Conoscete il mio apprezzamento per Francesco Guccini. Il tempo astronomico ci ha donato l'arrivo della dea primavera: ma a volte non c'è corrispondenza tra la stagione esterna e quella che alberga, per un lungo momento, nel nostro cuore.
La vedi nel cielo quell' alta pressione, la senti una strana stagione? Ma a notte la nebbia ti dice d' un fiato che il dio dell' inverno è arrivato. Lo senti un aereo che porta lontano? Lo senti quel suono di un piano, di un Mozart stonato che prova e riprova, ma il senso del vero non trova?
Lo senti il perchè di cortili bagnati, di auto a morire nei prati, la pallida linea di vecchie ferite, di lettere ormai non spedite? Lo vedi il rumore di favole spente? Lo sai che non siamo più niente? Non siamo un aereo né un piano stonato, stagione, cortile od un prato...
Conosci l' odore di strade deserte che portano a vecchie scoperte, e a nafta, telai, ciminiere corrose, a periferie misteriose, e a rotaie implacabili per nessun dove, a letti, a brandine, ad alcove? Lo sai che colore han le nuvole basse e i sedili di un' ex terza classe?
L' angoscia che dà una pianura infinita? Hai voglia di me e della vita, di un giorno qualunque, di una sponda brulla? Lo sai che non siamo più nulla? Non siamo una strada né malinconia, un treno o una periferia, non siamo scoperta né sponda sfiorita, non siamo né un giorno né vita...
Non siamo la polvere di un angolo tetro, né un sasso tirato in un vetro, lo schiocco del sole in un campo di grano, non siamo, non siamo, non siamo... Si fa a strisce il cielo e quell' alta pressione è un film di seconda visione, è l' urlo di sempre che dice pian piano: "Non siamo, non siamo, non siamo..."
Vivo in un quartiere
di Palermo dove la dispersione scolastica è alta, il tasso di disoccupazione
elevato, il possesso di tre stanzette, per tante famiglie, un vero miraggio.
Anche in una zona così disastrata è comunque possibile scorgere segni di
speranza. Una speranza colorata: Centro Arcobaleno, così si chiama il luogo
dove Anna, missionaria laica, con l’aiuto di altre signore, accoglie i ragazzi
di strada, li fa giocare a calcetto, li aiuta a fare i compiti. Questo, di
giorno. Di sera si occupa dei barboni: offre coperte e un pasto caldo. A volte
li accoglie nel centro. A qualcuno, riesce persino a trovare un’occupazione.
Come a un ragazzo siriano, che ora lavora in un panificio. Questo ragazzo ogni
tanto torna a trovarla: la chiama “mamma Anna”. Perché i figli non sono
generati solo da utero e sperma, ma nascono nel nostro cuore.
Grazie Anna,
vergine e madre. Donna davvero speciale.
Veramente, poichè quest'anno è bisestile, la primavera è entrata ieri, alle 6 del mattino circa.
Comunque la data classica dell'equinozio primaverile è il 21 marzo. Onoriamo la ricorrenza con una poesia di Francesco Petrarca. Per i più pigri, inserisco anche la parafrasi e una sorta di commento.
Un abbraccio particolare alla mia Preside. Lei sa perchè.
Zefiro torna, e 'l bel tempo rimena
Zefiro torna, e 'l bel tempo rimena,
e i fiori e l'erbe, sua dolce famiglia,
et garrir Progne et pianger Filomena,
e primavera candida e vermiglia.
Ridono i prati, e 'l ciel si rasserena;
Giove s'allegra di mirar sua figlia;
l'aria e l'acqua e la terra è d'amor piena;
ogni animal d'amar si riconsiglia.
Ma per me, lasso, tornano i più gravi
sospiri, che del cor profondo tragge
quella ch'al ciel se ne portò le chiavi;
e cantar augelletti, e fiorir piagge,
e 'n belle donne oneste atti soavi
sono un deserto, e fere aspre e selvagge.
