domenica 27 dicembre 2020

Caro 2021, ti scrivo...

 
      Palermo – Caro 2021, mancano ormai pochi giorni al tuo arrivo. Sei atteso con trepidazione e speranza, perché nel 2020 la dolorosa sorpresa della pandemia ci ha fatto precipitare nel buco nero di una fragilità imprevista, piena di ansia e paura. A pensarci bene però dovremmo essere grati anche all’anno che ti ha preceduto perché, se siamo qui ad aspettarti, vuol dire che abbiamo avuto in sorte il dono di essere ancora nel grande cerchio visibile della Vita.
     A te, che entri nella Storia attraverso la porta misteriosa del Tempo, chiediamo aiuto per realizzare alcune possibilità:
Vorremmo innanzitutto che ci spronassi a salvare la Natura: nessun futuro sarà possibile se non adegueremo il consumo delle risorse ambientali a quanto Madre Terra può sopportare. Aiutaci quindi a diventare uomini e donne capaci di cura: intanto verso la nostra casa comune, poi verso noi stessi, i nostri figli e nipoti, i più deboli, e anche nei confronti dei nostri fratelli animali. Rendici capaci di dare una mano e di fare gesti concreti verso chi ne ha bisogno; con una cura speciale per chi è solo e per chi ha perso i propri cari proprio nel 2020.
     Illuminaci poi nel distribuire in modo giusto ricchezze e lavoro: non è umano che nel 2021 ci siano ancora tante persone disperate perché – con o senza pandemia - non possono guadagnarsi da vivere onestamente e con dignità.
    Donaci allora la saggezza della mente e del cuore, per prendere la decisione giusta al momento opportuno, per pronunciare i sì e i no utili a noi stessi e alla società; quella saggezza che ci rende forti e umili insieme, tenaci nel perseguire una buona meta e resilienti nelle difficoltà.
     Per favore, se possibile, concedici il dono della salute, mai tanto apprezzato e gustato come adesso. E con la salute e il controllo dell’epidemia, fa’ che tornino i viaggi e soprattutto gli abbracci.  Ecco, proprio queste due forme diverse di contatto con gli altri – i viaggi, incontro con l’esterno, gli abbracci, segno della vicinanza intima e affettuosa – sono forse le dimensioni che ci sono mancate di più nel 2020 e che vorremmo recuperare al più presto.
     In ogni caso, qualsiasi cosa accada, donaci la forza di sorridere e vivere in armonia con la leggerezza dell’anima e del cuore di cui parlava Italo Calvino.
   Ma ecco che, mentre ricevi il testimone dal 2020, dietro la barriera invisibile del 31 dicembre intravediamo il tuo sguardo sibillino e sfuggente: appena nato, cominci a svanire anche tu, lasciando un minuscolo frammento in ciascuno. Caro 2021, in realtà il nostro futuro sarà buono per l’ambiente, pieno di cura, lavoro, saggezza, di salute e di pace, di viaggi, abbracci e sorrisi solo se ognuno sarà il grembo fecondo di queste scintillanti possibilità.

Maria D'Asaro, 27.12.2020, il Punto Quotidiano

mercoledì 23 dicembre 2020

Il cielo messo sopra le teste

V. Kandisky: Blu di cielo
Il cielo messo sopra le teste
in una veste d’azzurro palpito
accolto dentro si bagna
penetra sottilmente in ogni poro
del mondo come alimento d'amore.

Il cielo nella tessitura d'acque
che lo compone non indietreggia
si condensa in fontane
si sparpaglia in brine si sprigiona
si dona a noi che respiriamo
la sua formula in fusione
di ciò che non si vede con ciò
che nasce e trema.



