mercoledì 30 gennaio 2019

Migranti, Noi/Loro: un approccio nonviolento



      Il 30 gennaio 1948, a Nuova Delhi, mentre si recava nel giardino per la consueta preghiera, Mohandas Gandhi venne assassinato con tre colpi di pistola  da un fanatico indù. 
Gandhi, noto con l’appellativo di Mahatma (grande anima), non ha bisogno di presentazioni.

       Chi non dovesse avere letto niente di lui, può vedere il bellissimo film del 1982, Gandhi, diretto  da Richard Attenborough e interpretato da Ben Kingsley. Oppure leggere la sua biografia ben curata su Wikipedia









Sono grata al caro amico Andrea Cozzo, professore ordinario di Greco all’Università degli Studi di Palermo e studioso ed esperto di teoria e pratica della nonviolenza, per le seguenti considerazioni sulla questione migranti e per la proposta finale, concreta e nonviolenta (dalla sua pagina FB):

Prof. Andrea Cozzo
 (UN’ANALISI:) Per chiarire, in questo post, ‘Loro’ sono quelli che vogliono lasciare in mare i migranti, non soccorrerli o soccorrerli ma non farli sbarcare sul suolo italiano; ‘Noi’ sono coloro (me compreso) che vogliono soccorrerli e farli sbarcare sul suolo italiano. Al di là di ogni idea (vera o presunta tale) che mette meccanicamente gli uni dalla parte dei “razzisti” e gli altri dalla parte dei “buonisti”, in ultima istanza i primi sostengono la loro posizione ricorrendo alla nozione di Ragion di Stato e i secondi a quella di Diritti Umani. Dopo secoli, ecco di nuovo Creonte e Antigone. 
       Provo ad impostare la questione all’interno della teoria della nonviolenza. È possibile andare oltre le posizioni espresse dalle due parti, per individuare i loro reali bisogni e cercare soluzioni condivise? È possibile non insultarsi e accusarsi reciprocamente ma reciprocamente riconoscersi come “umani”? È possibile innanzitutto ascoltarsi?
Sia ‘Loro’ sia ‘Noi’ concordano che quello delle migrazioni è un problema di immani dimensioni. Poi ‘Loro’, dando rilievo all’aspetto quantitativo, dicono che l’Italia non può farsi carico di tutti i migranti che vi sono diretti e vogliono che sia l’Europa intera ad occuparsi del problema; “Noi”, dando rilievo all’aspetto qualitativo, dicono che le persone non possono essere lasciate soffrire (o annegare) in mare e vogliono che l’Italia le salvi e offra loro un riparo.
        Entrambe le esigenze mi sembrano sacrosante: è sul piano delle soluzioni concrete che si crea l’opposizione tra le due parti, non su quello del riconoscimento dell’esistenza di un problema. Dunque la differenza si dà in relazione alla gestione delle migrazioni, e sottolineare esclusivamente la giustezza ideale della propria esigenza non favorisce il dialogo e la possibilità di giungere ad una soluzione condivisa.
       Perché le persone non soffrano in mare (come facilmente ‘Loro’, che adesso indugiano a salvarle, vorrebbero se avessero tra queste i loro figli o genitori o fratelli o sorelle) e perché la gestione dei loro problemi sia presa in carico da tutta l’Europa (come facilmente ‘Noi’, che adesso si limitano all’emergenza, vorrebbero in vista di una soluzione del problema complessiva e ‘a monte’),
 è urgente, arrivare ad una composizione.
         Se le due parti si ascoltassero reciprocamente rinunciando a combattere l’una contro l’altra e si mettessero l’una accanto all’altra, potrebbero mettere in pratica un’idea come quella che segue.

(PARS CONSTRUENS:) I rappresentanti istituzionali potrebbero da un lato fare sbarcare i migranti e dare loro aiuto e ristoro e da un altro, al contempo, mostrare di stare in mezzo a loro e vivere come loro, e/o recarsi davanti al Parlamento Europeo e fare lì un sit-in, possibilmente accompagnato da un digiuno, per chiedere (ad esso per quel che lo concerne ufficialmente, e/o ai rappresentanti dei vari Paesi per quel che concerne di fatto i loro Governi) di prendere immediatamente in considerazione il problema: se io fossi il ministro Salvini (per evocare il nome istituzionale rappresentativo dell’intera faccenda in Italia), è questo ciò che farei.
Se non fossi (come effettivamente non sono) il ministro Salvini, almeno gli chiederei di volere seguire questa modalità di azione e gli garantirei la mia partecipazione al digiuno e in nome del senso di umanità chiederei a tutti gli Italiani, di qualsiasi posizione politica, di sostenere tale iniziativa allo stesso modo (o con altri). ‘Noi’ potrebbero organizzare sit-in e manifestazioni in tutto il Paese, non per Salvini, ma accanto a Salvini, per la gestione europea del problema delle migrazioni. 
Impossibile? Non credo.
Per fare sentire al terrorismo islamico, estraneo alla ‘nostra’ cultura e perciò destinatario solo virtuale, l’unità del corpo che esso aveva voluto colpire, i ‘Noi’ sono stati capaci di organizzare l’imponente manifestazione “Je suis Charlie Hebdo”, e adesso non sarebbero in grado di organizzare (anzi nemmeno di concepire) un’analoga manifestazione “Io sono tutte le persone migranti” destinata alle nostrane istituzioni europee?
                                   Attendo osservazioni con cui confrontarmi. Grazie.

