venerdì 28 dicembre 2012

Il femminicidio secondo don Piero Corsi


     Anch’io rimprovero le mie alunne se le trovo in classe con i pantaloni a vita bassa o con magliette troppo scollate. Credo infatti che l’abito indossato – da uomini e donne, piccoli e grandi – debba essere adeguato al contesto. Infatti il nostro corpo e il vestito che indossiamo è una delle più formidabili modalità comunicative in nostro possesso. 
    Però le affermazioni di don Piero Corsi, parroco di una cittadina ligure, mi mettono i brividi. Come donna innanzitutto, facente parte a tutti gli effetti di una categoria a rischio, ma anche come cittadina, come cattolica, come docente.
    A questo proposito, vi propongo le riflessioni di Michele Serra, apparse ieri 27 dicembre 2012 sul quotidiano “La Repubblica”.


    Senza saperlo e senza volerlo il parroco di San Terenzo, don Piero Corsi, ha fornito ai suoi compaesani (e attraverso i media all’Italia intera) una spiegazione schietta ed esauriente delle cause del femminicidio. Gli uomini uccidono le donne perché hanno, delle donne, la medesima concezione che ne ha don Piero. Le pensano obbedienti e sottoposte, prive di qualunque autonomia al di fuori del recinto ideologico nel quale i loro proprietari maschi le confinano. Le pensano puttane se non assoggettate a un marito e a una famiglia, se non abbastanza castigate e remissive. Le pensano indegne se non devote ai fornelli, alla cura dei maschi di casa, al servizio di chi le protegge se obbediscono, le offende e le malmena se disobbediscono.
Tutto questo don Piero lo spiega con magistrale rozzezza: donne, se non obbedite poi non lamentatevi quando qualcuno vi punisce, vi mette le mani addosso, vi uccide. Piuttosto che intimare a don Piero di tacere, le varie associazioni che tutelano i diritti delle persone, e in specie delle donne, dovrebbero chiedergli di parlare ancora, di scrivere ancora. In poche righe, spiega l’odio per le donne meglio di un manuale di criminologia.

mercoledì 26 dicembre 2012

Natale secondo Erri De Luca


(Riflessioni molto laiche sul Natale: scritte da un autore che amo e il cui pensiero di fondo condivido)

Nello scasso profondo dei nuclei familiari, Natale arriva come un faro sui cocci e fa brillare i frantumi. Si aggiungono intorno alla tavola apparecchiata sedie vuote da tempo. Per una volta all’anno, come per i defunti, si va in visita al cerchio spezzato.
Natale è l’ultima festa che costringe ai conti. Non quelli degli acquisti a strascico, fino a espiare la tredicesima, fino a indebitarsi. Altri conti e con deficit maggiori si presentano puntuali e insolvibili. I solitari scontano l’esclusione dalle tavole e si danno alla fuga di un viaggio se possono permetterselo, o si danno al più rischioso orgoglio d’infischiarsene. Ma la celebrazione non dà tregua: vetrine, addobbi, la persecuzione della pubblicità da novembre a febbraio preme a gomitate nelle costole degli sparpagliati.
Natale è atto di accusa. Perfino Capodanno è meno perentorio, con la sua liturgia di accatastati intorno a un orologio con il bicchiere in mano. Natale incalza a fondo i... disertori. Ma è giorno di nascita di chi? Del suo contrario, spedito a dire e a lasciare detto, a chi per ascoltarlo si azzittiva.
 Dovrebbe essere festa del silenzio, di chi tende l’orecchio e scruta con speranza dentro il buio. Converge non sopra i palazzi e i centri commerciali, ma sopra una baracca, la cometa. Porta la buona notizia che rallegra i modesti e angoscia i re. La notizia si è fatta largo dentro il corpo di una ragazza di Israele, incinta fuorilegge, partoriente dove non c’è tetto, salvata dal mistero di amore del marito che l’ha difesa, gravida non di lui. Niente di questa festa deve lusingare i benpensanti. Meglio dimenticare le circostanze e tenersi l’occasione commerciale. Non è di buon esempio la sacra famiglia: scandalo il figlio della vergine, presto saranno in fuga, latitanti per le forze dell’ordine di allora. Lì dentro la baracca, che oggi sgombererebbero le ruspe, lontano dalla casa e dai parenti a Nazareth, si annuncia festa per chi non ha un uovo da sbattere in due. Per chi è finito solo, per il viandante, per la svestita sul viale d’inverno, per chi è stato messo alla porta e licenziato, per chi non ha di che pagarsi il tetto, per i malcapitati è proclamata festa. Natale con i tuoi: buon per te se ne hai. Ma non è vero che si celebra l’agio familiare.
Natale è lo sbaraglio di un cucciolo di redentore privo pure di una coperta. Chi è in affanno, steso in una corsia, dietro un filo spinato, chi è sparigliato, sia stanotte lieto. È di lui, del suo ingombro che si celebra l’avvento. È contro di lui che si alza il ponte levatoio del castello famiglia, che, crollato all’interno, mostra ancora da fuori le fortificazioni di Natale.