Mariangela Gualtieri, da "Bestia di gioia" (Einaudi, Torino, 2010),  pag.39

domenica 20 dicembre 2020

Il panettone? Davvero super anche quello siciliano

      Palermo – Per Nicola Fiasconaro la ciliegina sulla torta è arrivata nel maggio scorso, con la proclamazione da parte del Presidente della Repubblica, il conterraneo Sergio Mattarella, a Cavaliere del Lavoro: terzo pasticcere d’Italia ad avere ricevuto quest’onorificenza.  
      Chi è Nicola Fiasconaro e perché ha meritato il prestigioso riconoscimento? Classe 1964, il pasticcere è figlio d’arte: il papà Mario a Castelbuono - cittadina in provincia di Palermo, nel cuore delle Madonie - aveva avviato un laboratorio di pasticceria e gelateria già nel 1953 quando, in mancanza di frigoriferi industriali, il gelato si faceva ancora con la neve. Oltre ai gelati, papà Mario preparava cassatine, cannoli, “sfincioni” con crema di ricotta, profiteroles. E i tre figli Fausto, Martino e Nicola crescevano respirando il profumo dei dolci appena sformati. 
     Ecco come si è raccontato qualche anno fa il neo Cavaliere del Lavoro in un’intervista al quotidiano “La Repubblica”: «Sono nato con le mani in pasta. Mentre mia madre mi partoriva nella nostra storica casa, mio padre al piano di sotto sfornava bignè e lavorava pasta di mandorle. Sono nato con questo odore che è subito penetrato nel cervello. Sono sempre stato pigro a scuola, ma da piccolissimo mangiavo i dolci per fare domande sull'armonizzazione dei sapori e degli zuccheri.»  Nonostante l’arte dolciaria ce l’avesse a casa, Nicola Fiasconaro ha fatto la gavetta lavorando nelle pasticcerie di tutta la Sicilia per assorbire i vari elementi della cultura gastronomica siciliana: «Perché l'arte dolciaria secondo me è quella che ha recepito meglio le influenze millenarie: dai Normanni al barocco, i dolci siciliani sanno raccontare la storia dell'isola. (…). Mi sono appassionato ai dolci messinesi, che sono una grande scuola di equilibrio e fantasia. E poi quando mi sono sentito appagato della conoscenza sul territorio, ho detto a mio padre: "Cosa fanno i pasticceri del Nordest? Vanno all'accademia? E allora anche io". Così sono andato a frequentare l'Istituto Superiore Arti Culinarie di Chioggia Sottomarina. Da lì è cambiata la nostra vita». 
     All’accademia di Chioggia infatti, seguendo la lezione di un maestro esperto di paste acide che spiegava come fare il panettone, a Nicola balena l’idea che il dolce milanese per eccellenza si poteva produrre anche in Sicilia, a Castelbuono, nell’azienda di famiglia. Racconta Nicola che il papà Mario inizialmente lo prese per pazzo: «Ma provai a spiegargli che se la ricetta era meneghina, dentro c'era tutta la Sicilia: le arance candite, il pistacchio di Bronte, il Marsala. Nel giro di cinque anni, facevamo prevalentemente panettone».
Infatti, alla fine degli anni ’90, l’azienda Fiasconaro avvia con successo la produzione di panettoni artigianali con ingredienti tipici della Sicilia, come i canditi di Lentini e le mandorle d’Avola. Nel 2005 viene addirittura brevettato il panettone “Dolce Presepe”.
     Oggi i fratelli Fiasconaro, coadiuvati anche dalla terza generazione, sono a capo di un’azienda che è un'eccellenza del made in Italy, con un fatturato di oltre 18 milioni di euro e una crescita del 20% su tutti i principali mercati: Italia, Canada, Francia, Stati Uniti, Germania, Inghilterra, Australia e Nuova Zelanda, e con uno sguardo strategico al mercato asiatico. L’azienda investe più del 45% del fatturato nell’approvvigionamento di materie prime rigorosamente siciliane. Il panettone Fiasconaro rappresenta una certezza nella tavola natalizia per ogni famiglia siciliana e non solo. Il marchio garantisce anche l’eccellente qualità di torroncini, cubaite, creme da spalmare, miele, marmellate, confetture e spumanti aromatici. I prodotti artigianali Fiasconaro sono già stati donati a tre Pontefici - compreso Papa Francesco - e a vari capi di Stato; e sono stati scelti dalla Nasa per essere consumati dagli astronauti di una missione spaziale Shuttle Discovery. Recentemente l’'azienda ha donato i propri prodotti anche a medici e infermieri di ospedali del Nord Italia in prima linea nella lotta alla pandemia. 
       Scrive il professore Lorenzo Palumbo, anche lui di Castebuono: “Persone come Fausto, Nicola e il mio amico Martino sono lì ogni giorno da 40 anni a mettere il laccio emostatico sull'emorragia dello spopolamento giovanile. I fratelli Fiasconaro, che oggi finanziano il restauro del dipinto alla Matrice Vecchia di Castelbuono, si sono inventati il panettone in Sicilia che è come voler coltivare il grano saraceno al Polo nord: una follia. (…) Sì, in questo paese serpeggia una follia sana e lucida. Si chiama voglia di vivere, si chiama voglia di vincere nello sport più bello del mondo: l'umanità.” 
     Buon Natale allora da Castelbuono, con l‘intraprendenza ‘dolce’ e tenace dei fratelli Fiasconaro, figli di un entroterra siciliano ricco di un lievito nascosto, che dà il giusto fermento alla pasta “umana” dell’isola. 