                                                                                               Andrea Cozzo

domenica 27 gennaio 2019

Ebrei a Palermo: un libro per ricordare


(Dal giornale on line: Il Punto Quotidiano)

        Il 27 gennaio 1945 l’ingresso dei soldati russi ad Auschwitz pose fine alle atrocità dei lager nazisti. Ecco la toccante descrizione di Primo Levi, testimone storico dell’evento, dal suo libro “La tregua”: “Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo (…). A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo. (…) Quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo”.
      Purtroppo l’olocausto nazista è stato il culmine orrendo delle tante persecuzioni a cui, nei secoli, sono stati sottoposti gli Ebrei nei vari stati europei. Dalla Sicilia, allora possedimento spagnolo, gli ebrei furono infatti espulsi a seguito dell’editto firmato a Granada il 31 marzo 1492 dai sovrani spagnoli Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia: ce lo racconta con esemplare chiarezza espositiva Francesco D’Agostino nel libro La Meschita. Il quartiere ebraico di Palermo (Ed. Kalòs, Palermo, 2018, €12), ottimamente curato per la parte fotografica da Sandro Riotta. Evelyne Aouate, attuale Presidente dell’Istituto Siciliano di Studi Ebraici, nella presentazione del volume ci ricorda che: “Gli ebrei hanno abitato l’isola per quindici secoli e al momento della cacciata costituivano il 5% della popolazione, ed erano perfettamente integrati nel tessuto sociale ed economico”. Infatti “a partire dalla dominazione araba e nell’arco di circa sei secoli, fiorirono numerosi insediamenti in tutta l’isola (ben 51)”. A Palermo gli ebrei edificarono intorno all’anno Mille un loro quartiere, chiamato Giudecca, e suddiviso in due zone: la Meschita e la Guzzetta, quartiere posto tra la via Maqueda e la via Roma, intorno ai Quattro Canti cittadini. La zona della Meschita era caratterizzata dalla presenza della sinagoga (chiamata appunto Meschita, secondo l’uso siciliano), dal mikveh, luogo del bagno rituale per la purificazione,dalle scuole, dall’ospedale; mentre la Guzzetta era la zona delle attività commerciali e produttive.
       “L’editto del 1492 – evidenzia D’Agostino – aveva tra i suoi obiettivi l’acquisizione dei beni degli ebrei, allo scopo di ripianare le forti perdite economiche determinate dalla guerra contro i mori.” Ma “Se l’espulsione fu, nell’immediato, un eccezionale successo politico della nascente monarchia spagnola e della Chiesa (…) a lungo andare essa si rivelò una catastrofe per l’economia, la cultura e il successivo sviluppo della Sicilia. (…) In un sol colpo vennero a mancare abili artigiani, fini intellettuali e un considerevole patrimonio librario fu irrimediabilmente disperso. Di fatto la Sicilia perse la possibilità di sviluppare all’interno del proprio tessuto sociale una borghesia efficiente e illuminata, in qualche modo staccata dai poteri forti dell’aristocrazia e della Chiesa”.
        Quindi - annota ancora l’autore - dal sedicesimo secolo in poi, la quasi totale cancellazione delle comunità ebraiche a sud di Roma portò la presenza degli ebrei in Italia esclusivamente nell’Italia settentrionale, privando il sud d’Italia dell’opera preziosa di “uomini dotti e illuminati, valenti medici, prestatori di denaro, artigiani e mercanti”. Così purtroppo, nel corso dei secoli successivi, della presenza ebraica in Sicilia si è perso il ricordo; e anche l’esistenza della Giudecca a Palermo è ignota oggi alla gran parte dei palermitani.
      Ma, conclude Francesco D’Agostino: “Le vie della Storia, che attraversano lo spazio e il tempo degli uomini, possono talvolta somigliare a un fiume carsico, che inabissandosi, può poi riapparire improvvisamente”: il 30 giugno 2015 l’allora Rettore dell’Università di Palermo Professore Lagalla ha reso omaggio ai Docenti espulsi dall’Università di Palermo a causa delle leggi razziali promulgate dal fascismo (tra essi Emilio Segre, che sarà insignito nel 1959 del premio Nobel per la Fisica) scoprendo una lapide a Palazzo Steri. 
     E infine l’8 settembre 2017 l’arcivescovo di Palermo, mons. Corrado Lorefice ha donato ai massimi esponenti dell’UCEI (Unione Comunità Ebraiche Italiane) la chiave dell’Oratorio del Sabato, dove – dopo ben 524 anni – sorgerà nuovamente la Sinagoga ebraica di Palermo. Per tale importante gesto di riconciliazione  la Fondazione Raoul Wallenberg ha insignito l’arcivescovo di Palermo della prestigiosa medaglia di “Giusto delle Nazioni”.  
Maria D’Asaro, 27.1.19 Il Punto Quotidiano

venerdì 25 gennaio 2019

Giulio Regeni: giustizia per un figlio di madre

Giulio con mamma Paola
             Quello che colpisce, di mamma Paola e di papà Claudio, è la composta fermezza del loro dolore.
           Paola va avanti, nonostante “Tutte le notti torni alla mia mente un'immagine di Giulio che sovrappongo a quella di lui felice e sorridente. Sul volto del cadavere di mio figlio ho visto tutto il male del mondo. L'unica cosa che ho ritrovato di Giulio è stata la punta del suo naso. Mai avrei immaginato di riconoscerlo da quel dettaglio".
        Papà Claudio ci ha raccontato che l'impegno sociale del figlio è iniziato come sindaco del governo dei giovani di Fiumicello, quando aveva solo 12 anni. A 17 si è recato in New Mexico per studiare al Collegio del Mondo Unito, dove ha vissuto con coetanei di 80 nazioni del mondo. Successivamente si è recato in Inghilterra, ha studiato l'arabo ed ha vissuto per un anno al Cairo per conoscere a fondo la cultura egiziana:  “Giulio era un ragazzo del mondo". (da qui)

      Ci manca da tre anni, Giulio Regeni, orribilmente ucciso in Egitto, tra fine gennaio e inizio febbraio 2016. Con lui, ci mancano verità e giustizia sul suo assassinio. 
      Se fossi sua madre, chiederei che, per protesta, nessun figlio di madre andasse a studiare in Egitto. 
     E che nessuno  vi  passasse le vacanze, finché il governo egiziano non riconoscerà  le sue responsabilità e non chiederà  scusa per questo figlio di madre sottratto al suo futuro e ai suoi affetti. E all’Italia intera.

