a quelle consuete”.
      Il libro ricorda poi che in alcune occasioni particolari sono stati a fianco delle donne l’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice e il Primo Imam della Moschea di Palermo Bedri El Meddeni, nonché uomini e donne di varie associazioni impegnate in percorsi di solidarietà e di costruzione della pace e della nonviolenza.
     Le donne del presidio sono consapevoli che la loro voce è una goccia nell’oceano della rassegnazione e dell’indifferenza diffusa. Ma, scrivono infine sempre Daniela Dioguardi e Anna Marrone: “Noi non vogliamo rassegnarci all’impotenza e pensiamo che agire serva, anche a prescindere dai risultati che si possono ottenere, non sempre facilmente misurabili. Servono corpi attivi, disubbidienti, resistenti, che non si lascino zittire né manipolare; servono azioni simboliche che trasmettano il segno della possibilità di un’altra realtà. E poi, sarebbe giusto non fare nulla di fronte all’insopportabile arroganza dei potenti, causa della smisurata sofferenza delle popolazioni civili, dello strazio dei corpi, della strage di bambini, della distruzione della vita?

Maria D'Asaro, 16.6.24, il Punto Quotidiano

venerdì 14 giugno 2024

Basta con le guerre...

      “Non c’è donna, non c’è uomo che davanti alla tragedia di una guerra non inorridisca e non voglia la pace. Ma quale pace? Quella che prolunga la guerra e prepara catastrofi ancor più disastrose? Oppure quella stabilità dai vincitori di turno che può rivelarsi ancora più incivile della guerra appena conclusasi? 
     È possibile venire fuori da quest’impeto mortifero (…) e acquisire la consapevolezza che vittoria o sconfitta non apportano alcun bene né ai vincitori né ai vinti, ma accrescono semplicemente la tracotanza di chi vince e la disposizione a compiere il male di chi perde? (…)
Non si può sfuggire alla domanda essenziale: perché mai nella storia dell’umanità vi è questo continuo ricorso alla guerra che produce la pazzia di ogni individuo che vi partecipa e l’accecamento in ogni comunità? (…) Sono i rapporti di potere e non i rapporti di senso quelli che reggono la storia, così pare. Allora non c’è via d’uscita? (…)
Potrebbero sembrare domande ingenue le mie, ma sono le domande che nel corso dei secoli hanno afflitto gli esseri umani. (…)
     Forse per bandire le guerre è necessario educarci ad accogliere la mortalità che è insita in ogni essere vivente, accogliere la morte come meta finale della vita, e non continuare ad estrometterla. Si tratterebbe di un rovesciamento radicale, che implicherebbe non la tensione cieca verso il baratro dell’abisso in cui scivoliamo di continuo, ma l’ascesa verso uno spiraglio luminoso, verso la nascita, verso il dono della vita da parte di chi ci ha messo al mondo. La condizione umana sarebbe così rischiarata dalla gioia di esserci, in questo mondo, e tutta la condizione del vivere risplenderebbe nella sua vulnerabilità.
     E la gioia della scoperta di essere vivi, di giorno in giorno rinnovata, schiuderebbe i sentieri della bellezza che sono in noi e attorno a noi e scatenerebbe il desiderio di tutelarli e salvaguardarli. E di credere che la vita umana non è puro e semplice desiderio di trionfare su ciò che è altro e di schiacciarlo. Alla furia del coinvolgimento bellicoso potremmo forse, con pazienza e lentezza, e in direzione contraria all’iperattività dei nostri tempi, sostituire un’altra forma di furore, l’estro creativo, perché creare è una forma di maternità. (…)
      Solo un’educazione all’attenzione creatrice e a mediazioni creative può spezzare le catene della disumanità e suscitare il desiderio di una politica mai disgiunta dall’amore per il mondo. Una politica autentica, dunque, più prossima a un’arte che a una gestione del potere e che, in quanto tale, metta al centro l’eternamente umano in noi e nell’altro da noi, si orienti al disinnesco dei dispositivi sociali che amplificano la volontà di prestigio, di possesso, di vorace appropriazione rapinatrice, e alla preservazione delle meraviglie esistenti e dei legami tra noi e l’universo. (…)
Perché continuare ad assistere nell’inerzia a operazioni di annientamento e di strazio? Perché non dare voce all’unisono al grido che nasce dalle viscere e che tendiamo a reprimere? Si levi in ogni luogo in cui siamo il nostro: Basta! Non ne possiamo più di carneficine, di distruzione, di devastazione che ottundono la mente, pietrificano il cuore e raggelano in un’impotenza disperante.
Basta con le guerre!"

