domenica 30 maggio 2021

Eleonora d’Aragona e don Pino Puglisi: l’arte con l’anima

       Palermo – Igor Scalisi Palminteri, l’eclettico artista palermitano che si esprime con la pittura, la scultura, la fotografia, è uno dei pochi che nel capoluogo siciliano ha deciso di restare, come ha dichiarato in un’intervista: «La mia strada l’ho trovata in questa dimensione, quella del fare le cose con gli altri e preoccuparmi della mia città e del sociale. Il mio posto è qui e voglio contribuire al miglioramento della mia città. Ci credo, e spero sia quello che sto facendo in questo momento». 
      Laureato in pittura all'Accademia di Belle Arti di Palermo, l’artista ha esposto le sue opere sia in Italia che in alcune città europee, con mostre collettive o personali. A Palermo è molto impegnato nel sociale; in particolare, organizza laboratori creativi con bambini e ragazzi a rischio, nei quartieri disastrati delle periferie. Nell’estate del 2018, dopo la realizzazione del murale dedicato a San Benedetto il Moro in occasione dell'undicesima edizione dell’iniziativa "Mediterraneo antirazzista", ha coordinato il progetto di creazione di cinque murales nel quartiere Albergheria di Palermo e vi ha contribuito con una magnifica santa Rosalia, la ‘santuzza’ protettrice della città, assieme a san Benedetto.
    Nel comune di Contessa Entellina - borgo arbëreshë, cioè di origine albanese, con rito greco-bizantino, a circa 80 km. da Palermo – Igor Scalisi Palminteri ha realizzato un grande murale dedicato a Eleonora d'Aragona: nipote del re di Sicilia Federico III, vissuta nella seconda metà del 1300, la contessa Eleonora si sposò, governò e morì nel cuore interno della Sicilia, tra Giuliana e Caltabellotta; il suo monumento funebre fu eretto nel monastero di Santa Maria del Bosco di Calatamauro, nei pressi di Contessa Entellina. La bellezza di Eleonora fu immortalata da Francesco Laurana, scultore di origini dalmate, che realizzò intorno al 1468 il magnifico busto marmoreo oggi custodito al museo Abatellis di Palermo: il volto di Eleonora è perfetto, di una delicatezza estrema, un capolavoro dell’arte rinascimentale. 
    “Non sono solito dipingere regnanti o potenti; preferisco santi protettori, artigiani, povera gente - dice Igor Scalisi Palminteri - ma in questo caso mi ha convinto la figura di Eleonora, signora amata dal popolo. E, soprattutto, il confronto con una scultura: la tridimensionalità mi ha sempre affascinato, la vera sfida è stata trovare un modo per riprodurne la profondità. Non ho interpretato, le linee sinuose e ieratiche già bastano: è come se avessi fatto la cover di una canzone. La mano del Laurana, la delicatezza dell’ovale, la signorilità che sembra sprigionare dall’intera figura della nobildonna, la sua storia che ha attraversato i secoli: tutto mi ha portato ad amare Eleonora, a volerla rendere viva”. Il grande murale che raffigura Eleonora d’Aragona è parte del progetto del Comune “Mecenati di noi stessi”, che proseguirà con altre realizzazioni artistiche: allo scultore palermitano Vincenzo Muratore è stata commissionata una scultura dell'eroe albanese Skanderberg. Vicino al murale della nobildonna siciliana, Igor Scalisi Palminteri ha già disegnato un secondo affresco che riproduce lo stemma del Comune: la nera aquila bicipite e coronata, simbolo d'Albania, che tiene tra le zampe un nastro con il nome di Contessa Entellina. 
   Intanto a Palermo, nel quartiere Brancaccio, a piazza Anita Garibaldi in un palazzo vicino all’abitazione del prete – ora divenuta casa/museo - Palminteri ha ultimato il murale, alto ben nove metri, raffigurante padre Pino Puglisi, ucciso dai mafiosi il 15 settembre 1993, proclamato beato dalla Chiesa cattolica il 25 maggio 2013, proprio otto anni fa.
    "Quando fai don Pino alto tre piani, stai dicendo che hai spento una vita e hai acceso un incendio", dice Alessandro De Lisi che ha curato il progetto "Spazi Capaci/Comunità Capaci" della Fondazione Falcone e del Ministero dell'Istruzione per il ventinovesimo anniversario della strage.
    Grazie al murale di Igor Scalisi Palminteri, il sorriso magnetico di don Pino torna a vivere nel suo quartiere e continua a vegliare sui ragazzi che giocano nel campetto di calcio, a lui intitolato. E lo sguardo luminoso di don Pino sembra donare a Palermo nuova forza e una rinnovata speranza.


Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 30.5.21

venerdì 28 maggio 2021

Domande bambine

Magritte: The infinite recognition (1963)
         Stare sospesa nel vuoto col rischio di cadere è la paura ancestrale di nostra signora. Che sì, ogni tanto, azzarda  e prende  un aereo, col fiato sospeso e il cuore a mille.  Così, da qualche giorno, non l’abbandona il pensiero di quella funivia disastrata. E si chiede perché proprio loro, quattordici meravigliose vite spezzate. Perché proprio loro e non lei o chiunque altro. Non trova nessuna ragionevole risposta.
      Poi, all’improvviso, si fa un’altra domanda: se la volontà e le energie degli umani, dagli albori della Storia a oggi, fossero state impiegate e ben spese per la tutela della vita - e non per guerre, industria delle armi e per miliardi di inutili, assurdi profitti – quanti milioni di volti sorriderebbero ancora?
     Perché si è così stupidi e cattivi da rendere questo pianeta un inferno invece di farne un Paradiso? Domande bambine, di una che viveva a fatica in un universo insensato.

Maria D’Asaro

martedì 25 maggio 2021

Abbracci verdi

       Ci si abbraccia tra amici, amanti o parenti con confidenza e fiducia. Ci si abbraccia per cercare conforto. Da un abbraccio sincero, dallo scambio che ne consegue, si ha vicendevole vantaggio.    Anche quando si abbraccia una causa, una fede o, con uno sguardo, un paesaggio, rimane la condizione di proficuo scambio (…).
      Anche le piante si abbracciano. Per alcune è nella loro natura: quelle volubili muovono in cerchio il fusto ancora tenero, attorcigliandosi a un albero o a un ramo che funge da sostegno; le rampicanti hanno particolari organi prensili (circi, viticci, ventose) che usano per alzarsi sino a trovare luce sufficiente, determinando la ragione vera dell’abbraccio. Il nome generico di queste piante è liana: a loro deve l’incredibile agilità Tarzan che “dondolandosi di ramo in ramo … raggiungeva la punta più alta delle più elevate piante tropicali con la facilità e la velocità di uno scoiattolo”. (…).
     L’uomo ha ben approfittato della propensione vegetale all’abbraccio: (…) fin dai tempi etruschi ha realizzato il più proficuo degli abbracci tra gli alberi della campagna, maritando la vite all’olmo, all’acero campestre, al salice o al pioppo. (…).
     Anche l’uomo ha imparato ad abbracciare gli alberi. Ha trovato molte buone ragioni per farlo, alcune di ordine spirituale e simbolico, altre legate ai bisogni concreti della vita. Gli alberi svolgono a vantaggio nostro e del pianeta così tante e diverse funzioni che è impossibile elencarle tutte. Gli economisti li definiscono organismi multifunzionali, perché sono capaci di svolgere nello stesso tempo funzioni economiche, ambientali e culturali; e si affannano a trovare formule che trasformino in guadagno non solo il legno o i frutti, ma anche la capacità di trattenere il suolo, di mitigare il clima e di accompagnare una passeggiata o un ricordo.
    Per comprendere cosa è davvero la multifunzionalità e le molte ragioni per cui gli alberi meritano di essere abbracciati, è meglio ricorrere alla storia e alla letteratura: da Plinio il Vecchio “Con l’albero solchiamo i mari e avviciniamo le terre una all’altra, con l’albero costruiamo le case. Di legno erano anche le statue degli dei  (…)” a Marguerite Yourcenar “Le radici affondate nel suolo, i rami che proteggono i giochi degli scoiattoli, i rivi e il cinguettio degli uccelli; l’ombra per gli uomini; il capo in pieno cielo. Conosci un modo di esistere più saggio e foriero di buone azioni?”