giovedì 24 gennaio 2019

Guido Rossa, questo è un uomo

Guido Rossa con la figlia
        Guido Rossa  è stato un operaio e sindacalista italiano, assassinato durante gli anni di piombo dalle Brigate Rosse.  Operaio di origine veneta (…), iscritto al Partito Comunista Italiano, è sindacalista della CGIL all'Italsider di Genova-Cornigliano. Rossa era anche un esperto alpinista: uno dei principali componenti del "Gruppo alta montagna" del CAI Uget di Torino (…).
Nel 1978, presso la macchinetta distributrice di caffè dello stabilimento Italsider di Genova spesso si ritrovano depositati dei volantini delle Brigate Rosse furtivamente lasciati per scopi propagandistici. Guido Rossa nota che l'operaio Francesco Berardi (...) si trova spesso nelle vicinanze del distributore. Il 25 ottobre 1978 gli operai trovano una copia dell'ultima risoluzione strategica brigatista, sempre vicino alle macchinette; Guido nota un sospetto rigonfiamento sotto la giacca di Berardi, si reca negli uffici della vigilanza aziendale per segnalare il fatto  (…) e decide di denunciare l'uomo, mentre gli altri due delegati si rifiutano, lasciandolo solo. Francesco Berardi cerca inutilmente di fuggire ma viene fermato dalla vigilanza della fabbrica; si dichiara subito prigioniero politico, viene consegnato ai carabinieri e arrestato. Guido mantiene la denuncia e testimonia al processo (…).
      Il 24 gennaio 1979 alle 6:35 del mattino, Guido Rossa esce dalla sua casa in via Ischia 4 a Genova per recarsi al lavoro con la sua Fiat 850. Ad attenderlo su un furgone Fiat 238 parcheggiato dietro c'è un commando composto da Riccardo Dura, Vincenzo Guagliardo e Lorenzo Carpi. I brigatisti gli sparano uccidendolo. È la prima volta che le Brigate Rosse decidono di colpire un sindacalista organico alla sinistra italiana e l'omicidio sarà seguito da una forte reazione da parte di partiti e sindacati e della società civile, in particolare quella legata al Partito Comunista.
      Al funerale, cui partecipano 250.000 persone, presenzia il Presidente della Repubblica Sandro Pertini in un'atmosfera molto tesa. Dopo la cerimonia Pertini chiede di incontrare i “camalli” (gli scaricatori del porto di Genova). Racconta Antonio Ghirelli, all'epoca portavoce del Quirinale, che il Presidente era stato avvisato che in quell'ambiente c'era chi simpatizzava con le Brigate Rosse ma che Pertini rispose che “proprio per quello li voleva incontrare”. Il Presidente entrò in un grande garage pieno di gente, “saltò letteralmente sulla pedana” e con voce ferma disse: “Non vi parla il Presidente della Repubblica, vi parla il compagno Pertini. Io le Brigate Rosse le ho conosciute: hanno combattuto con me contro i fascisti, non contro i democratici. Vergogna!”. Ci fu un momento di silenzio, poi un lungo applauso. (…) Da Wikipedia

(…) Ha detto lo storico Giovanni De Luna: “Erano nate (le Brigate Rosse, n.d.r.) per difendere gli operai e ora uccidevano un operaio che in quanto sindacalista difendeva i diritti dei suoi colleghi. Il senso, allora, era la progressiva disumanizzazione, un capovolgimento delle iniziali intenzioni che alla fine si definiscono solo ed esclusivamente all’interno di quella che possiamo definire una terrificante pedagogia mortuaria: ammazzano per lanciare messaggi. Prima ammazzano i simboli, i carabinieri, i magistrati, i giornalisti, poi i terroristi pentiti, dopo ancora i familiari dei terroristi pentiti. Alla fine non c’era altra motivazione che la morte per la morte. E quell’eccesso di corteggiamento della morte determinò la fine delle Br e la ripulsa che il Paese espresse nei loro confronti”.
Rossa era un uomo coraggioso ucciso perché impegnato, coerentemente, a denunciare l’azione di propaganda (e quindi di arruolamento) svolta dalle Brigate Rosse attraverso un compagno di lavoro nella fabbrica in cui lui era anche rappresentante sindacale, l’Italsider. Lo avevano eletto quasi all’unanimità nove anni prima, nel 1970. Lo stimavano perché persona integerrima. Una integrità morale che pagò con la vita. La vicenda cominciò proprio con la denuncia di Francesco Berardi, “il postino” delle Brigate Rosse, uno di quei “pesci nell’acqua” a cui i terroristi in clandestinità si affidavano per portare all’esterno i propri “materiali ideologici”.  (…)
Guido Rossa in montagna
     Erano anni complicati per il sindacato e in particolare per la Flm. I leader dell’organizzazione sottovalutarono inizialmente il problema escludendo che quella propaganda potesse incontrare consensi all’interno della fabbrica. Ma pian piano cominciarono a prendere atto che quello del lavoro non era un “mondo a parte”, che il terrorismo aveva anche lì una sua base, per quanto limitata, di consensi e coperture. (…)
       Ai delegati, ai consigli di fabbrica i vertici di Cgil, Cisl e Uil chiesero di vigilare e di denunciare. Esattamente quello che fece Guido Rossa. (...) L’operaio-fiancheggiatore venne arrestato, processato per direttissima (si dichiarò prigioniero politico) e condannato a quattro anni e sei mesi di reclusione per partecipazione a banda armata, associazione sovversiva e pubblica istigazione. Guido Rossa fu l’unico che ebbe il coraggio di testimoniare. 
E con quella scelta firmò la sua condanna a morte.  (…)
              Quell’assassinio, come ha sottolineato De Luna, aveva una funzione perversamente pedagogica, ben sintetizzata nel trucido slogan “colpirne uno per educarne cento”. Si voleva, con il terrore, evitare che altri potessero seguire la strada di Rossa; si voleva creare terra bruciata intorno al sindacato, separarlo dalla sua “base”. 
            Altre vittime innocenti avrebbero pianto le organizzazioni dei lavoratori (ad esempio, l’economista Ezio Tarantelli, anche lui comunista, consulente della Cisl e grande amico di Pierre Carniti), ma quell’agguato mortale in via Fracchia ebbe esattamente l’effetto opposto rispetto a quello che i terroristi speravano di suscitare perché quei sei colpi non separarono i lavoratori dal sindacato, ma convinsero anche quei pochi in qualche misura sensibili alle lusinghe propagandistiche dei terroristi che quella era una strada senza sbocco e senza ritorno.
          L’omicidio di Guido Rossa, forse più ancora dell’uccisione di Moro e della sua scorta, segnarono per le Br l’inizio della fine perché emerse con chiarezza la follia di un messaggio che induceva chi dichiarava di usare la violenza in nome del popolo, a sparare contro un “figlio del popolo”.
Valentina Bombardieri, da qui



martedì 22 gennaio 2019

Sono solo cose ...