Maria Concetta Sala: Basta con le guerre! 
in Corpi e parole di donne per la pace, a cura di Mariella Pasinati, Navarra, Palermo, 2024, pp.15-17
(già pubbl. in Segno, num 433-34, marzo-aprile 2022, pp.17-20)

mercoledì 12 giugno 2024

Le donne, la guerra, la pace...

      “(…) Anche noi femministe da sempre impegnate per la pace e il disarmo siamo state troppo disattente rispetto a quello che avveniva in Europa dopo la fine della guerra fredda. Fa impressione vedere nella cartina geografica quanti paesi dell’Ex Unione Sovietica sono entrati nella Nato, rafforzandola quando invece era giunto il momento di procedere al suo scioglimento. Siamo di fronte a un baratro e, nonostante si voglia imbavagliare il pensiero, dobbiamo sforzarci di pensare e di capire che cosa possiamo fare per evitare la catastrofe di una guerra nucleare. 
      Le donne occidentali sono riuscite con lunghe lotte a porre fine a impedimenti e proibizioni durissime con cui sono state ingabbiate in una condizione di sottomissione, che impedivano loro di essere cittadine e padrone di sé stesse. La loro vita è sicuramente cambiata in meglio (…). Hanno quindi sperimentato che è possibile conquistare diritti e libertà senza spargere sangue.  (…) Oggi sono presenti in tutti i settori e anche in ruoli di potere: Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione Europa; Roberta Metsola, presidente del Parlamento Europeo; Christine Lagarde, presidente della Bce. 
        Alla guida dell’Europa, in uno dei momenti più bui della sua storia dopo l’attacco della Russia all’Ucraina, c’è una maggioranza femminile. (almeno prima delle ultime recentissime elezioni, nota della scrivente).  Sarebbe stato bello constatare di essere riuscite finalmente a prevenire la guerra… ma almeno sarebbe stato oggi d’aiuto ascoltare parole di pace dalle donne che occupano posti di responsabilità. (…)
     Occorre quindi sgombrare il campo dagli equivoci dannosi generati dalle parole parità ed eguaglianza. Essere femministe non significa voler essere incluse nel mondo così com’è, fare propri i valori del patriarcato e la logica della legge della forza che ha retto e regge il mondo.
      Ci rattrista vedere in posti di potere donne che parlano e si  comportano come gli uomini invece di significare la loro differenza che, scriveva Virginia Woolf, «è quella da cui può venirvi l’aiuto… per difendere la libertà, per prevenire la guerra».
        (…) La guerra è in assoluto il peggiore dei mali, il punto più alto del delirio di onnipotenza maschile. Sconquassa e annienta la vita, distrugge in un attimo opere umane che hanno richiesto anni di impegno e fatica, infligge atroci sofferenze, semina a man bassa odio, suscita sete di vendetta, ci fa regredire verso la barbarie…”

Daniela Dioguardi: Le donne, la guerra, la pace
In Corpi e parole di donne per la pace, a cura di Mariella Pasinati, Navarra, Palermo, 2024, pp.23,24