Maria D'Asaro, 20.12.2020, il Punto Quotidiano

giovedì 17 dicembre 2020

Sanzione illegittima alla professoressa Dell’Aria: vince la Scuola

    Così, alla fine, oltre che a Berlino, un giudice si è trovato anche a Palermo:
    Secondo quanto riporta l'agenzia Ansa, il giudice del lavoro Fabio Civiletti ha dichiarato illegittima la sanzione disciplinare comminata alla professoressa Rosa Maria Dell'Aria, docente di Italiano nell’Istituto Tecnico Industriale “Vittorio Emanuele III di Palermo. Alla docente verrà infatti restituito lo stipendio per i 15 giorni di sospensione dal lavoro, nel maggio 2019, a seguito del video - prodotto da alcuni studenti in occasione della Giornata della memoria, il 27 gennaio 2019 - quando l'immagine delle leggi razziali introdotte da Mussolini nel 1938 veniva accostata a una foto scattata durante la conferenza stampa di presentazione del Decreto sicurezza dell'allora ministro dell’Interno Matteo Salvini
"Il giudice ha riconosciuto tutte le ragioni del nostro ricorso – ha dichiarato l'avvocato Alessandro Luna, che ha presentato il ricorso assieme all’avvocato Fabrizio La Rosa - non solo la docente ha esercitato la libertà di insegnamento nel fornire il materiale didattico, ma non sussiste nemmeno la 'culpa in vigilando' sull'operato dei suoi alunni, perché se avesse controllato il contenuto dei loro lavori avrebbe violato la loro libertà di pensiero tutelata dalla Costituzione".
"Sono molto contenta, fin dall'inizio volevamo che il provvedimento fosse dichiarato illegittimo e così è stato. Io ovviamente speravo che finisse così, ma nessuno mai a priori può avere certezza dell'esito di una sentenza", dice la diretta interessata. "I ragazzi - spiega la docente - non hanno mai avuto in mente di paragonare le due cose . Avevano letto il libro di Lia Levi 'Questa sera è già domani', ma noi abbiamo discusso soltanto di accoglienza di migranti, di diritti umani e l'accostamento era semmai tra la condizione degli ebrei di allora e i migranti di oggi. Niente altro di più. In quel libro si parla della conferenza di Evian del 1938, che venne convocata per discutere e trovare una soluzione al problema dell'aumento del numero di rifugiati ebrei provenienti dalla Germania nazista, di profughi, un tema che è assolutamente attuale. La scuola come luogo di confronto. E' anche questo il ruolo dell'istituzione didattica, la scuola deve essere luogo di libertà di opinione, luogo di confronto, di discussione e di salvaguardia della libertà delle opinioni". (Da qui)
      Da un mio articolo del giugno 2019, ripropongo le opinioni dei professori Augusto Cavadi, Rossana Rolando e  Francesco Dipalo:
