Un’avvertenza preliminare, per chi leggerà il saggio
su Manlio Sgalambro, Breve invito all’opera
(Lettere da QALAT, Caltagirone, 2017, €15): si tratta di un testo per adulti
maturi, sconsigliato per chi, deposto il paracadute di visioni religiose o ideologie
consolatorie, non abbia sufficiente coraggio per accostarsi alla lama tagliente
del pensiero - lucido e impietosamente pessimista - di Sgalambro. Davide Miccione,
curatore del testo, e gli altri tre studiosi co-autori del volume, Cosimo Cucinotta,
Salvatore Ivan D’Agostino e Giovanni Miraglia, ci presentano il filosofo di
Lentini attraverso scorci significativi della sua opera intrigante e poliedrica,
che mette in crisi tante nostre certezze,
ma a cui non si può negare sapienza, acutezza e autenticità speculativa.
Ai più
conosciuto solo per il felice sodalizio col conterraneo Franco Battiato - per
il quale ha scritto, tra gli altri, i testi de “L’ombrello e la macchina da
cucire”, de “L’imboscata” e per cui ha curato il libretto dell’opera musicale
in due atti “Il cavaliere dell’intelletto” (raccontata nella parte finale del
saggio da Cosimo Cucinotta) - chi era davvero Manlio Sgalambro? “Qualcuno che poneva tra sé e il mondo (…)
non la professione (non ne aveva), non la cattedra (…), non la laurea (mai
conseguita). Solo la filosofia”: un vero filosofo dunque, testimonia Davide
Miccione, che ha avuto il privilegio di essergli amico. Sgalambro, continua
Miccione, è stato uno dei pochi filosofi italiani contemporanei non accademico:
autodidatta, si è definito “chierico”, umile servo della verità filosofica, sforzandosi
di eludere ogni legame con la sua dimensione biografica e localistica “per mantenersi in una sfera che gli
assicurasse una genesi esclusivamente teoretica del suo pensiero”.
A cosa approda il pensiero di Sgalambro, che si
esprime con una prosa scintillante e acuminata? A una visione dissacrante, anticonformistica
e pessimistica della realtà, che ritiene fallaci le idee illuministiche di
libertà, progresso, democrazia: “Tutte le
cose su cui siamo abituati a fondare la convivenza tra uomini (…) dall’etica
alla religione, dalla scuola alla democrazia, vengono da Sgalambro negate o
radicalmente modificate o svuotate, fino a farle apparire meri involucri”. Di
conseguenza: “l’idea di un’interazione
forte e continua (…) con la società (…) sembra abbisognare di presupposti illuministi,
democratici, progressisti che poco hanno a che vedere col suo pensiero.” Posizione
chiaramente sintetizzata da Salvatore Ivan D’Agostino che, a proposito della
filosofia di Sgalambro, parla di un “pessimismo misoteistico”, già delineato nella
prima opera dell’autore “La morte del sole”: “Se conoscere vuol dire dare un nome alle cose, pensare
pessimisticamente è pensare davvero”. C’è una sorta di verità empirica nel
pessimismo; infatti: “Sgalambro punta
tutto (o quasi) sul dato che la verità viene dall’esterno (…) tale verità non è
un parere (…) bensì una conoscenza incontestabile”. “La conoscenza della fine
termica del mondo (anche se fra cento miliardi di anni) … è il punto di vista
privilegiato che la verità può consentire. (…) Non è che nulla abbia senso,
bensì che il senso sia anche troppo e che sia negativo: tutto si distruggerà”. In
conseguenza di tale oggettiva percezione del reale, la concezione del divino
non può che essere ‘empia’ e negativa: “Il
nome di Dio può essere usato solo per indicare i limiti del mondo, la morte e
la distruzione”. L’estrema conseguenza di tale idea del divino è quindi il
misoteismo, l’odio per Dio: “reazione
emozionale alla sindrome di Stoccolma religiosa secondo la quale siamo
costretti … ad amare l’essere (supposto) che ci tiene in miseria, ci fa
soffrire ed alla fine immancabilmente ci uccide”.
Chi sale e chi scende allora, tra i filosofi, nel ristretto Parnaso delineato da Sgalambro? Tranne Husserl, irrisi quasi tutti i pensatori del Novecento: Heidegger, Jonas, Gadamer, Habermas, Ernst Bloch, Hanna Arendt. Tra i filosofi meno recenti, stima imperitura per Spinoza e Schopenhauer.
Giovanni Miraglia, infine, tratteggia alcune
costanti delle “stazioni impoetiche”
del filosofo che, “come un uomo della
Grecia arcaica”, non conosce steccati tra filosofia, scienza, musica e
letteratura e fa dei suoi versi “un’acuminata
arma di disvelamento intellettuale” per fustigare imposture e marcescenze del pensiero, col
“basso continuo” di una severa ironia che aspira a togliere alla poesia ogni
funzione salvifica.
Coraggio, allora: approfittiamo di questo libretto
prezioso per misurarci con l’umanissimo, intrigante pensiero di Sgalambro che, se ci ricorda: “Si sa chi si è, da dove si viene e dove si
va. Al postutto si è garantiti”, alla fine ci consola così: “Attraverso il dolore di vedere il mondo in un
disordine mostruoso, si fa luce la gioia di sapere in ordine la propria mente.”
Maria D’Asaro