PARAFRASI
Zefiro ritorna e riporta il bel tempo
e fiori ed erbe, suo dolce seguito,
ed il garrire delle rondini ( Progne ) ed il canto dell'usignolo
( Filomena )
e primavera limpida e dai vividi colori.
Sembra sorridere la campagna e il cielo si rasserena:
Giove si rallegra di vedere la luce di Venere più luminosa
l'aria, le acque e la terra sono attraversate dall'amore
ogni essere vivente si dispone ad amare
Per me infelice ritornano i più dolorosi
tormenti, che dal profondo del cuore muove
colei che al cielo se ne portò le chiavi;
il canto degli uccelli, il fiorire dei piani,
i delicati gesti di belle e decorose donne
sono (per me) un'arida realtà, come fiere crudeli e selvagge.
Il sonetto si regge sull'antitesi del ritorno alla primavera ( stagione della vita e della gioia ) che porta con sé serenità ed amore, che pervadono tutta la natura e l'isolamento mesto e doloroso del poeta. Da tale serenità è escluso chi vive l'abbandono dovuto alla morte della donna amata; anzi la gioia che attraversa la natura accentua dolorosamente il contrasto. Il tema del mancato rispecchiamento nella bellezza del paesaggio e della corrispondente chiusura nell'intimità pensosa e mesta diventerà un topos della lirica di ispirazione petrarchesca. Un'altra caratteristica della composizione è data dalle personificazioni - di ascendenza classica - di forze della natura, operate attraverso i miti classici di Progne e Filomena, di Giove e di Venere, dea dell'amore.
Oggi è anche la Giornata mondiale dedicata alle persone con Sindrome di down.
Il film "L'ottavo giorno" tratteggia in modo delicato il particolare legame che nasce tra un ragazzo "speciale" che si chiama George, ed un manager di nome Harry. Il destino fa incontrare queste due vite e paradossalmente sara' Harry ad imparare da George il valore dell'amicizia e a scoprire tanti aspetti della vita che non conosceva.
A Palermo, via san
Ciro è un budello di strada, che accoglie, all’incrocio con via Brancaccio, il
busto marmoreo di padre Pino Puglisi: un tempo parroco proprio della chiesa di
san Gaetano, posta di fronte. Don Puglisi seppe dire i suoi no: per questo Cosa
nostra lo costrinse a indossare la veste
rossa del martirio.
Giorni fa, in questo
sputo di strada che anche in condizioni ottimali dovrebbe essere percorsa a
senso unico alternato, qualcuno posteggia in doppia fila. Risultato: una fila
di automobili ferme per 20 minuti, finchè la macchina non viene spostata. Così
mi trovo a constatare che i mali della mia città sono davvero molteplici: c’è la
mafia assassina che ci ha lasciato orfani di don Puglisi. Ma ci sono anche
l’arroganza, la mancanza di senso civico, la strafottente superficialità: un
gradino minori rispetto alla mafia, ma onnipresenti. Mali che la percorrono a
senso unico, questa città.
Maria
D’Asaro (pubblicato su “Centonove” il 9.03.2012)
- Chi
sente più freddo, tu o il cagnolino? – chiedevi alla ragazzina che teneva la
bestiola tra la giacchetta e il suo petto, mentre in quel ventoso martedì di
marzo ti fermavi per strada, affannata, percorrendo gli ultimi passi verso lo
studio medico che avrebbe diagnosticato l'infarto mortale.
Già, il freddo... Tu e io lo pativamo un casino. Ma il nostro
era anche un freddo interiore. Incurabile con le coperte.
Un po’, mi sei sempre mancata. Quando ero
bambina, eri sempre al lavoro, all’ufficio postale. A casa, la sera, avevi
mille cose da fare. Avevi pensieri nascosti, desideri abbozzati, troppi dolori...
Non riuscivo a toccarti e a farmi toccare. Avrei dato chissà cosa per vederti
sorridere. Ti avrei voluto diversa: in
salute, allegra, “leggera”.