     (...)L’episodio  (...) ha posto innanzitutto una questione di merito e una di metodo. Ecco a tal proposito cosa ha scritto il filosofo palermitano Augusto Cavadi: “Dal punto di vista del merito, si potrebbe disquisire a lungo se le politiche attuali di questo governo siano razziste o meno. (…) Ma, proprio perché se ne potrebbe discutere a lungo, significa che l’opinione affermativa non è manifestamente infondata. Dunque un burocrate non è qualificato, in quanto tale, a dirimere la questione. Ma, ammesso che la tesi dei ragazzi fosse comunque infondata, si aprirebbe una questione formale di metodo: a scuola le opinioni vanno censurate in nome dell’autorità o discusse (ed eventualmente confutate) in nome della cultura?”
            La vicenda ha riacceso inoltre il dibattito su una questione cruciale: si fa politica a scuola? Ci sono stati molti commenti di segno negativo, sintetizzati nelle affermazioni: “Fuori la politica dalla scuola”, “I professori devono insegnare e basta”, “La scuola non deve essere di parte”, “La scuola deve fare la scuola e la politica deve essere fatta nelle sedi giuste”.
         Ma cosa significa realmente fare politica a scuola? Su tale interrogativo, queste le riflessioni della professoressa Rossana Rolando: “Se politica vuol dire indottrinare, orientare in senso partitico, manipolare le menti, come è accaduto storicamente nei regimi novecenteschi (dal fascismo al nazismo allo stalinismo), allora è bene che la politica rimanga fuori dalle aule scolastiche e dagli altri ambiti educativi. Ma se la politica è lo spazio in cui si organizza la possibilità della convivenza tra le diversità, se è amore per la comunità umana e per il suo destino sulla terra, (…), se è esercizio della parola come mezzo per risolvere i conflitti e come strumento di comunicazione, se è luogo di condivisione della memoria, se è palestra in cui esercitare i valori della Costituzione … allora la scuola è momento politico per eccellenza. Insegnare è preparare le giovani menti ad essere protagoniste consapevoli dei processi democratici, in modo tale da poter assumere in futuro la propria fetta di responsabilità nei confronti di se stessi e degli altri.” 
            E la docente conclude così le sue riflessioni: “Questo senso altamente politico (e non partitico) non è disgiungibile in nessun modo dalla scuola, nella sua natura di scuola educante, non semplicemente quando si occupa di temi storico-politici, ma sempre. Per questo la cultura può incutere paura al potere costituito e può entrare in conflitto con esso, come è accaduto nel corso dei secoli a quegli intellettuali che hanno promosso il pensiero autonomo. ”
             Altrettante chiare, infine le parole del filosofo Francesco Dipalo:  “Un bravo professore fa politica? Se per fare politica s'intende la becera partigianeria, gli sproloqui televisivi, la stupidità di taluni comizi di piazza, gli slogan urlati o il gossip da fake news no, per carità! 
Se per "fare politica" si intende fornire agli studenti l'abc concettuale e storico per intendere i termini del dibattito politico attuale, nonché gli strumenti critici per decifrare il presente (alla luce del passato) e illustrare i valori fondamentali della nostra carta costituzionale democratica, ebbene sì, non solo ha la possibilità, ma ha l'esplicito dovere di "fare politica".