Giuseppe Barbera Abbracciare gli alberi Mondadori, Milano, 2009











domenica 23 maggio 2021

L'albero Falcone e le talee della legalità

      Palermo – “In una città bisogna piantare molti alberi e difendere quelli che già vi crescono, perché hanno una grande quantità di funzioni che si oppongono al degrado urbano e all’inquinamento. Gli alberi migliorano il clima, filtrano le sostanze inquinanti, assorbono i rumori, incrementano la biodiversità, hanno utili funzioni ricreative e culturali. Perché la loro efficacia sia colta, la città va considerata come un ecosistema incapace di sostenersi da solo, che dipende dall’ambiente circostante – dal quale riceve energia, alimenti, acqua e diversi materiali – e al quale cede i rifiuti, il calore dell’entropia, ma anche tutte le meraviglie del sapere umano”. Così scrive Giuseppe Barbera, professore di Colture Arboree all’Università di Palermo, nel testo “Abbracciare gli alberi”, dove ricorda gli aranceti perduti della Conca d’oro di Palermo e i mille motivi di gratitudine verso i nostri verdi ‘fratelli maggiori’.
     Il 23 maggio è d’obbligo ricordare un particolare albero palermitano: l’imponente ficus, specie ‘macrophilla columnaris magnolioides’, che si trova in via Notarbartolo 17, davanti al palazzo dove abitava il giudice Giovanni Falcone, assassinato da Cosa nostra il 23 maggio 1992 a Capaci con la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Il ficus di via Notarbartolo è diventato uno degli alberi più conosciuti al mondo: sul suo tronco, meta sino a prima della pandemia del tributo di studenti e cittadini di ogni parte d’Italia, sono appesi centinaia di messaggi, foto, pensieri dedicati al giudice Falcone e all’impegno contro la mafia. Quest’anno dall’albero Falcone partirà un progetto chiamato "Un albero per il futuro", promosso dal corpo dei Carabinieri Forestali in collaborazione con il Comune e Soprintendenza di Palermo e la Fondazione Falcone: verranno prelevate dal ficus parecchie gemme che saranno coltivate nel Centro nazionale carabinieri per la biodiversità forestale (CNBF) di Pieve Santo Stefano (in provincia di Arezzo) e poi messe a dimora nelle scuole italiane che ne faranno richiesta.
   I primi Istituti scolastici a ricevere le piantine saranno quelli intitolati al giudice Falcone: 108 scuole tra primarie e secondarie di I e II grado. Le talee inizieranno a essere distribuite il 21 novembre prossimo, giorno della festa dell’albero; potranno comunque essere richieste da ogni scuola italiana con una mail da inviare all’indirizzo unalberoperilfuturo@carabinieri.it.
    Le scuole potranno richiedere anche talee di altre piante da mettere a dimora in un’area del proprio plesso o in altre zone bisognose di essere riqualificate. Un pezzetto dell’albero Falcone, assurto a simbolo della resistenza alla mafia e della lotta per la legalità e la giustizia, entrerà quindi negli Istituti scolastici per sensibilizzare le nuove generazioni anche sull’impegno per l’ambiente. 
   Gli alberi distribuiti dai Carabinieri contribuiranno a realizzare nel nostro Paese un grande bosco diffuso, costituito da specie autoctone che, crescendo, aumenteranno la qualità ambientale. Ogni pianta potrà essere geolocalizzata tramite uno speciale cartellino apposto su ciascuna di esse; sarà inoltre possibile seguire a distanza, su un’apposita piattaforma web, l’andamento e l’espansione del nuovo bosco, apprezzando anche il progressivo risparmio di CO2. 
    Un plauso allora all’iniziativa, i cui dettagli si trovano nel sito dei Carabinieri, alla pagina Eventi/Un albero per il futuro, dove si legge: “Le scuole saranno supportate dai Carabinieri Forestali con lezioni anche web in air in cui verranno presentate le magnifiche Riserve Naturali dello Stato, vero scrigno di natura amministrato e curato dall’Arma, approfonditi tutti i benefici ecologici degli alberi e chiarite le buone pratiche che potranno garantire un futuro più verde. “Un albero per il futuro” è un’occasione per conoscere i tesori naturali, accrescere la biodiversità del nostro Paese e lasciare un segno verde di speranza. “


Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 23 maggio 2021

venerdì 21 maggio 2021

Iddu è me figghiu…

   Nostra signora ignora se, oltre lo Stretto, i fruttivendoli di strada siano tanto diffusi. A Palermo non c’è straduzza fuori mano che non ne ospiti qualcuno. 
     Nel suo girovagare da post zona gialla, eccone uno, col suo lapone. Attratta dal bell’aspetto delle prime albicocche, aspetta il turno dopo tre avventori. Uno dei quali esorta il fruttivendolo, un quarantenne dal volto invecchiato dal sole, a comprare un ombrellone per proteggere la frutta dal caldo. Rimane l’ultima cliente: “Prego, dopo di lei”. 
    Ma la signora - età indefinibile tra i 65 e i 75, capelli radi tagliati male, gonna e maglietta nera forse da lutto stretto, senza qualche dente, esclama con un largo e cordiale sorriso:  “Signù. Sono sua madre. Iddu è me figghiu!” Nostra signora va via con due chili di albicocche e il cuore pieno dell’amore assoluto di questa madre: in piedi, sotto il sole, compiaciuta di contemplare suo figlio.