Quando papà è morto, ho cominciato a
considerarti mia figlia. Ero in pena per te, sola in una casa ormai troppo
grande. Temevo che morissi di notte, all’improvviso. Sarei voluta stare al tuo
fianco, come se tu fossi stata la mia piccolina di cui ascoltavo il respiro, vicino
alla culla. Ero in pena per il caldo che ti opprimeva d'estate … quando il
vento soffiava forte d'inverno e il suo ululato insinuante ti metteva paura … per la bestia cattiva della
glicemia che ti faceva soffrire.
Certo, eravamo diverse: tu ricca di senso
pratico e coi piedi per terra, io sognatrice e vogliosa di cambiare il mondo;
tu coraggiosa e decisa, io incerta su tutto; tu immediata e sincera a costo di
apparire dura e persino brutale, io, che glissavo e mediavo all'inverosimile.
Ma chi può dire com'eri veramente? Forse
ti tenevo in prigione nell'idea che di
te mi ero fatta e da quella gabbia invisibile non ti facevo fuggire.
Quando te ne sei andata, ho scoperto che
la tua sicurezza non era poi così granitica: le tue tante lettere mi hanno
fatto capire che parlare con qualcuno era per te un'urgenza dolorosa, un
bisogno quasi spasmodico. La tua solitudine non scelta cercava disperatamente
di essere consolata.
Non eravamo poi così diverse: la tua voglia di
comunicare, il tuo amore per i libri, la tua voglia di ascoltare, la tua
curiosità di capire – che tenera quando mi hai chiesto chi fossero i gay e i
transessuali - i tuoi giudizi azzeccati,
la tua autonomia di giudizio … tutto questo forse ci legava più di quanto io
immaginassi e sperassi.
Eppure non ti ho mai parlato di me: un
inconfessato pudore me lo ha impedito ... ti escludevo dal mio mondo perchè temevo di
non essere capita. E perché non volevo farti soffrire.
Mi manchi. Mi manca la tua voce.
Mi manca il sugo di pomodoro, che con rara
perizia preparavi d'estate.
Mi manca lo scambio continuo di sacchetti
tra la tua casa e la mia: provviste per me, barattoli vuoti per te. In un ciclo
che speravo non avesse mai fine.
Mi mancano le piccole, innumerevoli cure
che avevi per me e i bambini
Mi mancano i tuoi rammendi amorevoli. Che
lenivano non solo le lacerazioni dei tessuti, ma anche le mie ferite interiori.
E rattoppavano le maglie slegate dei miei pensieri, nutrendo il mio bisogno
d'affetto.
Non c'eri, ma c'eri. Ora porto con me la
fatica di dover essere madre ogni giorno, senza essermi potuta saziare di
essere figlia.
A volte la sera ti penso. Ti penso
sigillata per sempre nella tomba del nonno, con l'angioletto che tende le mani
al cielo. Non riesco a capire che senso abbia il tutto.
Una cosa mi hai trasmesso, con convinzione:
"il pollice verde".
In quel fazzoletto del nostro balcone, da bambina
osservavo con quanta sapienza curavi le piante. Così ho imparato ad amarle. E
ho continuato a curarle, anche quando sono rimasta da sola.
Ho una speranza segreta: che tu sia stata portata
in un'altra terra, in un altro bel posto, e che adesso possa godere di un’altra
luce. E di altro calore. Che tu, almeno tu, non senta più freddo.
(Vi assicuro che, con questo scritto, concludo la mia trilogia dedicata alle donne...)
“A voi femmine
la patente dovrebbe essere strappata in mille pezzetti” – così mi ha apostrofato
un passante perché, a causa di un’automobile in seconda fila, ho impiegato
qualche istante di troppo nel calcolare lo spazio tra la mia macchina e quella
che stavo incrociando. La cosa che mi ha più ferito non è stata la frase, pur
ingiusta e pesante (guido da oltre trent’anni: tranne qualche banale
tamponamento, sino a oggi non ho causato danni a nessuno), ma il fatto che la
donna che stava accanto a quell’uomo abbia accompagnato la frase con un
complice sorriso. Ora, non voglio enfatizzare l’accaduto dando troppo peso a un
antifemminismo di maniera purtroppo diffuso a Palermo, ma a quella donna che ha
fatto da spalla all’insulto nei miei confronti, vorrei dire qualcosa. Alla
fine, tutto ritorna: se non sta all’erta, il signore un giorno la patente di
donna vorrà strapparla anche a lei.