Mosca, agosto 2018 - Particolare da un giardino
         (Riflessione pubblicata sulla sua pagina FB da Ettore Zanca, che ringrazio)

           "Quando a casa mia si rompeva qualcosa, specie di affettivamente essenziale, spesso i miei dicevano una frase: “sono cose”. Per sottolinearne la natura fragile e fallace e il fatto che spesso, per fortuna, le cose non ci sopravvivono.
          Le cose. Però spesso smuovono anche l’anima più allenata all’orrore. Gli antropologi forensi, quelli che analizzano come è morta una persona, per dargli nome e sepoltura, non si emozionano facilmente di fronte al corpo. Quella è tecnica. Non si emozionano ai fluidi che colano, nemmeno all’espressione che, per esempio, nei morti di naufragio è sempre la stessa o quasi. Non si emozionano nemmeno di fronte alla striscia bianca che ne contorna la parte superiore del labbro. Quella spesso è schiuma. Che rimane addensata perchè chi annega spesso urla, anche sott’acqua, creando questo effetto strano che, se non si parlasse di morte, sembrerebbe panna montata.
               No. Loro si emozionano davanti alle cose. Sono quelle che raccontano, perché, stavolta sì, sono sopravvissute al loro proprietario e ne svelano segreti, cammino percorsi e dolori.  (…)
              C’è una storia raccontata da Cristina Cattaneo, patologa forense che si occupa di dare un nome ai naufraghi del grande cimitero del Mediterraneo, un binario parallelo. Dopo un naufragio, quello rovinoso e pesante del 2013, fu ripescata una donna dai lineamenti molto belli. Nonostante la tragedia, l’espressione era distesa. Giaceva sul tavolo e accanto a lei, i suoi oggetti. Una borsa tradiva i suoi vezzi, pochi, come attaccare un bel foulard al manico. In un barcone non puoi portare molto. Per cui la scelta deve rappresentare, in tutto. Aveva delle treccioline agghindate da mani sapienti. E quella schiuma sul labbro superiore, aveva gridato. Dentro i suoi indumenti, un foglio. Era dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite. Il foglio recitava che la donna era proveniente da un paese in guerra, che verosimilmente era stata sottoposta anche a torture e vessazioni e che pertanto, una volta presa in cura da altre nazioni, la sua posizione sarebbe dovuta essere oggetto di attenta valutazione, senza procedere a rimpatri o respingimenti immediati. Quella lettera era la sua salvezza una volta messo piede a terra.
                Spostiamo la telecamera e andiamo a Linate. Siamo nel 2001. Un aereo di linea finisce contro un Hangar dopo aver investito un piccolo aereo privato. Prende fuoco. Centodiciotto vittime. Il più alto disastro aereo in Italia. Una giovane ragazza deve essere identificata. Accanto a lei uno zaino bruciato ma consultabile. Dentro una agenda vezzosa, stelline, cose, cose, scritte a matita, impegni. Il suo nome e degli indirizzi. Le sue cose, la sua vita dinamica e in viaggio. Troncata. Nel giro di poco tempo, i presunti genitori mandarono impronte dell’arco dentario, tracce di dna, provvidero a prendere il corpo e portarlo via. Ora giace in un cimitero della Scandinavia.
           Il corpo della ragazza eritrea, con dei fogli scritti in tigrino, non ha ancora un nome. Lo hanno chiamato Teraje perchè da qualche traccia scritta sembrava quello. Giace in una tomba senza nome in Sicilia. Insieme al suo salvacondotto verso la libertà. 
Non ha più quella schiuma bianca sul labbro superiore. Non grida più. 
           Storie. E persone. Incroci di sorti che, anche dopo, a volte sono rimesse alla fortuna. E alle cose. (…)"
                                                                                                                                  Ettore Zanca

domenica 20 gennaio 2019

Anna e Umberto, insieme no alla mafia

           (da: Il Punto Quotidiano) –  Nel 1977 hanno fondato a Palermo il Centro siciliano di documentazione, il primo Centro studi italiano sulla mafia; nel 1978, tre giorni dopo la morte di Peppino Impastato, mentre gli investigatori seguivano piste sbagliate, hanno denunciato la matrice mafiosa del suo assassinio, intestando poi a Peppino il Centro di documentazione. Ecco Umberto Santino e Anna Puglisi, dal 1972, anno delle loro nozze, insieme nell’impegno sociale, politico e antimafia: in questo mese di gennaio, Anna e Umberto festeggiano in coppia anche il compleanno - 80 candeline a testa - circondati dalla stima e dall’affetto di tanti amici.
        Forse non tutti sanno che Umberto Santino è, in Sicilia,  una delle personalità più impegnate contro la mafia ed è uno dei massimi studiosi a livello internazionale di questioni concernenti i poteri criminali, i mercati illegali, i rapporti tra economia, politica e criminalità. E’ autore di numerosi saggi, tra i quali L’impresa mafiosa. Dall’Italia agli Stati Uniti  (1990), in collaborazione con Giovanni La Fiura; La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi (1995) e l’imperdibile e prezioso Storia del movimento antimafia (2000, 2009). Anna Puglisi ha sempre condiviso con Umberto l’impegno sociale e antimafioso, occupandosi in particolare di mafia e antimafia dal punto di vista delle donne. Ecco cosa scrive di lei Simona Mafai:  ”Diligente, rigorosa, serissima ma non avara di sorrisi, Anna Puglisi è una figura significativa della società civile palermitana. (…). E’ cofondatrice nel 1984 dell’Associazione delle donne siciliane per la lotta contro la mafia e con l’Associazione ha promosso varie iniziative (incontri nelle scuole e nei quartieri popolari, gemellaggi con associazioni femminili straniere, sostegno a donne del popolo costituitesi parti civili contro gli assassini mafiosi dei loro congiunti). Diviene poi biografa di alcune emblematiche figure di donne siciliane, vittime della mafia o militanti contro di essa. (…) In riconoscimento di questa vita limpida, dedicata alla lotta contro le illegalità e alla valorizzazione delle donne,  l’8 marzo 2008, in occasione della Giornata della Donna, dedicata alle Donne per la Democrazia - a 60 anni dalla Costituzione italiana e dalla Dichiarazione universale dei diritti umani - Anna Puglisi ha ricevuto dal Presidente della Repubblica l’onorificenza di Commendatore della Repubblica, con la seguente motivazione: «Con i suoi studi e la sua attività di raccolta di testimonianze di vita, svolta soprattutto attraverso il Centro siciliano di documentazione, intitolato a Giuseppe Impastato, ha valorizzato il contributo delle donne nella mobilitazione antimafia».”
       Il Centro non ha mai accettato finanziamenti pubblici, per coerenza etica e in segno di protesta per la mancanza di un regolamento trasparente relativo ai contributi alle associazioni antimafia. Ma il 23 maggio 2018 il sindaco di Palermo Leoluca Orlando ha consegnato ad Anna e Umberto le chiavi di Palazzo Gulì, sito nella centrale via Vittorio Emanuele. All’interno del Palazzo, è stato realizzato il "No mafia memorial", un progetto nato per raccontare la storia della mafia, la sua evoluzione, il suo impatto sulla società, ma anche la ribellione e la resistenza di tutti quelli che la mafia l’hanno combattuta. Nelle stanze del palazzo stanno sorgendo infatti un percorso museale multimediale, una biblioteca e laboratori didattici e di ricerca.
     Lo scopo del "No mafia memorial", infatti, è proprio quello di narrare l'antimafia sociale e di essere anche uno spazio da vivere. Per Santino, che ha sempre incarnato l'antimafia che cerca la verità, che s’impegna concretamente sul territorio e non ama gli applausi e i posti in prima fila, è necessario infatti testimoniare “un’antimafia diversa da quella che abbiamo spesso visto e vissuto fino ad ora. Un’antimafia con ripercussioni economiche e culturali.
Grazie di cuore, cari Anna e Umberto: Palermo vi deve tanto. Il vostro coraggio, la vostra coerenza cristallina, il vostro instancabile impegno etico e civile hanno reso questa città più umana e più giusta. 