lunedì 24 dicembre 2012

Dare un senso al Natale



Tutto ebbe inizio nell’agosto di 25 anni fa: i vicini di casa, coppia silenziosa e solitaria, sparirono per due mesi. Al rientro, li vidi attorniati da tre ragazzini, un bimbo di tre anni e due sorelline maggiori. Infatti, espletato l’iter di adozione internazionale, la coppia si era vista affidare tre fratellini brasiliani, con un doloroso vissuto pregresso. Con i nuovi genitori, i ragazzini hanno avuto un’infanzia serena. Adesso i tre si sono sposati:  hanno regalato a mamma e papà ben otto nipotini, compresa una coppia di gemelline. L’ottava nipotina è nata poco prima di Natale. C’è chi versa fiumi d’inchiostro o fa mille convegni su come cambiare in meglio il mondo. Maria e Francesco non sono molto loquaci: in compenso sono riusciti a regalare ai loro tre splendidi figli adottivi una vita degna di questo nome. A loro, e tutti gli uomini e alle donne di buona volontà, Buon Natale davvero.
Maria D’Asaro (pubblicato su "Centonove" il 21.12.2012)

"Onorerò il Natale nel mio cuore e cercherò di tenerlo con me tutto l'anno." (C. Dickens)

venerdì 21 dicembre 2012

Aspettando l'apocalisse


Qualcuno potrebbe arricciare il naso. Pensando che sia l’ennesimo instant book millenarista legato alla tanto strombazzata profezia dei Maya. Invece il saggio di Roberto Alajmo, Arriva la fine del mondo (e ancora non sai cosa mettere) - Laterza, Bari 2012, € 14 –  è un libro di lunga durata, in cui l’autore mostra la sua corda più seria. Tanto che il testo potrebbe essere considerato un buon saggio di sociologia, o almeno di psicologia sociale divulgativa. Alla domanda di fondo: Come reagirebbe il cittadino medio all’eventualità di una imminente apocalissi? Alajmo snocciola una serie di considerazioni imperdibili, intriganti e significative dal punto di vista antropologico. E ce le offre nello scrigno di una scrittura scattante, arguta e assai godibile.
Lo scrittore ci squaderna un’ampia carrellata delle possibili geo-catastrofi in arrivo, senza rinunciare alla sua vena surreale e grottesca, che rende meno indigesto il lugubre repertorio. Che va dai “finismi”, cioè dalle apocalissi di settore, per cui “persino l’invenzione di Gutemberg deve aver avuto i suoi detrattori, se non altro nella categoria degli amanuensi”; a catastrofi più corpose, quali la sovrappopolazione, lo sfruttamento rapace delle risorse del pianeta e il suo forse irreversibile inquinamento; alla rievocazione degli allarmi mediatici legati alle mucche pazze, all’influenza dei polli e alla febbre dei maiali. Non sono trascurate, ovviamente, eventuali guerre nucleari, collisioni di meteoriti e ipotetiche invasioni aliene.