La donna usci' dalla costola dell'uomo. Non dai piedi per essere calpestata, ne' dalla testa per essere superiore. Ma dal lato per essere uguale, sotto il braccio per essere protetta e accanto al cuore per essere amata.
(W.Shakespeare)
Ecco il nostro caro Angelo (Branduardi) con queste parole che esaltano ... l'altra metà del cielo.
E infine il ricordo di una donna antesignana della volontà di uguaglianza profonda e sostanziale tra gli esseri umani, Olympe de Gouges, attraverso il bel post dell'amico DOC (che ringrazio):
Alla vigilia dell'8 marzo, ecco le riflessioni del solito, da me apprezzatissimo, Michele Serra.
Fa male sentire che qualche tigì chiama ancora "delitto passionale" mattanze come quelle di Brescia, dove un maschio reso feroce dalla sua demenza, o reso demente dalla sua ferocia, uccide una donna che considera "sua" e non lo vuole più. E come contorno della sua orribile esecuzione ammazza altre tre persone (due delle quali ventenni) che avevano per sola colpa essere prossimi alla vittima: amico, figlia, fidanzato della figlia. Perché gratificare di "passione" questo nazismo maschile che ogni anno produce, solo qui in Italia, un vero e proprio olocausto di femmine soppresse solo perché non vogliono più appartenere (come bestie, come cose) a un padrone, e per giunta un padrone violento? "O mia o di nessuno", dice il boia di turno, ed è la perfetta sintesi di una cultura arcaica e mostruosa che - esattamente come il movente razziale - dovrebbe costituire un´aggravante, in un paese civile.
Mentre l´aggettivo "passionale" rimanda, purtroppo, a una sorta di attenuante, quasi di "spiegazione": e fino a una generazione fa, qui in Italia, era di fatto un´attenuante giuridica. Levato dai codici quell´infame eufemismo che erano le "ragioni di onore", rendiamo onesto, veridico anche il linguaggio giornalistico. Passione e amore non c´entrano, c´entrano il potere, il terrore di perderlo, l´odio della libertà.
(Se avessi dovuto scrivere io un’orazione funebre per Lucio Dalla, l’avrei scritta quasi con queste stesse parole utilizzate da Michele Serra, venerdì 2 marzo, su “La Repubblica”.
Ciao, Lucio: grazie. Ti voglio bene.)
Il 1° marzo in Italia, verso le undici del mattino, improvvisamente Lucio Dalla ha cominciato a cantare ovunque: nelle case, negli uffici, nelle automobili, per strada. Non è una metafora. È accaduto davvero. La sua voce che sa essere insieme roca e limpida, negra e pucciniana, invadeva le città.
Minuto dopo minuto, mentre la notizia della sua morte si irradiava per capillarità in tutto il paese, dai computer, dai palmari, dagli iPod, dai milioni di minime scatole che custodiscono in pochi centimetri tutta la musica del mondo, le canzoni di Dalla hanno cominciato a sgorgare come acqua, come lacrime. Senti che bella questa, questa non me la ricordavo, guarda che la migliore è questa, ora ti faccio sentire io la più bella di tutte (...)
Il lutto per un grande artista popolare è anche questo risentirsi comunità, ritrovare memoria, confrontarla con la memoria degli altri, e sorprendersi di quante cose, in questo disperso e faticoso evo, ancora ci legano e ci fanno commuovere (muovere insieme). Nessuno e niente, come un cantante e le sue canzoni, è arte popolare ed è memoria. Uno come Dalla, poi, ha avuto il rarissimo talento di riuscire a essere "alto" e "basso", colto e popolare, sperimentale e classico, difficile e facile come nessun altro. Così da toccare il pubblico tutto intero, dalla testa ai piedi. Critica e grande pubblico. Intellettuali e popolo. Gusti raffinati e bocche buone.