Maria D'Asaro

mercoledì 19 maggio 2021

Il farmaco nella relazione di cura

Vincent van Gogh: Iris
      Pensare la psicofarmacologia analizzando il significato relazionale del farmaco nell’ottica della Gestalt Therapy, evidenzia come, al di là delle specifiche qualità del farmaco, la prescrizione assume valore terapeutico dal contesto relazionale nel quale la modalità di porsi del medico e del paziente si declina e si evolve.
     La prescrizione del farmaco si iscrive quindi all’interno dell’orizzonte relazionale dal quale di volta in volta ricava significato e prospettiva di intervento.
       L’associazione americana dei direttori della scuola di specializzazione in Psichiatria, in un documento del 1990, ha posto con grande preoccupazione l’irrinunciabile necessità di formare psichiatri capaci di integrare psicoterapia e farmacoterapia, per evitare le gravi conseguenze di una psichiatria affidata alle sole conoscenze neurobiologiche senza la consapevolezza dei fenomeni psicologici che si sviluppano nella relazione terapeutica.
      Si tratta della necessità di integrare in modo creativo, nel campo della pratica clinica, il sapere biologico e il sapere psicologico, nel tentativo di superare l’ultra millenaria scissione e contrapposizione tra corpo e psiche, la sterile controversia tra biologismo e psicologismo.
    La Gestalt Therapy possiede questa possibilità creativa di integrazione proprio nei suoi fondamenti epistemologici, per la prospettiva olistica e relazionale della natura umana che la contraddistingue. Ѐ nell’ottica olistica (…) che si supera la dicotomia soma/psiche.
       L’elemento fondamentale che consente quest’integrazione è costituito essenzialmente dalla dimensione relazionale del ‘prendersi cura’ della sofferenza psichica. Nella GT terapeuta e paziente vengono visti come ‘globalità relazionale’ e la chiave di lettura dei processi terapeutici risiede nell’intenzionalità di contatto, cioè nel modo in cui entrambi sperimentano il contatto tra di loro in una relazione che si evolve.
   Consapevoli che la risposta globale alla sofferenza conduce a risultati terapeutici più efficaci e duraturi nel tempo, guardare il processo terapeutico nella sua ‘globalità relazionale’ consente l’integrazione dei diversi interventi di psicoterapia e di farmacoterapia, con un’azione (…) sinergica.

Salonia, Conte, Argentino:Devo sapere subito se sono vivo (Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2013). 
Il brano riportato è tratto dal capitolo scritto dalla dottoressa  Paola Argentino:
 La dimensione relazionale della psicofarmacologia: dalla compliance al transfering gestaltico,  
pag. 248/249  


domenica 16 maggio 2021

Al mio cuore, di domenica

Ti ringrazio, cuore mio:
non ciondoli, ti dai da fare
senza lusinghe, senza premio,
per innata diligenza.

Hai settanta meriti al minuto.
Ogni tua sistole
è come spingere una barca
in mare aperto
per un viaggio intorno al mondo.

Ti ringrazio cuore mio:
volta per volta
mi estrai dal tutto,
separata anche nel sonno.

Badi che sognando non trapassi quel volo,
nel volo
per cui non occorrono le ali.

Ti ringrazio, cuore mio:
mi sono svegliata di nuovo
e benché sia domenica,
giorno di riposo,
sotto le costole
continua il solito viavai prefestivo

Wislawa Szymborska: La gioia di scrivere - Tutte le poesie (1945-2009),
Adelphi Edizioni, Milano 2009, pag. 249 (trad. Pietro Marchesani


giovedì 13 maggio 2021

La grammatica del desiderio

V. van Gogh: Terrazza del caffe, la sera (1988)
     Desiderare è inevitabile: ‘sono, quindi desidero’. Anche chi deluso smette di desiderare, continua a desiderare di non soffrire, paradossalmente desidera di non desiderare invano. Fin quando c’è un attimo di vita si desidera, al limite, che esso sia ‘buono’ per noi.
       Desiderare è inevitabile, sta a noi decidere il cosa e il come desiderare. Ecco perché è necessario imparare a desiderare (…).
    Tenuta presente la decisiva distinzione tra bisogno e desiderio, esploriamo le fonti del desiderare da cui scaturiscono i tanti desideri. Dentro tutti i desideri si desidera, in ultima istanza, di essere se stessi (integrità) e, dopo, di realizzarsi in tutte le possibilità (pienezza).(…). 
        Ma cosa accade se l’altro non accoglie e non ricambia il desiderio? Certamente si vive una grande sofferenza, ma, a differenza del bisogno, il desiderio anche quando non è soddisfatto non intacca la crescita della persona, anzi può favorire un più forte contatto con se stessi e una più matura presa di consapevolezza della diversità e dell’imprendibilità dell’altro. Il desiderio, come è stato detto. È tale se emerge dal grembo della reciprocità, ossia del riconoscimento dell’alterità.(…). 
     Saper desiderare è garanzia di felicità? La domanda non è provocatoria: in realtà, sembra che il desiderio di integrità e di pienezza siano nomi diversi del desiderio ineliminabile di ogni cuore: la felicità o i suoi dintorni. Ma la felicità umana, scrisse Betti, è come un quadrato a cui manca e mancherà sempre un lato. Desiderio e felicità sono inconciliabili? (…) Senza una stazione di arrivo, che senso ha il desiderare? Non potrebbe, forse, il desiderare essere un trucco e un’illusione per dimenticare o negare l’inquietudine infinita, inappagabile che brucia nel cuore degli umani? Torniamo alla domanda iniziale: i desideri sono, forse, irraggiungibili come stelle?
     E’ vero: niente può saziare il cuore umano. (…) Sempre infelici? O sempre nei dintorni della felicità, che sono estesi e profondi e che piace al nostro cuore circumnavigare, sperimentando una pienezza sempre più piena e a volte l’attimo della felicità che illumina e rischiara il cammino che rimane.
      Le stelle forse ci aiutano a comprendere come i desideri si coniughino con la felicità (…). I desideri, come stelle, brillano nel cielo del nostro corpo: possono per un attimo essere oscurati, ma poi tornano a brillare. E’ vero: le stelle palpitano, attraggono, ma sono irraggiungibili. 
    Anche i desideri sono irraggiungibili? Adesso sappiamo che i desideri sono raggiungibili, ma è la pienezza totale – quella che chiude ogni ricerca – ad essere irraggiungibile. Le stelle sono lì nel cielo per ricordarci di riprendere sempre a desiderare: ogni desiderio allarga, non chiude la pienezza. Anzi, dopo essersi compiuto, il desiderio si rigenera e riprende il cammino verso nuove stelle, nuove pienezze. Le stelle del nostro desiderio ci portano fuori dall’inferno (“E quindi uscimmo a riveder le stelle”) verso “L’amor che move il sole e l’altre stelle”.
      E se, in fin dei conti, ogni stella fosse un nostro desiderio? E se il cuore, come un cielo di stelle, illumina e brilla perché palpitante di tanti desideri?