martedì 15 dicembre 2020

Splendore

Splendore

di calici

pronti a librarsi

per un lieto evento

sperato                          


domenica 13 dicembre 2020

Feste e cibo: in Sicilia è tradizione

        Palermo – La pandemia da Covid-19 ha cambiato bisogni, abitudini, gerarchie. Ma è rimasta uguale, anzi è cresciuta come antidoto all’ansia, la voglia di buon cibo e la consuetudine di onorare le tradizioni gastronomiche, specialmente nel Sud del nostro Paese. A Palermo i panettieri sono tra i pochi esercenti a non avere risentito della crisi: molti panifici, assieme al buon pane locale, sfornano anche pizze e tanti ottimi dolci, sempre assai richiesti. Una tradizione gastronomica che il palermitano doc continua a rispettare, la sera del 7 dicembre, vigilia dell’Immacolata, è la cena con pizza e sfincione.        La pizza - che a Palermo si prepara con creatività non minore di quella dei napoletani - non ha bisogno di presentazioni; ma forse non tutti conoscono lo sfincione (in dialetto ‘sfinciuni’ o ‘spinciuni’). ‘U sfinciuni’ è un prodotto tipico della gastronomia locale, come tale inserito nella lista dei PAT (prodotti agroalimentari tradizionali italiani): assieme al panino con le panelle e a quello con la milza è uno dei più diffusi e saporiti "cibi da strada" palermitani. Lo sfincione si prepara seguendo un’antica semplice ricetta che ha come ingrediente principale il pane in pasta  morbido e lievitato, condito poi con salsa di pomodoro arricchita da cipolla, origano, acciughe e pezzi di formaggio (in genere caciocavallo ragusano). Diffuso soprattutto a Palermo e nei dintorni, nella vicina cittadina di Bagheria è preparato un po’ diversamente: la salsa di pomodoro è sostituita dal formaggio tuma (formaggio pecorino con un suo grado di stagionatura) oppure dalla ricotta, mentre è invariato il condimento di cipolle, acciughe e origano. Per l’assenza di sugo rosso, quello bagherese è chiamato "sfincione bianco". 
       Altra tradizione gastronomica sicula, che è quasi d’obbligo rispettare a Palermo e in altre zone della Sicilia (soprattutto a Siracusa e provincia), è quella di non consumare cibi a base di farina nel giorno dedicato a santa Lucia. Il tredici dicembre infatti pasticcerie e panifici sono presi d’assalto per comprare arancine di riso (che a Catania si declinano al maschile) preparate al ragù, al pistacchio, al burro, con spinaci, con melanzane, e persino con nutella e cioccolato. Insieme alle arancine si mangiano anche le panelle, cioè gustose frittelle a base di farina di ceci, gateau di patate e un dolce particolare: la cuccia. Ingrediente base della cuccìa è il grano bollito, mescolato poi a ricotta di pecora o crema di latte bianca o al cioccolato; il dolce viene infine guarnito con zuccata, cannella, pezzetti di cioccolato e scorza di arancia grattugiata. Nel nisseno e nel trapanese la cuccia viene preparata in modo diverso: a Trapani al grano bollito si aggiungono fave e ceci, cucinati nel mosto cotto ad oltre 100 gradi, quando il mosto si riduce di volume ed assume una consistenza di caramello. A Caltanissetta invece la cuccía - a differenza di quella dolce, servita fredda  - viene consumata come pietanza salata, e preparata come minestra di grano cotto, con ceci lessati, e poi condita con sale, pepe e olio d'oliva. 
    La tradizione di astenersi da pane e pasta giorno tredici dicembre risale addirittura al lontano 1646, quando, proprio per santa Lucia, nel porto di Palermo approdò una nave carica di grano, che permise ai palermitani di sfamarsi dopo una lunga carestia. A causa della fame prolungata, il grano non venne macinato, ma solo bollito e quindi mangiato. Per ricordare l’arrivo del bastimento col suo carico prezioso, per il quale i cittadini di Palermo resero grazie alla santa siracusana, si diffuse l’usanza di mangiare nel giorno dedicato a santa Lucia cibi privi di farina o solo grano bollito. 
     E il giorno in cui arriverà il vaccino anti Covid-19 quale santo ringrazieremo e con quale pietanza festeggeremo?!