Maria D’Asaro, 20.01.19, Il Punto Quotidiano

venerdì 18 gennaio 2019

Si, questo è un uomo

          Lunedì è morto Pawel Adamowicz, sindaco della città di Danzica dal 1998, considerato un politico progressista e liberale e da tempo molto critico verso il governo polacco di estrema destra. Adamowicz, 53 anni, era stato accoltellato la sera prima mentre partecipava a un noto evento di beneficenza, davanti a migliaia di persone: era stato portato in ospedale e sottoposto a un’operazione di cinque ore, che però non è stata sufficiente a salvargli la vita.                   L’assalitore, un 27enne da poco uscito di prigione, è stato arrestato: ha detto che voleva vendicarsi per essere stato ingiustamente incarcerato quando al governo c’era Piattaforma civica, il partito di Adamowicz. (…)
        Adamowicz era un politico molto popolare e un sindaco conosciuto per le sue idee progressiste, piuttosto rare nella Polonia di oggi, uno dei paesi più illiberali d’Europa.
       Era nato a Danzica il 2 novembre 1965, dove cominciò a occuparsi di politica fin da giovane. Studiò legge all’università della sua città e negli anni Ottanta partecipò all’organizzazione di alcuni scioperi studenteschi e si unì all’opposizione democratica che si era formata sotto la leadership di Lech Wałęsa, fondatore del sindacato Solidarność. Dopo il crollo del Muro di Berlino, mentre la Polonia si stava trasformando in una democrazia multipartitica, Adamowicz continuò a lavorare in università e a fare attività politica. Divenne consigliere comunale di Danzica nel 1990 e sindaco nel 1998: fu rieletto per il suo sesto mandato a novembre dello scorso anno, e sarebbe dovuto rimanere in carica fino al 2023. Era sposato con Magdalena, docente di legge dell’Università di Danzica, e aveva due figlie, Antonina (nata nel 2003) e Teresa (nata nel 2010).
              Politicamente, Adamowicz era vicino a Piattaforma civica, partito polacco di centrodestra, liberale e favorevole all’Unione Europea. Tra le altre cose, si era espresso a favore dei diritti dei migranti, dei rifugiati e delle persone LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender), in contrasto con le posizioni del governo polacco di destra guidato dal partito Diritto e giustizia (PiS, la sigla in polacco), che negli ultimi anni ha trasformato la Polonia in uno stato sempre più illiberale e anti-europeista. Si era anche detto favorevole all’educazione sessuale nelle scuole e aveva espresso solidarietà alla comunità ebraica di Danzica dopo che lo scorso anno un vetro della sinagoga cittadina era stato rotto in quello che la polizia aveva definito un atto vandalico.
            Anche se Adamowicz non sembra essere stato ucciso per le sue idee politiche, secondo diversi osservatori ed esperti la sua morte sarebbe stata il risultato del clima di odio e violenza che da tempo pervade il dibattito pubblico e politico in Polonia, chiamato anche il «paese dei complotti». (...)

        Un centinaio di persone in piazza a Palermo per ricordare il sindaco di Danzica Pawel Adamowicz, assassinato da un fanatico sul palco di un'iniziativa benefica, e per dire no al clima di violenza che agita l'Europa. In piazza Verdi esponenti del Partito democratico siciliano, guidati dal segretario Davide Faraone, gli assessori Emilio Arcuri e Giovanna Marano, alcuni consiglieri comunali e altri cittadini si sono ritrovati insieme, ciascuno con una candela bianca in mano. Accanto alle bandiere del Pd anche un paio di vessilli dell'Unione europea. "Questo omicidio è contrario ai valori dell'Unione ed è figlio di un clima di violenza e odio diffuso in Europa", dicono i manifestanti. Presente in piazza, con una coccarda bianco-rossa sulla giacca, anche il console onorario della Polonia in Sicilia, Davide Farina.  (da qui).

martedì 15 gennaio 2019

Scava ...