(seguirà recensione)

lunedì 10 giugno 2024

Giacomo Matteotti: un illuminato di cui abbiamo urgente bisogno

       "Il centenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti (10 giugno 1924-2024) è l’occasione per riprendere in considerazione - come esempio nobilissimo di impegno civile e morale - la figura del politico, dello studioso e dell’uomo. Lo fa Massimo L. Salvadori in un suo scritto dal titolo L’antifascista, uscito nell’ottobre dello scorso anno. Lo descrive come “uomo del coraggio”, capace di un’opposizione intransigente nei confronti del fascismo che, infatti, lo mette ben presto a tacere, consegnandolo alla tomba. Salvemini dirà: “Lui aveva fatto tutto il Suo dovere: e per questo era stato ucciso. Io non avevo fatto il mio dovere: e per questo mi avevano lasciato stare”.¹

L’idea del Socialismo: nato nel 1885, in Veneto, da una famiglia benestante, Giacomo Matteotti sente la propria condizione privilegiata, rispetto a quella dei tanti braccianti della sua terra, come un appello all’impegno politico, all’interno del Partito socialista, al fine di lottare per migliorare le condizioni delle fasce più povere, deprivate di tutto, non solo sul piano economico, ma ben più a livello intellettuale e umano: “Il socialismo non sta per noi in un aumento di pane e in un più alto salario; benché anche questo sia sacrosanto e indispensabile a ogni altro elevamento […] Il Socialismo parte dalla realtà dolorosa del lavoratore che giace nella abiezione e nella servitù materiale e morale e intende e opera a sollevarlo e a condurlo a miglioramenti economici e intellettuali, a Libertà sociale e Libertà spirituale sempre più alte. Vuole cioè formare e realizzare in lui l’uomo che vive, fratello e non lupo con gli Uomini, in una umanità migliore per solidarietà e per giustizia”.²

Laureato in giurisprudenza, a lungo incerto tra la scelta degli studi accademici e la missione politica, decide infine per quest’ultima, nella convinzione di dovere fare qualcosa di concreto per rispondere con impegno alla “serietà della vita”.³ Nel 1916 sposa Velia Titta, con cui vive un amore intenso - di cui sono testimonianza le appassionate lettere - fino al giorno della sua morte. Già contrario all’intervento nella Prima guerra mondiale, comprende che la pace punitiva nei confronti degli Imperi centrali è destinata a preparare un’altra feroce guerra. Diventa deputato nel 1919 e viene riconfermato nel 1921, anno in cui entrano in Parlamento 35 fascisti, tra i quali Benito Mussolini.

L’anticomunismo: La sua posizione lucida nei confronti del comunismo di matrice russa – di cui ha subito visto la deriva autoritaria – lo fa apparire ai nostri occhi un profeta, mentre lo isola nel tempo in cui sperimenta e patisce le lacerazioni del Partito socialista italiano, seguite alla fondazione della Terza Internazionale. Il suo riformismo socialista, tutto teso all'emancipazione delle classi povere, spicca puro, pulito, aristocratico nelle idee e nell’afflato culturale. La vera rivoluzione - per lui - non è frutto di un cambiamento subitaneo, illusoriamente affidato alla dittatura di pochi, ma è il risultato di un lungo processo di educazione delle coscienze, anche attraverso la scuola e l’elevazione culturale, la sola capace di rendere davvero coscienti e liberi.⁴

L’antifascismo: Colpisce la sua lucida visione del fascismo, ben compreso fin dalla prima ora, come il più grande pericolo: il partito fascista ha “una caratteristica unica rispetto a tutte le altre forze politiche: disporre di una propria organizzazione armata da far valere non solo in primo luogo contro il movimento operaio, ma anche, in prospettiva, contro un Parlamento che si desse un’eventuale maggioranza e un esecutivo ostile al fascismo”.⁵ Matteotti capisce che lo squadrismo fascista non è semplicemente una reazione nei confronti del biennio rosso - come sostenevano molti intellettuali del suo tempo, del calibro di Benedetto Croce e come dichiarerà lo stesso Mussolini nel suo discorso alla Camera del 3 gennaio 1925⁶ -, ma un movimento intrinsecamente violento, sistematicamente aggressivo, volto a negare le organizzazioni operaie e contadine e, in prospettiva, qualsiasi altra forma di espressione partecipativa. Per questo egli avverte l’urgenza di costituire un fronte antifascista largo, in collaborazione con tutte le forze democratiche, anche liberali. Matteotti individua allora ciò che solo successivamente è risultato ovvio: il contrario del fascismo non è il comunismo - che utilizza gli stessi metodi - ma la democrazia. Questa sua posizione lo isola dalle sinistre comuniste e massimaliste, ne fa un eroe tragico, incompreso, eppure di un altissimo profilo etico: “Il fascismo trova nel suo avversario, che gli somiglia, un naturale alleato. Se il Comunismo non ci fosse, il Fascismo lo inventerebbe, poiché esso è il pretesto alla sua Violenza e alla sua Dittatura…”.⁷ La sua idea di lotta di classe – non guerra di classe – è dunque lontana dagli estremismi, tanto di destra quanto di sinistra." (continua qui, nel blog Persona e Comunità, in un pezzo curato dall'amica Rossana Rolando, che ringrazio)