Maria D'Asaro, 13.12.2020, il Punto Quotidiano

giovedì 10 dicembre 2020

10 dicembre, a Giulio e Patrick un pensiero speciale…

      Il dieci dicembre, Giornata mondiale dei diritti umani - assieme alle migliaia di persone vittime di persecuzioni, torture, razzismo, emarginazioni - un pensiero speciale a Giulio Regeni e Patrick Zaki
     A proposito di Giulio, ecco una recente dichiarazione dei suoi genitori: 
In questi 5 anni abbiamo subito ferite e oltraggi di ogni genere da parte egiziana, ci hanno sequestrato, torturato e ucciso un figlio, hanno gettato fango e discredito su di lui, hanno mentito, oltraggiato e ingannato non solo noi ma l’intero Paese.
Crediamo che il nostro governo debba prendere atto di questo ennesimo schiaffo in faccia e richiamare immediatamente l’ambasciatore. Serve un segnale di dignità perché nessun paese possa infliggere tutto il male del mondo ad un cittadino e restare non solo impunito ma pure amico. Lo dobbiamo a Giulio e a tutti i Giuli e le Giulie in attesa ancora di verità
e giustizia.”
Paola e Claudio Regeni con l’Avv. Alessandra Ballerini.

       E sul governo egiziano, che tiene ancora in carcere in attesa di giudizio dal 7 febbraio scorso Patrick Zaki, ecco le amare considerazioni della giornalista Lucia Goracci, dal suo profilo FB:

"Quando nell'estate del 2013 i fratelli musulmani finirono in carcere a centinaia, quando in un solo giorno la repressione della piazza per mano del caudillo Sissi fece mille morti - che neanche Israele c'era riuscito mai, commentarono ridendo amaro i giornali satirici arabi - in pochi vollero vedere. Camminavamo dentro le moschee del Cairo, gli occhi inorriditi e i passi attenti a non calpestare i morti, avvolti nei sudari bianchi insanguinati; in pochi, in Italia, vollero vedere.
Perchè a morire erano i barbuti; le donne velate; i bimbi zozzi e nudi. Erano le masse popolari venute dal delta del Nilo a chiedere dove fosse finito il loro presidente, il fratello musulmano Morsi, che poi sarebbe morto in carcere
L'intellighenzia cairota - e i suoi italici corifanti - stavano con Sissi. E le nostre cronache, dalle sudice piazze di Raba'a al Adawyah e Maidan Nahda, venivano guardate con sospetto (a voler esser buone), anche in Italia. E lo scrittore egiziano Ala'a al Aswany, che oggi piagnucola anche lui, non spese una parola contro la repressione. Perchè l'elegante caffè Groppi al Cairo, tanto amato dagli intellettuali, era così lontano dalle sudice piazze dei Fratelli. E pazienza se ora a insudiciarle era il sangue, sparato ad alzo zero dai soldati del Caudillo.
La repressione è repressione sempre. E va condannata. Anche quando le sue vittime non ci assomigliano."

martedì 8 dicembre 2020

Se le sillabe si srotolano in canto...

Marc Chagall: Il concerto (1957)

Dentro la lingua
Un fagotto di sillabe
Si srotola in canto.

E’ tempo di cadere
Dentro covoni di parole
E farne pane per tutti.


Mariangela Gualtieri






Ringrazio Oriana C. per aver condiviso questa poesia.

E gli amici del coro Magnificat di Barrafranca, in particolare Claudio Paternò e Giuseppe Salamone, per questi canti suggestivi: 


domenica 6 dicembre 2020

Il mistero della vita appeso a un filo

      Palermo – Secondo la mitologia antica, la durata della vita umana era decisa da tre figure femminili, chiamate Moire dai greci, Parche dai romani: Cloto, Lachesi e Atropo. Cloto, la più giovane, filava il filo dei giorni per la tela della vita; Lachesi girava il fuso, stabiliva quanto filo spettasse a ogni uomo e decideva le sorti della singola vita che stava filando, unendo ai fili d'oro lo stame bianco per suggellare i giorni felici e lo stame nero per indicare i giorni di sventura; Atropo, la più vecchia, con le sue forbici tagliava il filo quando giungeva il momento di arrestare la vita. Neppure gli dei potevano modificare il destino deciso dal filo tessuto dalle Parche: a un filo corto sarebbe corrisposta una vita molto breve, e viceversa. Sofocle, l’autore di indimenticabili tragedie, vissuto sino a 90 anni, si pensava avesse avuto in sorte un filo assai lungo.
     Oggi la scienza ha dimostrato che, (continua su: il Punto Quotidiano)

Maria D'Asaro, 6.12.2020, il Punto Quotidiano

venerdì 4 dicembre 2020

A chi tocca lucidare l’argento?