Troverai
Oro bastevole
Per dare sollievo
A ogni antica ferita?
Scava …                                         




(In Giappone, quando un oggetto in ceramica si rompe, lo si ripara con l’oro, perché un vaso rotto può divenire ancora più bello di quanto già non lo fosse in origine. La tecnica di riparare gli oggetti in ceramica, si chiama kintsugi che  deriva da “kin” (oro) e “tsugi” (riunire, riparare, ricongiungere), letteralmente, “riparare con l’oro”. Vedi qui.)


domenica 13 gennaio 2019

Stop ai cotton fioc: il mare ringrazia

          Si potrebbe dire, parafrasando un noto detto, che “L’Epifania tutta la plastica lascia per via”. Alzi la mano infatti chi, nei giorni dedicati a cenoni e pranzi luculliani, è riuscito a utilizzare solo piatti e bicchieri di ceramica e vetro … 
        Il problema è che poi tale immane quantità di plastica utilizzata inquina irrimediabilmente l’ambiente. E magari torna nel nostro stomaco, attraverso pesci e molluschi che hanno ingerito a loro volta le fatali microparticelle; oppure rimane a galleggiare nei mari. Quasi tutti conosciamo l’esistenza della Great Pacific Garbage Patch, cioè della grande chiazza di immondizia del Pacifico, che misura circa 700mila km quadrati ed è perciò più estesa della stessa Francia. Ma forse non sappiamo che nel nostro mar Mediterraneo arriva quasi il 7% della microplastica globale e vi rimane intrappolata, considerando lo scarso scambio idrico del Mediterraneo con l’Oceano Atlantico, il mar Nero e il mar Rosso. 
     Ma ecco una buona notizia per l’ambiente: l’1 gennaio 2019 è entrato in vigore in Italia il divieto di produrre e vendere cotton fioc con il bastoncino di plastica, quindi non biodegradabili; norma già introdotta dalla legge di bilancio del dicembre 2017. Lo stesso provvedimento vieterà - a partire dal primo gennaio del 2020 - l’uso delle cosiddette microplastiche, particelle di diametro inferiore ai 5 millimetri, normalmente usate nei prodotti cosmetici o per l’igiene personale. 
     L’Italia è il primo paese dell’Unione Europea a vietare la produzione e la vendita di cotton fioc in plastica,  divieto a cui da tempo sta lavorando anche l’Unione Europea. Lo scorso ottobre, infatti, il Parlamento Europeo ha chiesto di vietare la commercializzazione  di numerosi prodotti di plastica ‘usa e getta’, come appunto i cotton fioc o i piatti da picnic, che sono tra le principali cause di inquinamento degli oceani e delle acque dolci. La proposta dovrà ora essere negoziata col Consiglio 
dell’Unione Europea, l’altro organismo decisionale dell’Unione. Se la proposta sarà approvata, il divieto entrerà in vigore in tutti gli Stati dell’Unione Europea a partire dall’1 gennaio 2021.
     Mentre il governo italiano e quello europeo tentano di porre riparo all’uso scriteriato della plastica, sarebbe bene che ogni cittadino ne limitasse intanto significativamente il consumo. Alex Langer, esponente di spicco del Movimento ecologista negli anni ’80 e ’90, parlava già più di vent’anni fa di ‘virtù verdi’: tra esse elencava “l’auto-limitazione”, cioè la rinunzia a tutto ciò che provoca conseguenze gravi e irreversibili per il pianeta, e la “conversione ecologica”, termine ampio che includeva “la conversione della nostra economia e della nostra organizzazione sociale verso rapporti di maggiore compatibilità ecologica, di maggiore compatibilità sociale e di minore ingiustizia (…)”.
     Che le nostre orecchie, pulite senza la plastica dei cotton fioc, possano essere aperte e sensibili a tale conversione ecologica sempre più necessaria e urgente.

Maria D’Asaro, Il Punto Quotidiano, 13.1.19


venerdì 11 gennaio 2019

Tutto l'universo obbedisce alle vibrazioni ...

       Sotto l’albero di Natale, nostra Signora ha ricevuto uno splendido dono: la presenza dei figli ingegneri, che studiano e lavorano nelle nebbie milanesi.
         Il maggiore dei due, il figlio scienziato,  oltre a deliziarla con le canzoni sotto la doccia e nuovi giochi da tavolo, ha colmato una delle sue millanta lacune scientifiche spiegandole il funzionamento del forno a microonde, da lei utilizzato per scaldare lasagne residue.
       Nostra Signora ha così imparato che tutta la materia ‘vibra’ e che ciascun elemento ha una sua vibrazione costitutiva e specifica, che è distinta per frequenza e per velocità. 
Ogni corpo fisico quindi è come se fosse un’altalena, provvista di una sua corda - la lunghezza d’onda – che varia da corpo a corpo ed è misurabile matematicamente, calcolando la distanza tra gli apici (o i pedici) di due onde contigue.
            Un po’ di anni fa, alcuni studiosi hanno ‘letto’, isolato la lunghezza d’onda dell’acqua e hanno creato uno strumento – quello che poi è diventato il forno a microonde – capace di entrare in risonanza con le molecole d’acqua contenute nei cibi, aumentandone la velocità di vibrazione, cioè la temperatura.
           Poi il figlio scienziato le ha rivelato i segreti della lunghezza d’onda elettromagnetica, che si apprezza visivamente attraverso i colori. E lei ha imparato che lo spettro visivo degli umani va dall’infrarosso (a circa 760 nanometri) con lunghezze d’onda sempre più grandi, ma con frequenze molto basse, all’ultravioletto (circa 380 nanometri), con lunghezze d’onda sempre più piccole ma con alte frequenze, con aumento quindi della temperatura. 
         Per Nostra Signora, che si orienta un po’ solo in ambito umanistico, capire qualcosa di Fisica è entrare in un universo sconosciuto e fatato. E spera di abbracciare più spesso il figlio scienziato, che ha il grande potere di farle decifrare la magia dell’universo. 


mercoledì 9 gennaio 2019

Preghiera d'inverno per un amico fragile


  
Fabrizio De Andrè è morto l’11 gennaio del 1999. 
   Grazie, Faber, per la tua musica e la tua poesia.











domenica 6 gennaio 2019

Tutti più buoni: l'invito di Mattarella ...