domenica 9 giugno 2024

Fedra e Aiace: a Siracusa le tragedie dove domina la follia

    Palermo – È toccato ad Aiace, tragedia di Sofocle, aprire il 10 maggio scorso la 59° stagione di rappresentazioni classiche al teatro greco di Siracusa, seguita il giorno dopo da Fedra (Ippolito portatore di corone), di Euripide. Dal 13 al 29 giugno completerà il ciclo di spettacoli classici la più celebre commedia di Plauto: Miles gloriosus.
       Le due tragedie scelte quest’anno dall’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico) sono legate dal filo rosso della follia, di cui sono vittime i protagonisti. 
      La prima narra la vicenda di Aiace che, poiché durante la guerra di Troia si è vantato di non avere bisogno di aiuti divini grazie al suo personale valore, subisce la vendetta di Atena. La dea, infatti, fa impazzire il guerriero quando le armi del defunto Achille, suo caro amico, non vengono assegnate a lui, ma a Ulisse. Allora Aiace, accecato da un’ira cieca e furiosa, massacra tori e greggi dei greci, convinto di uccidere, per vendicarsi del torto subito, i suoi alleati. 
    Quando Aiace riacquista la ragione e si rende conto di aver inutilmente massacrato il bestiame, ritiene di potere lavare l’onta della sua insana condotta solo col suicidio, da cui non riescono a distoglierlo né la compagna Tecmessa, né la presenza di suo figlio, né le suppliche dei suoi marinai. 
    Allontanatosi dall’accampamento con un pretesto, quindi si uccide. La tragedia si conclude con la presenza in scena di Ulisse e del fratello di Aiace, Teucro. Il saggio Ulisse, nonostante l’opposizione dei re Agamennone e Menelao, appoggia il volere di Teucro di dare ad Aiace una degna sepoltura.
   Assai cupa anche la seconda tragedia rappresentata, Fedra (chiamata in origine Ippolito portatore di corone) che narra appunto la vicenda di Fedra e di Ippolito, figlio di Teseo, re di Atene. 
Anche qui c’è una dea vendicativa, Afrodite, che punisce Ippolito, perché l’uomo disdegna l’amore e la compagnia femminile per dedicarsi solo alla caccia e al culto di Artemide. Afrodite si vendica facendo innamorare follemente di lui la matrigna Fedra, seconda moglie di Teseo, padre di Ippolito. 
   Fedra, sconvolta dalla passione impossibile, confessa il suo segreto alla nutrice che però, credendo di fare bene, lo rivela a Ippolito. L’uomo reagisce con rabbia alla comunicazione, inveendo contro la matrigna.  Fedra ritiene allora che l’unica via di uscita dal vicolo cieco della dolorosa situazione sia il suicidio. Lascia però un biglietto in cui accusa il figliastro di aver approfittato di lei.
   Al suo ritorno, Teseo trova il cadavere di Fedra con il biglietto di accusa verso Ippolito. Non crede al figlio che proclama la sua innocenza: lo caccia dalla città e gli lancia una maledizione, con l’aiuto del dio Poseidone. Così il carro guidato da Ippolito si schianta contro le rocce e Ippolito viene riportato agonizzante. Solo ora compare Artemide, che esplicita a Teseo l'innocenza di suo figlio. Il re si rivolge allora ad Ippolito, ottenendone in punto di morte il perdono. 
   Sia nell’Aiace che in Fedra l’amaro destino che attende i protagonisti è causato da forze oscure e ingovernabili, dall’imprevedibile volere degli dei che tramano contro gli esseri umani e ne determinano la rovina. 
    Sia Sofocle che Euripide esprimono un pessimismo radicale sulla condizione umana: “Destino degli uomini è soffrire”, scrive Sofocle nella sua tragedia; mentre nell’Aiace Euripide afferma che “Tutti noi viventi siamo fantasmi e ombre vane”. Secondo i due autori, l’unica libertà che rimane agli umani, l’unica resistenza all’assurdità della vita è quella di rifiutarsi di vivere, riprendendo così in mano il proprio destino.
   Ad avviso della scrivente, spettatrice a Siracusa delle tragedie, sia Aiace (nella traduzione di Walter Lapini, con la regia di Luca Micheletti e musiche originali di Giovanni Sollima) che Fedra (tradotta da Nicola Crocetti e messa in scena dal regista scozzese Paul Curran) sono ben recitate, con un suggestivo apparato scenografico. La tragica ‘staticità’ delle vicende narrate viene ‘alleggerita’ in entrambi gli spettacoli dalla musica, dalle danze e dal vivace dinamismo delle composizioni sceniche. 
    Il pubblico – soprattutto siciliano, ma con spettatori provenienti da tutta l’Italia e persino dall’estero, ha premiato le due tragedie riempiendo per varie sere tutti i 15.000 posti disponibili.
Infine, oltre al citato Miles gloriosus in scena da metà giugno, nella prestigiosa cornice del Teatro greco debutterà per la prima volta il 14 luglio lo spettacolo di danza Roberto Bolle and Friends.
 