Come se la caverà il genere umano con questa variegata serie di Armageddon? Alajmo non è affatto ottimista: ci ricorda che le profezie apocalittiche sono spesso appannaggio di fanatici elitari e di masse di derelitti, tra i quali si crea una pericolosa saldatura; ci spiega che il paradosso delle ultime generazioni è quello di fregarsene di rapinare il futuro a figli e nipoti; ci dimostra che la razza umana appare incapace di occuparsi dei pericoli veri, per cui: “forse è così che ti tocca morire: grasso, spensierato e ignaro di te stesso”, mentre “le arterie del sistema si stanno intasando, ma l’aspetto della società è addirittura florido”. Come si nota dalla citazione, l’autore bussa alla nostra attenzione di lettori, utilizzando un appropriato campanello stilistico: ci dà del tu, senza chiederci il permesso Così, anche se non ha il bagaglio pronto, chi legge viene subito coinvolto nel viaggio inquietante verso le paventate apocalissi. E viene chiamato in causa dalle acute riflessioni dello scrittore, che concede comunque al lettore una buona dose di buonumore quando enuncia il principio di Peter e descrive i fenomeni sociali, prettamente italiani, del “Darwinismo Invertito” e del “Garantismo Sospeso”: espressioni felici con le quali il sarcasmo di chi scrive battezza i ragionamenti sulle apocalissi italiane. Tra l’altro, un problema tutto nostro è la caduta del muro della vergogna: “Se prima ti passava per la testa di dire una cazzata, andavi al bar e la dicevi (…) Adesso, invece, se ti venisse il ticchio di dire che per fermare gli sbarchi degli extracomunitari bisognerebbe usare i cannoni (…) andresti a dirlo in televisione. O addirittura in Parlamento (…) Allora, con lo scopo di recuperare almeno in parte il senso delle cose, bisognerebbe istituire un’ora settimanale di vergogna nelle scuole”.
 Che Alajmo sia scrittore multiforme e poliedrico, lo sapevamo già: pur se gioca con l’incertezza dell’abito da indossare il giorno dell’Apocalisse, in questo libro veste assai bene i panni del docente, senza averne l’aria noiosa: non a caso la sua lezione magistrale sulle apocalissi prossime venture ci ricorda Braudel, ha qualche tocco della psicologia della Gestalt, qualcosa di Zygmunt Bauman e richiama, tra le righe, al principio responsabilità di Hans Jonas. E allora, tra il potenziale vasto pubblico dei suoi lettori, inserirei a pieno titolo gli studenti delle secondarie superiori che, nonostante le occupazioni rituali delle scuole, non si ribellano alle storture del presente perché “fin tanto che qualcuno è disposto a pagare la ricarica del telefonino, si può rinviare qualsiasi insurrezione” e sono i più propensi ad adeguarsi a modelli culturali ed economici pericolosi ed obsoleti. Ecco allora una proposta assai seria ai docenti di Storia delle Superiori: adottino il testo di Alajmo come riflessione civica da leggere in classe. Perché i ragazzi, incapaci di progettare un qualsiasi serio cambiamento, fermi a un miope “bricolage rivoltoso di corto respiro”, siano aiutati a pensare. E, come ci ricorda Tommaso Moro, imparino ad avere la forza di cambiare quello che possono cambiare, la pazienza di accettare le cose che non si possono cambiare e soprattutto l’intelligenza di distinguere le une dalle altre.  
Maria D’Asaro  (pubblicato su “Centonove” il 21.12.2012)                                                                                                                                                                                                                                                                                   