     Prima che il pacioso Babbo Natale la precedesse e la surclassasse, era la vecchia e saggia Befana a depositare i doni ai bambini nelle calze all’uopo preparate. Solo a quelli buoni però; ai meno buoni sarebbe toccato il nero carbone. Purtroppo da tempo la virtù della bontà non gode più buona fortuna nel nostro Paese, né tra i bambini né tra i grandi; e viene spesso dileggiata o confusa con le sue caricature: debolezza,  buonismo, incapacità di prendere posizione.
   Il Presidente della Repubblica, il palermitano doc Sergio Mattarella, nel suo toccante e, per certi versi, inconsueto e spiazzante messaggio di fine anno, ha ribadito l’importanza della bontà, parlando di condivisione di valori, di rispetto, di buoni sentimenti.
     Ecco alcuni passaggi del suo discorso: “Care concittadine e cari concittadini  (…)  quel che ho sentito e ricevuto in molte occasioni nel corso dell’anno da parte di tanti (…) esprime, soprattutto, l’esigenza di sentirsi e di riconoscersi come una comunità di vita. La vicinanza e l’affetto che avverto sovente, li interpreto come il bisogno di unità, raffigurata da chi rappresenta la Repubblica che è il nostro comune destino. Proprio su questo vorrei riflettere brevemente, insieme, nel momento in cui entriamo in un nuovo anno.
Sentirsi “comunità” significa condividere valori, prospettive, diritti e doveri.  Significa “pensarsi” dentro un futuro comune, da costruire insieme. Significa responsabilità, perché ciascuno di noi è, in misura più o meno grande, protagonista del futuro del nostro Paese.
Vuol dire anche essere rispettosi gli uni degli altri. Vuol dire essere consapevoli degli elementi che ci uniscono e nel battersi, come è giusto, per le proprie idee rifiutare l’astio, l’insulto, l’intolleranza, che creano ostilità e timore.
So bene che alcuni diranno: questa è retorica dei buoni sentimenti, che la realtà è purtroppo un’altra; che vi sono tanti problemi e che bisogna pensare soprattutto alla sicurezza. Certo, la sicurezza è condizione di un’esistenza serena. Ma (…) la vera sicurezza si realizza, con efficacia, preservando e garantendo i valori positivi della convivenza.  Sicurezza è anche lavoro, istruzione, più equa distribuzione delle opportunità per i giovani, attenzione per gli anziani, serenità per i pensionati dopo una vita di lavoro: tutto questo si realizza più facilmente superando i conflitti e sostenendosi l’un l’altro.
Qualche settimana fa a Torino alcuni bambini mi hanno consegnato la cittadinanza onoraria di un luogo immaginario, da loro definito Felicizia, per indicare l’amicizia come strada per la felicità. Un sogno, forse una favola. Ma dobbiamo guardarci dal confinare i sogni e le speranze alla sola stagione dell’infanzia. Come se questi valori non fossero importanti nel mondo degli adulti.
In altre parole, non dobbiamo aver timore di manifestare buoni sentimenti che rendono migliore la nostra società. Sono i valori coltivati da chi svolge seriamente, giorno per giorno, il proprio dovere; quelli di chi si impegna volontariamente per aiutare gli altri in difficoltà. Il nostro è un Paese ricco di solidarietà. Spesso la società civile è arrivata, con più efficacia e con più calore umano, in luoghi remoti non raggiunti dalle pubbliche istituzioni. (…) È l’immagine dell’Italia positiva, che deve prevalere. (…)”
     Allora, prendiamo sul serio l’invito della più alta carica dello Stato, a cui ha fatto eco il messaggio di papa Francesco in occasione della 52° giornata mondiale per la pace, che si è celebrata il 1° gennaio. La bontà è virtù necessaria, conveniente, opportuna. Facciamola tornare di moda, in questo 2019.
Maria D’Asaro, Il Punto Quotidiano, 6.1.19


(5 e 6 gennaio sono giorni tristi per la memoria ‘storica’ di tanti siciliani: il 5 gennaio 1984 veniva ucciso a Catania il giornalista Pippo Fava, autore di tante inchieste illuminanti sulla mafia catanese e i suoi fiancheggiatori; il 6 gennaio del 1980 veniva trucidato a Palermo Piersanti Mattarella, politico democristiano, allora Presidente della Regione Siciliana: parlo qui di Pippo Fava e qui e qui di Sergio e Piersanti Mattarella.


Il giornalista Pippo Fava


Il Presidente Piersanti Mattarella

giovedì 3 gennaio 2019

Dove c'è amore, c'è famiglia


       Allora: oggi è la festa della … famiglia, l’ho capito. Ma quale aggettivo avete indicato? Santa o Sacra? Santa famiglia, non sacra! Perché a sacra di oppone un aggettivo, profana, e non c’è invece una famiglia sacra e una profana. Ce n’è soltanto una che è santa. A santa non si oppone niente …
       Ma c’è una condizione perché la famiglia possa essere celebrata come santa, è bene chiarirlo subito: che ci sia l’amore, a farla nascere, ad alimentarla, a farla crescere. E quindi è l’amore che la va rendendo santa. Se dovesse venire a mancare l’amore, diventa un inferno. I femminicidi (o i maschicidi o ciò di cui veniamo a conoscenza parzialmente) sono fondati su un equivoco: che volendo a tutti i costi salvare la famiglia, si è disposti a sacrificare le persone.
         No: la famiglia non è un Moloc a cui dobbiamo sacrificare le persone … Ha senso ed è santa soltanto nella misura in cui i rapporti tra i genitori, tra genitori e figli, sono rapporti costruiti, alimentati con l’amore. L’amore fa stare meglio le persone. La mancanza di amore provoca depressione, insonnia, malcontento, diarrea, invidia, disperazione … Ecco cosa prova la mancanza d’amore e la convivenza forzata senza amore: un supplizio.
         E allora, care sorelle e fratelli, festeggiamola la festa della famiglia santa, cioè la famiglia che si armonizza ogni giorno guardandosi e dicendosi a vicenda: “Io ti voglio bene, sono qua per te … siamo qua insieme. Vogliamo continuare a costruire qualcosa di bello”.
        Facciamola così, questa festa. Anzi, facciamola diventare la nostra festa 
        Ciò non significa che tutto è facile, nelle relazioni. Perché qualche incomprensione ci può stare, ci può stare anche qualche momento di tensione, ma senza volersi male, senza ferirsi, senza colpirsi, ma passando attraverso un confronto propositivo e creativo, in maniera tale che dal confronto nasca qualcosa di ancora meglio … Perché non dobbiamo vagheggiare un’utopica condizione familiare in cui non ci sia nessuna discussione, no, può capitare, anzi ci sono momenti di transizione – la nascita dei figli, nuovi incontri … - che rimettono in discussione tante cose che sono presenti implicitamente e che ora devono essere riportate in evidenza, portate alla luce, discusse.
          Io vi auguro soltanto questo: che la famiglia di ciascuno di noi sia una famiglia che si alimenti al fuoco dell’amore. E quando ci sono discussioni, alla fine tornate a farvi la domanda o tornate alle evidenze che spesso si danno per scontate e non si dicono più: “Io sono qui con te perché ti amo, perché ti voglio bene, perché mi piace stare con te … “ Ma bisogna tornare a dirselo, altrimenti si trascinano situazioni che si vanno appesantendo e rendono sempre meno gradevole lo stare insieme.
E questo vale per tutte le famiglie: quelle cosiddette naturali – ma le altre non sono artificiali! O soprannaturali o chissà cosa … - quelle cosiddette di fatto, con la complessità di relazioni che vengono alimentate, che si vanno riconfigurando … 
          Dove c’è amore non ci si può fare del male, anzi c’è un sovrappiù di benessere. Anche se le trasformazioni che sta subendo nella nostra società la famiglia non sono così ovvie e vanno accompagnate con grande rispetto, senza ripicche, senza voler penalizzare l’una o l’altra forma, ma pensando al bene dei figli, al bene che deve essere salvaguardato per tutti.
        Ed è questo quello che è bene che noi ci auguriamo o ci benediciamo a vicenda.