Maria D'Asaro, 9.6.24, il Punto Quotidiano

venerdì 7 giugno 2024

La magia espressiva di Natalia Ginzburg

Natalia Ginzburg
        “In che cosa consiste l’importanza dei saggi, degli articoli, delle ‘idee’ di Natalia Ginzburg? Per quale ragione il «giornalismo» di una donna che non esita a riconoscersi incompetente di tutto (di tutto, a eccezione dei fatti letterari e poetici) riesce a sollevare umori così diversi?
     Anche il giornalismo d’opinione si adegua, ormai, alle brave leggi del consumo. E tra i precetti che lo ispirano primeggia la stucchevole e melensa ricetta della «cattiveria». (…)       Ebbene, il primo scandalo della Ginzburg (somma provocazione) è l’innocenza separata dall’ingenuità. Conservarsi innocenti, limpidi e puri di mente senza rischiare, a ogni passo, di fare la figura degli scemi, si converrà che è virtù quasi introvabile.
    Ma il vero scandalo è un altro. Se gli articolo della Ginzburg fossero scritti da un uomo, non li tacceremmo appunto d’ingenuità? Ebbene, la novità del saggismo della Ginzburg consiste nell’uso irritante di un’intelligenza «diversa»: un’intelligenza che viene articolata chiaramente, organizzata razionalmente quanto più ne vengono esaltati, al contrario, gli originari connotati primitivi ed emotivi, le oscure e aggrovigliate premesse passionali. L’impressione non è quella di un pensiero infantile o «naïf», ma di un pensiero il cui pigro organismo, attraversato da intuizioni e concatenazioni fulminee, sia costretto a risvegliarsi e a uscire da un lunghissimo letargo.
    A ogni richiamo, la femminilità si scuote, capricciosa e imperiosa, e si traduce in una forza intellettuale in sé e per sé, in un’arma che impone le sue leggi. Il risultato è che i codici della cultura maschile vengono infranti, nello stesso tempo in cui vengono utilizzati.