      Così, mentre tanti morivano per il virus, altri perdevano il lavoro, medici e infermieri curavano al meglio i malati, nostra signora foderava un cestino, rigovernava, lucidava piattini d’argento. Era la sua piccola, inutile battaglia contro l’entropia. Un po' si vergognava della sua inattività sociale. Al momento però vivere al 12% era anche il suo servizio al Paese. Intanto la attraversavano strani pensieri: comunque era meglio adornare con nastrini una cesta di vimini che fabbricare armi nucleari e tenere un paese sotto scacco. E, con inaudita tracotanza e somma presunzione, si chiedeva se si potesse far cambio, magari solo per qualche settimana: lei capo di Stato da qualche parte, a organizzare ambiente, sanità, economia; o segretario all’ONU a riconvertire le industrie belliche e riscrivere i trattati internazionali; e Kim Jong-un e Trump a giocare a basket e a golf. Prima di tornare a casa per lavorare a maglia e lucidare l’argento… 

giovedì 3 dicembre 2020

Forse Etty aveva ragione...

Etty Hillesum
      Forse Etty aveva ragione, ma bisogna allenarsi molto per arrivare alle sue altezze...
(ringrazio Lucia Comparato e Gioacchino Lagreca per la segnalazione su FB)

"Se noi dai campi di prigionia, ovunque siano nel mondo, salveremo i nostri corpi e basta, sarà troppo poco. Non si tratta infatti di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva. A volte penso che ogni nuova situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove prospettive. E se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare – se non li ospitiamo nella nostra mente e nel nostro cuore, per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione –  allora non siamo una generazione vitale."

   Esther Hillesum, detta Etty (Middelburg, 15 gennaio 1914 – Auschwitz, 30 novembre 1943), è stata una scrittrice olandese ebrea vittima dell'Olocausto. Si laureò in giurisprudenza all'Università di Amsterdam, l'ultima città dove abitò, al numero 6 della Gabriel Metsustraat, con le finestre che davano su una delle piazze principali, il Museumplein, prospiciente al Rijksmuseum.
   Si iscrisse anche alla facoltà di Lingue Slave, ma a causa della guerra dovette interrompere i suoi studi. Concluse invece il percorso di Lingua e Letteratura russa. All'inizio della guerra si interessò della psicologia analitica junghiana, grazie al lavoro dello psico-chirologo Julius Spier che, da paziente, conobbe il 3 febbraio 1941, divenendo in seguito la sua segretaria e una delle amiche più intime. Fra il 1941 e il 1943 tenne un diario che, dal 1981 in poi, sarà pubblicato in varie lingue.
   Nel 1942, lavorando come dattilografa presso una sezione del Consiglio Ebraico, ebbe anche la possibilità di salvarsi, ma decise, forte delle sue convinzioni umane e religiose, di condividere la sorte del suo popolo. Lavorò in seguito nel campo di transito di Westerbork come assistente sociale.
I genitori e i fratelli Mischa e Jaap furono internati tutti nel campo olandese di transito di Westerbork. Il 7 settembre 1943 la, famiglia, tranne Jaap, fu deportata nel campo di sterminio di Auschwitz. Mentre Etty, i genitori e il fratello Mischa morirono poco tempo dopo il loro arrivo ad Auschwitz,  Jaap perse invece la vita a Lubben, in Germania, dopo la liberazione, il 17 aprile 1945, durante il viaggio di ritorno nei Paesi Bassi.
    La data della morte di Etty è con molta probabilità il 30 novembre 1943. (da Wikipedia)

« Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. 
Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave. 
Dobbiamo prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e "lavorare sé stessi" non è proprio una forma di individualismo malaticcio.
Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in sé stesso; se ogni uomo si sarà liberato dall'odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest'odio e l'avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo.»                                                              Etty Hillesum - Diario 1941-1943 - Adelphi