Giovanni Salonia: Desiderio e bisogno, in Parola spirito e vita – Il desiderio, 2013, n.67, 243-255

martedì 11 maggio 2021

Allegro ma non troppo

Matisse: Finestra aperta a Collioure (1905)
Sei bella — dico alla vita —
è impensabile più rigoglio,
più rane e più usignoli,
più formiche e più germogli.

Cerco di accattivarmela,
di blandirla, vezzeggiarla.
La saluto sempre per prima
con umile espressione.

Le taglio la strada da sinistra,
le taglio la strada da destra,
e mi innalzo nell’incanto,
e cado per lo stupore.

Quanto è di campo questo grillo,
e di bosco questo frutto —
mai l’avrei creduto
se non avessi vissuto!

Non trovo nulla — le dico —
a cui paragonarti.
Nessuno ha fatto un’altra pigna
né migliore, né peggiore.

Lodo la tua larghezza,
inventiva ed esattezza,
e cos’altro — e cosa più —
magia, stregoneria.

Mai vorrei recarti offesa,
né adirarti per dileggio.
Da centomila anni almeno
sorridendo ti corteggio.

Tiro la vita per una foglia:
si è fermata? Se n’è accorta?
Si è scordata dove corre,
almeno per una volta?

Wislawa Szymborska: La gioia di scrivere - Tutte le poesie (1945-2009),
Adelphi Edizioni, Milano 2009, pag. 315 (trad. Pietro Marchesani