Cesare Garboli
     Lo scandalo non finisce qui. Si direbbe infatti che la Ginzburg soffra di un oscuro complesso di «superiorità». Donna, la Ginzburg pensa che la condizione femminile sia un punto di osservazione privilegiato. Dal vasto patrimonio della sensibilità e del pensiero occidentale, la Ginzburg si è limitata ad estrarre due o tre principi-guida (la poesia, il comunismo) che le bastano a orientarsi protetta da una sensazione di infallibile sicurezza. Ora questi principi vengono usati come strumenti «contro», non «per» la nostra civiltà. Il risultato è una lunga serie di infrazioni. Un paesaggio culturale ci viene restituito nel suo aspetto famigliare e addirittura domestico, ma anche stravolto nei lineamenti, irriconoscibile, rimosso dalle fondamenta come se un soffio di caldo vento africano ne avesse spazzato via gli edifici.
    Ultima stranezza. I principi della Ginzburg vengono sposati secondo un radicale, e, appunto, femminile estremismo. Senza mezzi termini, senza se e senza ma. Ora la nostra cultura (specie letteraria) è piena di se e ma, attentissima a muoversi con occhiuta prudenza, vigile temperanza. È una cultura non più genericamente «impegnata», ma fortemente «politicizzata». (…). La cultura nostrana è pretesca, ginnasiale, «ipottatica»? E la Ginzburg è paratattica, severa, impulsiva, e allinea coordinate che sono altrettanti proiettili.
    Così le parti s’invertono. Gli strumenti femminili vengono usati in difesa dell’uomo: ma di un uomo che non esiste, e la cui figura va scomparendo sempre più velocemente dalla faccia della terra. Come Caro Michele anche Vita immaginaria è un addio, un requiem per la virilità: o troppo esausta, nel nostro secolo, o troppo infantile.”

Natalia Ginzburg,  Vita immaginaria (a cura di Domenico Scarpa) Einaudi, Torino, 2021
Risvolto di sovracoperta della prima edizione,  a firma di Cesare Garboli 
(riportato nella presentazione dell’ultima edizione da Domenico Scarpa)


domenica 2 giugno 2024

Filatelia: la storia del "Gronchi rosa"