(Omelia pronunciata da don Cosimo Scordato il 30.12.2018 a Palermo, nella chiesa di san Francesco Saverio. Il testo non è stato rivisto dall'autore:  eventuali errori o omissioni sono della scrivente, Maria D’Asaro, che si assume pertanto la responsabilità delle eventuali imprecisioni e manchevolezze della trascrizione)


martedì 1 gennaio 2019

2019: in marcia!

      Nella scuola dove lavoro attualmente – la  media “G.A.Cesareo” di Palermo –  con le care colleghe Rita Anastasi e Silvia Borruso,  sono responsabile di un laboratorio pomeridiano di scrittura giornalistica, durante il quale un bel gruppo di ragazzi di I, II e III media scrive articoli per il giornale scolastico on line  “Punto e a capo” e per il blog “ClikkiAmo la scuola”.

Ecco l’ultimo articolo su “Punto e a capo”: 

Gli auguri per il 2019 sono stati offerti dalla nostra scuola già il 20 dicembre, con un saggio a cura dell’orchestra formata dal corso a indirizzo musicale e diretta dal professore Giorgio Buttitta. Tra le tante opportunità formative offerte dalla “Cesareo”, infatti c’è anche quella di poter scegliere il corso musicale, dove si può anche imparare a suonare uno strumento – chitarra, clarinetto, pianoforte o violino – potenziando così la propria espressività in campo musicale. 
Tra i brani proposti dal concerto di fine anno, non potevano certo mancare “Jingle Bells”, il valzer di Strauss “Sul bel Danubio blu” e la celeberrima marcia di Radetzky, il brano che chiude tradizionalmente il concerto di Capodanno dell’Orchestra Filarmonica di Vienna. E, come a Vienna, secondo consuetudine, il pubblico presente nell’Auditorium della scuola ha partecipato attivamente all’esecuzione battendo il tempo con le mani, sotto la guida del direttore d’orchestra. Forse non tutti sanno che la tanto amata marcia di Radetzky fu composta da Johann Strauss padre in onore del maresciallo Josef Radetzky per celebrare la riconquista austriaca di Milano dopo i moti rivoluzionari in Italia del 1848. Infatti, il 25 luglio 1848, l’ottantaduenne comandante in capo dell’esercito imperiale, Johann Joseph Wenzel, conte Radetzky Von Radetz (1766-1858), guidò le truppe imperiali in una decisiva vittoria sulle forze sabaude nella località di Custoza. Dopo tale vittoria, l’esercito di Radetzky si diresse a Milano, che riconquistò il 6 agosto, costringendo il re Carlo Alberto all’armistizio e a lasciare agli austriaci le regioni di Lombardia e Veneto prima occupate. Furono questi gli eventi che portarono all’interruzione della prima guerra di indipendenza italiana, che si sarebbe conclusa l’anno successivo con la sconfitta dei sardo/piemontesi a Novara. 
Ecco ancora qualche notizia da Wikipedia: “A Vienna, ancora in preda alla rivoluzione, questo significativo evento militare venne accolto con grande gioia dai fedelissimi della monarchia asburgica. Fra questi fedeli, l’intraprendente Friedrich Pelikan, funzionario statale e anche proprietario del ”Cafè-pavilion” sulla Wasserglacis di Vienna. Insieme a Carl Hirsch (un esperto di illuminazioni), Pelikan colse al volo la vittoria di Radetzky per organizzare per la sera del 31 agosto 1848 nel suo ”Cafè-pavilion” sulla distesa verde della Wasserglacis un “Festival per la Gran vittoria, con allegorica e simbolica rappresentazione e luminarie eccezionali, in onore dei nostri coraggiosi soldati in Italia, e per beneficenza ai soldati feriti”. I volantini che pubblicizzarono l’evento del 31 agosto annunciarono anche che il direttore dei balli imperiali di corte, Johann Strauss avrebbe diretto la musica avendo l’onore di dare l’anteprima, tra i vari brani musicali, anche di una nuova marcia dal titolo Radetzky-Marsch, composta in onore del comandante e dell’esercito imperiale. (…) Il successo della Radetzky-Marsch fu evidente fin dall’inizio. Il Wiener Allgemeine Theaterzeitung, nella sua edizione del 2 settembre, riportò a proposito dell’esecuzione: «Questa festa imponente, che ha avuto luogo nella Wasserglacis l’altro ieri, 31 agosto, è stata una delle più belle di quest’anno. In particolare la nuova Radetzky-Marsch di Strauß è stata molto ben accolta, e su richiesta tempestosa ha dovuto essere ripetuta più volte». 
Ormai la marcia di Radetzky ha perso il suo legame con una vittoria militare e comunica solo festosa gioia di vivere. Dalla redazione giornalistica della scuola media “Cesareo” di Palermo l’augurio di un 2019 pieno di pace, salute, lavoro, serenità e gioia.