Qui il bel post di Rossana Rolando sulla poetica di Wislawa Szymborska

domenica 9 maggio 2021

Beato il "giudice ragazzino": laico credente e credibile

      Palermo – Non aveva neppure 38 anni Rosario Livatino, il giudice ucciso da quattro killer della ‘Stidda’, la mafia agrigentina, sulla Statale 640 Caltanissetta/Agrigento, mentre si recava senza scorta al Tribunale di Agrigento, il 21 settembre 1990.
     Il 9 maggio – stesso giorno in cui nel 1993 papa Giovanni Paolo II pronunciò alla Valle dei Templi l’anatema contro i mafiosi – il giudice sarà proclamato ‘beato’ nella Cattedrale di Agrigento, primo magistrato ad essere tale, nella storia della Chiesa cattolica.
     Tante pubblicazioni hanno attestato la statura etica di Livatino, esaltata anche dal film di Alessandro Di Robilant ‘Il giudice ragazzino’, con Giulio Scarpati nel ruolo del magistrato. Nel libro Rosario Livatino, un laico a tutto tondo (Di Girolamo, Trapani, 2021, € 10) Augusto Cavadi presenta la vicenda umana di Livatino da una prospettiva laica, valida quindi per credenti e non credenti. 
    Dopo aver chiarito la pluralità semantica del termine ‘laicità’, Cavadi ne giustifica l’attribuzione a Livatino, cattolico praticante “nell’accezione oggi dominante di mente tesa alla ricerca, aperta al confronto, scevra da certezze dogmatiche, leale nei confronti della Repubblica democratica e delle sue leggi”. Sottolinea infatti che il giudice “coltiva la dimensione della fede, consapevole che la vocazione alla santità non è un’esclusiva di frati e suore, ma riguarda tutti i battezzati; anzi l’intera umanità che vive anche all’esterno dei confini ecclesiali”. Livatino infatti viveva sì una religiosità “tradizionale, quasi adolescenziale, intelligentemente conservatrice”; ma non fu affatto un integralista. Significativa la pagina del diario dove scrive: «Alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili».
Ma chi era Rosario Livatino?
     Era uno che rifiutava la scorta perché, confidava al parroco: «Non posso permettere che padri di famiglia possano perdere la propria vita per difendere la mia»; uno che rispettava il lavoro del personale delle pulizie e aspettava che si asciugasse il pavimento, prima di entrare nella sua stanza in Tribunale; uno che, se qualcuno lo riconosceva in un ufficio pubblico, non voleva privilegi; uno che, l’indomani di Ferragosto, portò di persona la notifica di remissione in libertà per un detenuto nel carcere ‘Petrusa’ di Agrigento: a chi gli fece notare che poteva aspettare il lunedì successivo, rispose che il detenuto, pagato il suo debito, aveva diritto subito alla libertà. Uno che - disse sua madre in una rara intervista - credeva nell’onestà, nella rettitudine, nell’umanità: “Non era uno che amava mostrarsi, eppure non mancava mai di dare agli altri. Lo faceva in silenzio. Se sapeva che qualcuno aveva bisogno, lui mi diceva “Tieni mamma”. Lo dava a me perché io lo dessi agli altri.” 
    Era un magistrato particolarmente rispettoso delle prerogative della difesa: “Il rispetto per gli avvocati difensori era anche un modo per manifestare e concretizzare il rispetto per gli imputati”, scrive Cavadi. Aveva una concezione altissima della magistratura e riteneva che il magistrato deve essere un cittadino modello. Ecco le sue parole in una conferenza del 1986: «I magistrati, credenti e non credenti, nel momento del decidere, devono dimettere ogni vanità e ogni superbia, devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani». I colleghi hanno poi testimoniato la sua preparazione eccellente, la sua notevole capacità di approfondimento, la sua tenacia, la sua capacità di evitare ogni condizionamento, il suo essere alieno da ogni forma di protagonismo.
   Perché è stato ucciso?
Cavadi ricorda una triste verità: “La violenza mafiosa non è mai cieca, ‘selvaggia’, superflua: è mirata, strategica, programmata”. In Sicilia, se ci si trova in una situazione di generale sottomissione a Cosa nostra, la violenza mafiosa agisce per punire in modo esemplare chi non si piega agli avvertimenti e “dà un cattivo esempio alla propria categoria”: “Senza i commercianti pavidi, i medici compiacenti, i magistrati corrotti… queste categorie non avrebbero avuto tante vittime. Ѐ il compromesso delle maggioranze silenziose a rendere rischiosa la vita delle “minoranze critiche”. Affermazione ribadita dal magistrato Salvo Barresi, collega dell’ucciso: “Molte persone (magistrati, investigatori, uomini politici) si sono trovate ad essere esposte all’aggressione della mafia non tanto perché hanno fatto un passo avanti rispetto alle altre, ma molto più semplicemente perché sono rimaste con coscienza al loro posto, mentre tutti gli altri facevano un passo indietro.”
   Purtroppo, la tenace azione giudiziaria del giudice Livatino non è stata sempre sostenuta a dovere nei Tribunali; ed era poco “appoggiata” nel difficile clima politico di allora (Cavadi ricorda che nel 1990 a presiedere la I sezione della Cassazione c’era il ‘garantista’ giudice Carnevale e come Capo dello Stato e del Consiglio Superiore della Magistratura il discusso Francesco Cossiga). 
    Scrive ancora su Livatino il collega Luca Tescaroli: “Livatino apparteneva a quel gruppo di persone, che hanno fatto e fanno del coraggio e dell’adempimento del dovere, nel completo rispetto della legge, uno stile di vita. Egli sapeva bene i rischi che correva ma rimase al suo posto nonostante le minacce e gli avvertimenti, l’assenza di mezzi, le singolari prudenze dei superiori e il senso di impotenza. Un eroe moderno cui il nostro Paese deve essere profondamente grato e che non può mai essere dimenticato per la sua lezione di professionalità e di dignità.”
    Si comprende quindi la volontà della Chiesa cattolica di dichiararlo beato. 
   Operazione non priva di rischi, scrive Cavadi: da un lato, infatti, si potrebbe credere che la Chiesa siciliana sia sempre stata esente da omissioni e da qualche compromesso con la mafia, dall’altro c’è il pericolo che Livatino (e prima di lui don Pino Puglisi) diventino dei ‘santini’ “sempre più ammirabili e sempre meno imitabili”. Tuttavia, sottolinea l’autore: “La canonizzazione di Livatino potrebbe lanciare anche un duplice messaggio teologico: chi muore nell’adempimento “normale” del proprio mestiere merita lo stesso riconoscimento ecclesiale di chi muore nelle condizioni ‘straordinarie’ di un missionario in terra di infedeli” e dunque “chi – come il mafioso – calpesta …un principio etico, un fratello è un nemico di Dio e del suo Cristo”.
   Il libro, infine, ha il merito di ricordare anche il coraggio civico di Pietro Nava, rappresentante bergamasco di porte blindate, che, avendo assistito all’uccisione del magistrato, ha denunciato e testimoniato, consentendo di individuare e processare gli assassini del giudice ucciso, sebbene la sua azione gli sia costata il cambio d’identità, di città e altri enormi sacrifici. A Livatino (e al testimone coraggioso Pietro Nava) - scrive ancora il magistrato Luca Tescaroli - la nostra immensa gratitudine, perché, in modo diverso, hanno dato prova che “il proprio dovere non può essere condizionato dall’interesse personale, dal compromesso e dall’esistenza dei pericoli. La paura, sulla quale prosperano la mafia e l’omertà, può essere sconfitta.”
   Allora, conclude Cavadi, sia credenti in un Dio di giustizia e amore, come il giudice Rosario Livatino, sia non credenti “daremo senso alle nostre effimere esistenze solo facendo del nostro meglio affinché qualcosa di tale ipotetico Potere trascendente possa rilucere nell’ambigua quotidianità della nostra storia”.