        Palermo – La generazione Z, nata tra la fine del XX secolo e il primo decennio del XXI, ne ha un’idea piuttosto vaga; la successiva, i nati dopo il 2010, forse non sa neppure cosa siano e a cosa servano i francobolli, visto che la corrispondenza di carta di fatto non si utilizza quasi più, soppiantata da e/mail e messaggi al cellulare.
       Così i francobolli - mini documenti stampati da una parte e gommati sul retro, ‘tassa’ sulla corrispondenza, cioè pagamento anticipato da parte del mittente per servizi postali vari quali la spedizione di una lettera o di un pacco, a un qualsiasi destinatario, all’interno del proprio Stato o all’estero - sono divenuti ormai quasi dei cimeli storici. Spinti dalla passione o dalla ricerca del pezzo raro, di elevato valore economico, esistono ancora gli amanti della filatelia, cioè i collezionisti di francobolli, nuovi e usati.
       Uno dei più quotati francobolli italiani è il Gronchi rosa, la cui storia particolare va raccontata. Si tratta di un francobollo emesso in Italia il 3 aprile 1961 per commemorare il viaggio dell’allora  Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi in Sudamerica, primo viaggio ufficiale in America latina da parte di un capo di stato italiano.
     Il francobollo, del valore nominale di 205 lire e di colore rosa, faceva parte di una serie di tre esemplari dedicati agli Stati sudamericani visitati dal Presidente: Argentina (170 lire), Uruguay (185 lire) e Perù (appunto, 205 lire).
    Ogni francobollo della serie mostrava, sul lato destro, la cartina geografica europea con l'Italia evidenziata in colore marcato, e sul sinistro il continente americano nel quale risaltava analogamente, con colore più scuro, il Paese sudamericano al quale si riferiva il relativo valore facciale. Fra i due continenti figurava - quale collegamento ideale - l'aereo presidenziale, con la punta diretta proprio verso il continente americano.
     In particolare, il Gronchi rosa evidenziava il Perù, e ne indicava i confini riferiti a quelli precedenti la guerra con l'Ecuador del 1941/42, dopo la quale invece il Perù si era impossessato di un territorio nel bacino del Rio delle Amazzoni, rappresentato ormai nelle carte geografiche aggiornate. Ma al disegnatore Renato Mura, addetto alla stampa del francobollo, fu fornito un atlante De Agostini del 1939, che visualizzava i confini tra i due stati antecedenti al citato conflitto che, esploso mentre in Europa c’era la seconda guerra mondiale, era passato quasi inosservato. In particolare, nessun addetto alla stampa del francobollo notò che i confini tra Perù ed Ecuador erano nel 1961 diversi da quelli ante 1941/42.
    Nessuno tranne l'ambasciatore peruviano in Italia, Alfonso Arias, che la mattina del 3 aprile stesso, giorno di Pasquetta, si era procurato la serie dei tre francobolli commemorativi: Arias, notato l'errore, protestò per il posizionamento non corretto dei confini, che, nel francobollo, non comprendevano la  parte amazzonica. A seguito delle sue vibrate proteste, la distribuzione fu immediatamente sospesa.
    L’indomani mattina, martedì 4 aprile, giunse l'ordine del Ministero delle Poste e Telecomunicazioni di ritirare dalla vendita il valore incriminato, di riconsegnare al Poligrafico i valori invenduti da destinarsi al macero o all'incenerimento e di sostituire i fogli bollati con un nuovo valore corretto, che sarebbe stato consegnato alla vendita l'indomani, mercoledì 5 aprile. 
    Il nuovo francobollo sarebbe risultato ugualmente valido, in quanto tutta la serie bollata avrebbe ricevuto la validità postale giovedì 6 aprile, in concomitanza con l'inizio del viaggio di Stato. 
    Infatti, era prevista l'affrancatura degli aerogrammi trasportati sull'aereo presidenziale; la vendita dei valori bollati con tre giorni d'anticipo (emessi il 3 aprile) era stata consentita solo per permettere a tutti, collezionisti e semplici cittadini con parenti in Sudamerica, di preparare per tempo un proprio aerogramma e inviarlo a Roma, dove sarebbe stato annullato con il timbro commemorativo e successivamente imbarcato sull'aereo presidenziale.
    Le Poste italiane tentarono di eliminare i Gronchi rosa già venduti. Si ordinò di coprire con una versione corretta (di colore grigio) gli esemplari già affrancati e spediti, intercettando la corrispondenza in una grandiosa operazione-lampo. Alcuni esemplari sfuggirono però al ritiro e diventarono il pezzo più ambito per i  filatelici italiani.
   Su quanti siano oggi gli esemplari in circolazione presso commercianti e collezionisti esistono opinioni contrastanti. Nel 1966, un comunicato ufficiale delle Poste indicava il numero di 79.625 esemplari sfuggiti al ritiro, 90 dei quali conservati per i musei postali e 80 destinati a omaggi a diplomatici.
   Il clamore suscitato dalla vicenda provocò allora un immediato incremento dell'interesse verso le collezioni filateliche, che raggiunsero alti livelli di speculazione, poi collassati qualche anno dopo, con un crollo del mercato.
   La quotazione del Gronchi rosa oggi varia: è nell'ordine di circa mille euro per il francobollo nuovo con la gomma integra, di circa cinquecento euro per i francobolli senza gomma, provenienti dalle affrancature delle buste intercettate e ricoperte con il 205 grigio. Le buste con il Gronchi rosa ricoperto hanno una valutazione di mercato compresa tra i 600 e i 900 euro.
    Per quei pochissimi valori sfuggiti alle ricerche degli ufficiali postali, che hanno viaggiato (e sono quindi stati timbrati), si raggiungono quotazioni notevoli: se hanno viaggiato sull'aereo del presidente Gronchi nel suo viaggio verso l'America Latina possono valere anche a 30.000 euro ciascuno.

Maria D'Asaro, 2.6.24, il Punto Quotidiano