[…] La nostra città, del resto, è malinconica per sua natura.
[…]La nostra città rassomiglia, noi adesso ce ne accorgiamo, all'amico che abbiamo perduto e che l'aveva cara; è, come era lui, laboriosa, aggrondata in una sua operosità febbrile e testarda; ed è nello stesso tempo svogliata e disposta a oziare e a sognare. Nella città che gli rassomiglia, noi sentiamo rivivere il nostro amico dovunque andiamo; in ogni angolo e ad ogni svolta ci sembra che possa a un tratto apparire la sua alta figura dal cappotto scuro a martingala, la faccia nascosta nel bavero, il cappello calato sugli occhi.
L'amico misurava la città col suo lungo passo, testardo e solitario; si rintanava nei caffè più appartati e fumosi, si liberava svelto del cappotto e del cappello, ma teneva buttata attorno al collo la sua brutta sciarpetta chiara; si attorcigliava intorno alle dita le lunghe ciocche dei suoi capelli castani, e poi si spettinava all'improvviso con mossa fulminea.
[…]
Il nostro amico viveva nella città come un adolescente: e fino all'ultimo visse così. Le sue giornate erano, come quelle degli adolescenti, lunghissime, e piene di tempo: sapeva trovare spazio per studiare e per scrivere, per guadagnarsi la vita e per oziare sulle strade che amava: e noi che annaspavamo combattuti fra pigrizia e operosità, perdevamo le ore nell'incertezza di decidere se eravamo pigri o operosi. Non volle, per molti anni, sottomettersi a un orario d'ufficio, accettare una professione definita; ma quando acconsentì a sedere a un tavolo d'ufficio, divenne un impiegato meticoloso e un lavoratore infaticabile: pur serbandosi un ampio margine d'ozio; consumava i suoi pasti velocissimo, mangiava poco e non dormiva mai.
Era, qualche volta, molto triste: ma noi pensammo, per lungo tempo, che sarebbe guarito di quella tristezza, quando si fosse deciso a diventare adulto: perché ci pareva, la sua, una tristezza come di ragazzo, la malinconia voluttuosa e svagata del ragazzo che ancora non ha toccato la terra e si muove nel mondo arido e solitario dei sogni. Qualche volta, la sera, ci veniva a trovare; sedeva pallido, con la sua sciarpetta al collo, e si attorcigliava i capelli o sgualciva un foglio di carta; non pronunciava, in tutta la sera, una sola parola; non rispondeva a nessuna delle nostre domande. Infine, di scatto, agguantava il cappotto e se ne andava. Umiliati, noi ci chiedevamo se la nostra compagnia l'aveva deluso, se aveva cercato accanto a noi di rasserenarsi e non c'era riuscito; o se invece si era proposto, semplicemente, di passare una serata in silenzio sotto una lampada che non fosse la sua. […]
Ci trattava, noi suoi amici, con maniere ruvide, e non ci perdonava nessuno dei nostri difetti; ma se eravamo sofferenti o malati, si mostrava ad un tratto sollecito come una madre. […]
Si era creato, con gli anni, un sistema di pensieri e di principi così aggrovigliato e inesorabile, da vietargli l'attuazione della realtà più semplice: e quanto più proibita e impossibile si faceva quella semplice realtà, tanto più profondo in lui diventava il desiderio di conquistarla, aggrovigliandosi e ramificando come una vegetazione tortuosa e soffocante. Era, qualche volta, così triste, e noi avremmo pur voluto venirgli in aiuto: ma non ci permise mai una parola pietosa, un cenno di consolazione: e accadde anzi che noi, imitando i suoi modi, respingessimo nell'ora del nostro sconforto la sua misericordia.
Non fu, per noi, un maestro, pur avendoci insegnato tante cose: perché vedevamo bene le assurde e tortuose complicazioni di pensiero, nelle quali imprigionava la sua semplice anima; e avremmo anche noi voluto insegnargli qualcosa, insegnargli a vivere in un modo più elementare e respirabile: ma non ci riuscì mai d'insegnargli nulla, perché quando tentavamo di esporgli le nostre ragioni, alzava una mano e diceva che lui sapeva già tutto. Aveva, negli ultimi anni, un viso solcato e scavato, devastato da travagliati pensieri: ma conservò fino all'ultimo, nella figura, la gentilezza d'un adolescente.
Diventò, negli ultimi anni, uno scrittore famoso; ma questo non mutò in nulla le sue abitudini schive, né la modestia della sua attitudine, né l'umiltà, coscienziosa fino allo scrupolo, del suo lavoro d'ogni giorno. Quando gli chiedevamo se gli piaceva d'essere famoso, rispondeva, con un ghigno superbo, che se l'era sempre aspettato: aveva, a volte, un ghigno astuto e superbo, fanciullesco e malevolo, che lampeggiava e spariva. […]
Diceva di conoscere ormai la sua arte così a fondo, che essa non gli offriva più nessun segreto: e non offrendogli più segreti, non lo interessava più. Noi stessi suoi amici, lui ci diceva, non avevamo più segreti per lui e lo annoiavamo infinitamente; e noi, mortificati d'annoiarlo, non riuscivamo a dirgli che vedevamo bene dove sbagliava: nel non volersi piegare ad amare il corso quotidiano dell'esistenza, che procede uniforme, e apparentemente senza segreti. Gli restava dunque, da conquistare, la realtà quotidiana; ma questa era proibita e imprendibile per lui che ne aveva, insieme, sete e ribrezzo; e così non poteva che guardarla come da sconfinate lontananze.
È morto d'estate. La nostra città, d'estate, è deserta e sembra molto grande, chiara e sonora come una piazza; il cielo è limpido ma non luminoso, di un pallore latteo; il fiume scorre piatto come una strada, senza spirare umidità, né frescura. [...] All'aperto, sotto gli ombrelloni a frange, i tavolini dei caffè sono abbandonati e roventi. Non c'era nessuno di noi. Scelse, per morire, un giorno qualunque di quel torrido agosto; e scelse la stanza d'un albergo nei pressi della stazione: volendo morire, nella città che gli apparteneva, come un forestiero.
Aveva immaginato la sua morte in una poesia antica, di molti e molti anni prima:
Non sarà necessario lasciare il letto.
Solo l'alba entrerà nella stanza vuota.
Basterà la finestra a vestire ogni cosa
D'un chiarore tranquillo, quasi una luce.
Poserà un'ombra scarna sul volto supino.
I ricordi saranno dei grumi d'ombra
Appiattati così come vecchia brace
Nel camino. Il ricordo sarà la vampa
Che ancor ieri mordeva negli occhi spenti.
[…]
(Il 27 agosto 1950, in una stanza d’albergo di Torino, Cesare Pavese si è tolto la vita. Questo uno stralcio del ricordo di Natalia Ginzburg, sua cara amica, in “Le piccole virtù”)