Maria D'Asaro, 9.5.21, il Punto Quotidiano

(Il 9 maggio 1978 è stato un giorno tragico per l'Italia: ucciso dalle BR l'onorevole Aldo Moro e a Cinisi, dalla mafia, Peppino Impastato)

giovedì 6 maggio 2021

Dal bisogno al desiderio. Il desiderio e la legge

Vincent Van Gogh: Notte stellata sul Rodano
      Il desiderio nasce quando il bisogno, a suo tempo soddisfatto, ha cominciato a perdere le caratteristiche dell’urgenza: inizia così la trasformazione da bisogno in desiderio.  (…) Se un bisogno non viene soddisfatto, non si trasforma in desiderio e si rimane fissati ad una modalità relazionale io-esso (l’altro come protesi del proprio bisogno). (…)
     Ѐ decisivo tracciare una linea di demarcazione tra bisogno e desiderio: il bisogno è unilaterale, ha il ritmo del tutto-e-subito, serve a se stessi; il desiderio invoca la reciprocità, ha tempi condivisi e ritmati con l’altro, tende alla pienezza. Per restare dentro l’etimo, si può affermare che nel bisogno non ci si accorge delle stelle, nel desiderio si ha tempo per vedere le stelle.
   Nell’approdare dalla sponda del bisogno a quella del desiderio, è necessario attraversare il nodo cruciale dell’istanza regolativa. (…) Ogni desiderio deve essere soddisfatto? (…)
Un pensiero ancora dominante contrappone la passione alla ragione, il pathos al logos … il principio del piacere a quello della realtà. (…)
La nuova ermeneutica vede proprio dentro il costituirsi del desiderio la presenza dell’istanza regolativa. (…)
     Mentre nell’animale l’istinto è autoregolato o è addestrato, negli umani l’istinto diventa desiderio e il desiderio nasce e si regola dentro una relazione. Non si tratta di una legge imposta dall’esterno, ma iscritta dentro la relazione quando l’uomo ascolta il proprio cuore, il proprio corpo (abita con se stesso e non fuori di sé) sperimenta che il desiderio genuino si incarna in una relazione, e dentro tale relazione trova il suo ordo (quel suggestivo ordo amoris di cui parlava già Agostino) nel quale piacere e dovere, pathos e logos sono a livello costitutivo inscindibilmente connessi. (…)
     Ѐ la curvatura clinica del pensiero del grande Agostino (…). In questa chiave di lettura, Agostino fiducioso nel desiderio genuino che alberga nel cuore dell’uomo – può esclamare “Ama e fa quel che vuoi” che può essere tradotto “Ascolta il tuo cuore, il tuo corpo e va dove ti porta il desiderio”.

Giovanni Salonia: Desiderio e bisogno, in Parola spirito e vita – Il desiderio, 2013, n.67, 243-255

martedì 4 maggio 2021

Desideri e stelle

Vincent Van Gogh: Notte stellata
       La magia del desiderio sta proprio nella sua etimologia: eccede e accende le stelle. (…) Il desiderare è forse dono delle stelle? O forse è guardando le stelle che si impara (o si è costretti a imparare) a desiderare? Si sa, d’altronde, che ciò che brilla attrae e incanta. Appena ci si accorge del ‘cielo stellato sopra di me’ e si scoprono le stelle (come Ciaula scopre la luna) si diventa capace di desiderare, si diventa uomo.
     Chissà, forse ammirare (contare!) le stelle precede e qualifica il desiderare e il decidere. Forse solo un desiderio pieno di stelle può diventare luce che brilla e illumina la notte.
     Ma – è questa la domanda inquietante – se i desideri sono intrisi di stelle, sono per questo irraggiungibili come le stelle? I nostri desideri, dunque, una passione inutile? O, in versione, postmoderna ‘passioni tristi’? E che senso ha il desiderare se il desiderio è irraggiungibile? Cinicamente (o lucidamente?) Pavese annota che non ha senso desiderare se nessuno ci ha promesso niente.
A questo punto ci sconvolge Levinas, che sostiene che il desiderio è possibile solo dopo l’appagamento. Sembra un circolo vizioso: per essere appagati bisogna aver desiderato, ma per desiderare bisogna essere stati appagati.
       Perché non sia un infinito gioco di rimandi, forse bisogna esplorare il mistero della genesi del desiderio. E si approda al bisogno: forse il desiderio nasce solo dopo che il bisogno (e non il desiderio) è stato placato. In altre parole, un bambino affamato non può godere le stelle.
     Solo dopo essere sazi, si può alzare lo sguardo, contemplare le stelle e iniziare (o tornare) a desiderare.