Proprio per questo, tra i nostri grandi cantautori, Dalla è il più imprendibile, il meno classificabile. Artisticamente. Politicamente. Umanamente. Era curioso di tutto e non si è negato niente. (...)L'assenza otale di snobismo (era troppo sicuro di sé per temere la banalità) gli consentiva una libertà di scelta davvero unica, un naturale anticonformismo. Poteva scrivere una canzone pensando a come l´avrebbe ascoltata Claudio Abbado e un´altra pensando a come l´avrebbe ascoltata un operaio su un´impalcatura. Anche in privato, sapeva passare dal sublime al goliardico con una destrezza sconcertante: l´aggettivo che gli si adatta di meno, nell´arte come nella vita, è "noioso". Non lo è stato mai. Parte integrante di questa duttilità fantastica, di questo inesauribile sperimentare ma sempre al riparo da ogni sperimentalismo, era il suo tratto umano. Lucio era forte della sua curiosità per gli altri, la vita degli altri, l´arte degli altri. Sentiva molta musica, andava a teatro, leggeva, parlava poco del proprio lavoro, molto di quello altrui. Questa estroversione, nel mondo dello spettacolo che è parecchio narciso, è materia molto rara. Non si contano i cantanti, gli artisti di teatro e di cinema, gli scrittori che hanno ricevuto una telefonata di Lucio che aveva urgenza di comunicare interesse, gratitudine o entusiasmo per il loro lavoro.
Appassionato di mille cose – dall´arte contemporanea agli studi michelangioleschi – è morto senza che la sua vita di uomo e artista avesse dato segno alcuno di flessione o di resa. Era vivo, febbrile, entusiasta, più forte delle sue malinconie e dei suoi complessi, vincitore (di gran lunga) anche di se stesso, della sua infanzia difficile, di una lunghissima gavetta (il successo vero arrivò quasi a quarant´anni), di un´identità sessuale complicata, di una malattia invalidante, di un aspetto fisico non aitante spesso da lui rivoltato in scherzo e in gioco (i parrucchini assurdi, la trasandatezza ostentata).
Giorgio Bocca, cogliendone l´energia creatrice, lo descrisse "simile al dio Efesto, peloso, fuligginoso, gradevolmente deforme, che si muove rapido, come il grande fabbro, fra le macchine da lui create, gli scatoloni magici da cui escono le voci". Che Lucio non ci sia più è sorprendente, ingiusto come ogni morte, ma più ingiusto ancora se si considera che il piccolo uomo irsuto, intelligente, fantasioso, generoso, amichevole, ci era così prossimo da non riuscire proprio a immaginarlo così lontano. Le sue canzoni sono rimaste qui, per nostra fortuna e privilegio, e nessuno riuscirà a strapparcele mai di mano. Le mie preferite sono "La sera dei miracoli" e "Com´è profondo il mare". Ma certo ne dimentico qualcuna di formidabile, che ora sta veleggiando da qualche parte, tra i muri di Roma o di Bologna o di Palermo o di Trento o di altrove.
Lei:
grassottella, con una giacca rosso brillante, capelli lisci imbiancati,
raccolti in uno chignon trattenuto da un mollettone adeguato. Le rughe dicono
circa 80 anni. Lui: stessa età, asciutto e smilzo, un pull azzurro, pantaloni e
giacca di vetusto fustagno marrone. Sono nello scompartimento di un treno,
seduti uno di fronte all’altra. Lei sta sferruzzando con grande maestria: i
“busi” sottili intrecciano quella che pare una calza da notte colore del cielo.
Che siano sposati lo dicono le “fedi” in bella evidenza nei loro anulari
sinistri e il fatto che lui le porge con paziente cadenza il filo di lana.
Intuisci che i due avranno intessuto con
uguale e sapiente costanza la loro lunghissima unione. Dentro di te sorge una
benevola invidia: non tutti saremmo capaci di mostrare così, su di un treno,
nozze tanto consolidate e tenaci. Col tintinnio di uno sferruzzare leggero,
come unica, umile musica di sottofondo. Maria D’Asaro, “Centonove”, 2.03.2012