martedì 18 dicembre 2012

Nostra signora e le sue armi segrete


Nostra signora aveva delle risorse nascoste. Che utilizzava in particolari momenti. Come quando era dentro a quel tubo, con quel rumore assordante sulla sua testa. E quel senso gelido di solitudine, col cuore che le scoppiava nel petto. Allora aveva cominciato a pregare: Padre nostro, che sei nei cieli. E la pressione sopra il suo cuore si era allentata un pochino.
Oppure, come quando le toccò guidare di sera; e c’era la nebbia. Persino un viadotto da attraversare, nel buio più fitto: Sia santificato il tuo nome. Allora, anche suo figlio ebbe paura:  - Mamma, andremo a schiantarci. - Ma lei doveva farcela a riportare a casa i suoi grandi cuccioli:  Maria, guidami nel mio cammino, salvami dai pericoli della strada. – Mamma, ma come hai fatto? Non si vedeva la strada …  Proteggi chi mi accompagna, donami un viaggio sicuro.
Quella di nostra signora non era superstizione. Neppure una fede di ferro. Lei si aggrappava ad un filo. Stringeva una mano invisibile, sperava nella connessione con un soffio divino, senza sapere se un Dio ci fosse davvero: Venga il tuo regno. Sia fatta la tua volontà, come in cielo, così in terra. Nella sua vita, erano successe cose che non capiva. Però quella sua fragile tela con l’Infinito, nostra Signora continuava a cucirla. Appena sveglia, indirizzava all’Assoluto silenzio un grato pensiero: Grazie. Sono felice di essere viva. Quel suo amico, il prete che sorrideva, diceva che pregare vuol dire sentirsi precari e riconoscere il nostro limite, la nostra impotenza: Dacci oggi il nostro pane quotidiano … Liberaci dal male. E lei precaria si era sempre sentita.
Da un poco però nostra signora aveva anche un sostegno terreno. Qualcuno che le sussurrava, con accento sincero: Maruzza, sei brava. Sei buona. Sei bella. Il bello era che lei ci credeva, a quei complimenti speciali. Così, si sentiva più forte.
E ogni tanto, qualcosa di buono la faceva davvero.

venerdì 14 dicembre 2012

Troppa roba vi seppellirà …


“Troppa roba vi seppellirà”: profetizzava qualche anno fa Michele Serra dalle pagine del settimanale satirico “Cuore”. Così, se nella corsa ai regali mia figlia mi trascina in uno dei tanti negozi che a Palermo vendono mille cianfrusaglie a un euro,  non sono affatto contenta. Infatti sto male a pensare quanto inquiniamo per costruire oggetti superflui, assemblati a forza dalle dita di adulti, e spesso anche di bambini, quasi sempre sfruttati. Secondo stime attendibili, noi europei abbiamo in casa circa 10.000 oggetti. Ciò nonostante continuiamo a comprarne, cercando una qualche felicità nelle tante cose di cui ci circondiamo. Ci sono per fortuna alcune minoranze che, con uno sguardo “in avanti”, predicano una “decrescita felice” e ci ricordano che la sobrietà non è una privazione, ma una liberazione dal troppo che potrebbe soffocarci. Perchè la vera ricchezza non sta negli oggetti, ma nella qualità delle relazioni umane intrecciate col filo prezioso dell’autenticità.
Maria D’Asaro (pubblicato su “Centonove” del 14.12.2012)