Giovanni Salonia: Desiderio e bisogno, in Parola spirito e vita – Il desiderio, 2013, n.67, 243-255


domenica 2 maggio 2021

Scala dei Turchi: l'incanto sul mare

     Palermo – Al turista che visita Agrigento, con gli occhi già pieni della straordinaria bellezza della Valle dei Templi, basterà imboccare la Statale 115 e percorrere circa 16 km per ammirarla: oltre Porto Empedocle, lungo la costa che porta al paese di Realmonte, troverà la ‘Scala dei Turchi’, l’incantevole parete rocciosa che forma una sorta di scalinata naturale a strapiombo sul mare. 
 A conferire alla scogliera l’abbagliante e suggestivo colore bianco è una particolare roccia sedimentaria calcarea ed argillosa, la marna. 
    La parete rocciosa - con i suggestivi gradoni dalla forma sinuosa, ondulata e tondeggiante - deve la speciale conformazione all’azione del vento e del mare. Il nome le deriva invece dall’appellativo con cui la popolazione locale usava chiamare i pirati saraceni che, intorno al sedicesimo secolo, la utilizzavano come approdo per le loro scorrerie nei paesi costieri.
   La particolarità della falesia è stata utilizzata da alcuni registi che vi hanno girato scene dei loro film: Giuseppe Tornatore, per “Malèna”; Pierferdinando Diliberto, in arte Pif, per “In guerra per amore”. Il compianto Andrea Camilleri vi ha ambientato una parte del romanzo “La prima indagine di Montalbano”, in cui l’autore descrive le reazioni del commissario alla vista della scogliera: “Finì il gelato di cassata, pagò alla cassa, niscì, pigliò la machina che aviva lasciata poco distante e partì verso la Scala dei Turchi. Passato un promontorio, la Scala dei Turchi gli apparse ‘mprovvisa. Se l’arricordava assai più imponenti, quanno si è nichi tutto ci appare più granni della realtà. Ma anche accussì ridimensionata conservava la sua sorprendente billizza. Il profilo della parte più alta della collina di marna candida s’incideva contro l’azzurro del cielo terso, senza una nuvola, ed era incoronato da siepi di un verde intenso.  Nella parte più bassa, la punta formata dagli ultimi gradoni che sprofondavano nel blu chiaro del mare, pigliata in pieno dal sole, si tingeva, sbrilluccicando, di sfumature che tendevano al rosa carrico. Invece la zona più arretrata del costone poggiava tutta sul giallo della rina.” 
    Sembra incredibile, ma questo tratto di paradiso ha rischiato di essere deturpato dall’abusivismo edilizio: negli anni ’80 vi era sorto un cantiere per la costruzione di un grande albergo, poi bloccato dalle denunce di Legambiente. La costruzione fu poi abbattuta nel 2013 anche grazie al contributo del FAI (Fondo Ambiente Italiano).
    Salvata dall’abusivismo, purtroppo la Scala dei Turchi è però a grave rischio idrogeologico: pericolosi cedimenti si sono verificati proprio nei giorni scorsi, soprattutto nella parte ovest della scogliera, che necessita di urgenti interventi di messa in sicurezza sia per la sua salvaguardia e il mantenimento dell’aspetto originario sia per l’incolumità dei visitatori. 
     Turisti ai quali dal febbraio 2020 è comunque impedito l’accesso, essendo tutta l’area sotto sequestro dal febbraio 2020 per una particolare contesa giudiziaria, a riprova di stare nella patria di Luigi Pirandello. La proprietà della scogliera bianca è contesa infatti tra il comune di Realmonte e un privato cittadino, Ferdinando Sciabarrà, che rivendica la legittimità del suo possesso esibendo un titolo di proprietà risalente al lontano novembre 1889. Nell’attesa che un’udienza civile decida a chi appartenga il prezioso tratto di costa, il signor Ferdinando è comunque disposto a cedere gratuitamente al comune di Realmonte il bene prezioso.
     Nell’attesa di una rapida chiusura del contenzioso e dell’immediata messa in opera dei lavori di messa in sicurezza, prima dal comune di Realmonte, poi dall’Assemblea Regionale siciliana, è stato già avviato l’iter di candidatura della Scala dei Turchi a sito Unesco, perché l’incantevole falesia sia inserita nei siti geologici Patrimonio dell’Umanità.

Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 2.5.21