martedì 11 dicembre 2012

The age of Acquarius



Mi scuso per il ritardo: queste righe avrei voluto scriverle ieri. Perché il 10 dicembre, appunto, ricorre la giornata mondiale per i Diritti Umani. Ieri, tra l’altro, all’Unione europea, è stato consegnato il Nobel per la Pace 2012. Spero che i popoli e i governi si mettano in cammino per una affermazione, la più ampia possibile, dei diritti umani universali. In questo particolare momento storico, il mio pensiero e la mia solidarietà va ai popoli  - siriano, egiziano, palestinese, iraniano - che lottano per i riconoscimento di alcuni diritti umani essenziali. Con l’augurio che presto siano riconosciuti portatori di diritti tutti gli esseri senzienti, animali e piante, e l’intero pianeta. 
La giornata internazionale per i Diritti Umani, che dal 10 dicembre 1950 celebra la Dichiarazione internazionale dei Diritti umani del 1948, ci richiama tutti a una cittadinanza consapevole. (…) Riconoscendo che ogni essere umano ha una intrinseca dignità, un valore senza prezzo, la finalità di diventare persona, ogni violenza su di lui corrisponde alla violazione di uno specifico diritto umano universale. Non si tratta solo di norme e precetti, ma di parametri di azione che riguardano la vita civile, politica, economico-sociale dei singoli e dei popoli. I diritti umani sono una meta narrazione che può sostituire le ideologie - fallimentari e tragiche – e che ci aiutano a costruire un’etica universale laica e condivisa (Francesco Colizzi, Direttore della rivista “Amici di Follereau”, 10 dicembre 2010)

sabato 8 dicembre 2012

Hello, John ...


Ci manca dall'8 dicembre di tanti anni fa. Ma è sempre con noi.



We're playing those mind games together,
Pushing barriers, planting seeds,
Playing the mind guerilla,
Chanting the Mantra peace on earth,
We all been playing mind games forever,
Some kinda druid dudes lifting the veil.
Doing the mind guerilla,
Some call it the search for the grail,
Love is the answer and you know that for sure,
Love is flower you got to let it, you got to let it grow,
So keep on playing those mind games together,
Faith in the future outta the now,
You just can't beat on those mind guerillas,
Absolute elsewhere in the stones of your mind,
Yeah we're playing those mind games forever,
Projecting our images in space and in time,
Yes is the answer and you know that for sure,
Yes is the surrender you got to let it, you got to let it go,
So keep on playing those mind games together,
Doing the ritual dance inn the sun,
Millions of mind guerrillas,
Putting their soul power to the karmic wheel,
Keep on playing those mind games forever,
Raising the spirit of peace and love, not war,
(I want you to make love, not war, I know you've heard it before)

giovedì 6 dicembre 2012

Il cielo in una stanza


Capita che tua figlia si sposi e tutto è cambiato. Allora decidi che è il caso di fare un trasloco, al tuo interno e anche fuori. Il figlio della Gina ti aiuta a spostare un armadio pesante: su il divano arancione e giù lettino e cassettiera. Metti le tende del colore che vuoi. Finalmente la tua scrivania col pc e la connessione ultrarapida. Il tavolino verde stile decò con le foto di mamma, papà e dei tre ex cuccioli. La lampada a cupola bianca e il caldo tappeto. Così quella stanza diventa un rifugio speciale. Senti in silenzio il suo abbraccio, col suo tepore sospeso. 

martedì 4 dicembre 2012

Vigili neri



In una Palermo affollata di disoccupati, di gente ai margini e di tante esistenze precarie, è emersa una nuova figura: quella del finto vigile extracomunitario. Lo si trova un po’ dappertutto: quando ci si ferma vicino a un mercatino rionale, davanti a un supermercato, accanto a una farmacia o al signore che vende il pesce fresco. Rispetto ai posteggiatori abusivi nostrani, il vigile improvvisato di pelle scura di solito non possiede petulanti fischietti, si dà veramente da fare per trovarti un posteggio, si accontenta di quello che gli viene elargito, ammesso che qualcuno gli dia qualche spicciolo. E poi, soprattutto, non ha quell’atteggiamento arrogante che connota invece il posteggiatore palermitano. Al contrario, ha occhi mansueti, se non addirittura rassegnati e imploranti. E magari sei tu a dover abbassare lo sguardo. Perché ti vergogni: perché non è umana una società che costringe degli individui a trasformarsi, per necessità, in macchiette patetiche.
Maria D’Asaro (pubblicato su “Centonove” del 30.11.2012)