Non esiste nella tradizione buddista qualcosa come la preghiera. Esistono i Rifugi: chiedere al Buddha, al Dharma, al Sangha, di darci rifugio, di farci tana.
Esiste il canto di mettà, chiamare il bene e distribuirlo, condividerlo benedicendo.
Ma il mio amico don Angelo, in una sua omelia, cita le parole del profeta Isaia (51,9) che dicono: «Svegliati, svegliati, rivestiti di forza, o braccio del Signore. Svegliati come nei giorni antichi, come tra le generazioni passate».
E se pregare è svegliare e il bisogno di svegliare nasce dalla percezione della nostra limitatezza, allora tutto il percorso della pratica di meditazione, che è rivolta sempre al Risveglio, è preghiera.
Allora, proprio non è una tecnica nè una forma di erudizione, nè un ennesimo tentativo di onnipotenza, nè la ricerca di un incondizionato benssere distaccato dal tutto.
Allora pregare è svegliare la vita perchè ci dia una mano, perchè abbia compassione, perchè ci sia dialogo.
Perchè la vita è viva.
Si racconta che quando il Buddha si risvegliò. gli alberi lasciarono piovere i loro fiori su di lui.
E il maestro indiano Rajneesh commentò che non si tratta di una metafora: la natura gli stava dicendo: «Non sei solo».
Chandra Candiani Questo immenso non sapere Einaudi, Torino, 2021, pag.119
"Ci sono dei miti duri a morire. Quello della pace come bontà, come armonia, come volersi bene è uno dei più duri in assoluto. È un mito deleterio, spiega Daniele Novara, perché sostanzialmente autodistruttivo e perché contiene al suo interno un’impossibilità operativa che lo rende inutile sul piano pratico.
Eppure negli ultimi quarant’anni tra i movimenti per la pace è emerso un assunto più ambizioso, capace di scavare alla radice della questione violenza e dunque anche della guerra: l’idea che la pace sia prima di tutto conflitto, vale a dire ciò che permette di mantenere la relazione anche nella divergenza, un conflitto non distruttivo che ha bisogno di un addestramento continuo..."(continua qui, grazie a Slec; in origine qui)
Palermo – Che l’estate e il gran caldo non vadano d’accordo con la qualità del sonno, è una realtà generalmente sperimentata. Ad affermarlo scientificamente è ora uno studio dell'Università di Copenaghen, in collaborazione con il Dipartimento di Matematica dell'Università Tecnica della Danimarca e del Max Planck Institute for Human Development di Berlino.
Tale ricerca, pubblicata il 20 maggio scorso su One Earth, ha preso in esame i dati raccolti analizzando il sonno di circa 50.000 adulti residenti in 68 nazioni di tutti i continenti, attraverso smartwatch e bracciali intelligenti che hanno monitorato circa 7.000.000 di dormite notturne.
I ricercatori hanno collegato la qualità del sonno con la temperatura esterna e hanno verificato che, col suo accrescersi, si tarda ad addormentarsi e ci si risveglia prima. L'aumento di temperatura, infatti, rende più difficile l'addormentamento, fa slittare l'orario in cui andiamo a letto e ci fa riposare male. In particolare, se la colonnina di mercurio arriva a 30°, in una sola notte si arrivano a perdere mediamente circa 14 minuti di riposo.
Può sembrare un’inezia, ma se non si farà nulla per abbassare le emissioni di CO2 e gas serra e contenere il riscaldamento climatico, i ricercatori hanno calcolato che il gran caldo farà perdere circa 60 ore di sonno pro capite da qui alla fine del secolo, con conseguenze negative per tutti.
La ricerca ha anche evidenziato la distribuzione del disagio nel dormire nei vari paesi e nelle diverse fasce di popolazione, distinte per genere ed età: la perdita di sonno per il caldo è del 25% maggiore per le donne, del 50% più elevata per chi ha più di 65 anni e tre volte più alta nei Paesi più poveri.
Oltre al caldo, ci sono dei motivi indiretti ad esso collegati per cui in estate si dorme peggio: si va a dormire più tardi anche perché si tende a uscire di più nelle ore notturne e a fare più vita sociale; talvolta di sera si mangia e si beve di più; a casa si sta spesso con le finestre aperte, il che comporta la maggiore percezione di rumori; infine, la maggiore esposizione alla luce inibisce la produzione di melatonina, l’ormone che ci aiuta a dormire meglio.”
Prof. Luigi Ferini Strambi
Come è noto, purtroppo l’insufficiente quantità di sonno incide negativamente sulla salute. Ce lo ricorda il professor Luigi Ferini Strambi, primario del Centro di Medicina del Sonno dell’Ospedale San Raffaele di Milano: “Dormire poco e male incide sulla quantità di cortisolo, l’ormone dello stress. Un valore alto di quest’ormone provoca, tra l’altro, un innalzamento della pressione sanguigna.
Inoltre, la qualità del sonno è correlata alle prestazioni cognitive. La memoria, infatti, se si dorme poco, rischia di essere compromessa; c'è poi una maggiore difficoltà di concentrazione e di attenzione. Al contrario, una buona dormita, resetta il nostro cervello che, al risveglio, è più idoneo a selezionare e a decidere."
La mancanza di sonno, inoltre, accelera i processi neuro-degenerativi: "Durante le ore di riposo il sistema linfatico lavora per ripulire il cervello dalla beta amiloide, una proteina ritenuta responsabile di malattie come l'Alzheimer e dannosa per l'organismo", afferma ancora il professore Ferini Strambi.
Che sottolinea ancora: “Ci sono, inoltre, le conseguenze sull'umore e sull’efficacia del sistema immunitario È stato ormai dimostrato da diversi studi che l'insonnia è un fattore di rischio importante per ansia e depressione e che dormire poco influenza la produzione di citochine, che possono alterare le nostre difese immunitarie".
Dal professore, infine, un’esortazione per tutti, specialmente per i ragazzi: "Una notte brava, in cui si fa l'alba, in cui si dormono solo poche ore, non incide negativamente sull'organismo. Ma attenzione a non esagerare. Accumulare ore di sonno perso può essere molto più negativo di quanto non possiamo immaginare".
"Il Signore mi condusse”, ritratto psicologico e spirituale di Francesco d’Assisi ‘figlio e fratello’, scritto da Giovanni Salonia - frate cappuccino, psicologo e psicoterapeuta, nonché uno dei massimi esponenti contemporanei della Psicologia della Gestalt - è stato presentato a Palermo il 20 giugno scorso, presso la Libreria delle suore Paoline.
La presentazione, intensa, coinvolgente e partecipata - coordinata dalla giornalista e suora paolina Fernanda Di Monte - ha visto gli interventi del prof. Eugenio Borgna e di p. Francesco Neri (in collegamento video), e in presenza della professoressa Ina Siviglia, di don Carmelo Torcivia, di don Simone Bruno e di don Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo.
Il professore Borgna ha analizzato la feconda interconnessione di quattro piste di lettura che attraversano la figura di Francesco: la storica, la teologica, quella psicologico-sociale e quella psicoterapeutica. Ha poi sottolineato come la fraternità, di cui Francesco è stato assertore convinto, nel testo venga collocata tra le dimensioni più umane e profonde e rappresenti “la rivoluzione storica, psicologica, ermeneutica che ricostruisce e rinnova le esperienze di vita e diviene lievito di ogni esperienza comunitaria”. Ha poi concluso evidenziando la bellezza unitaria del testo, che si può gustare quasi come un romanzo e dalla cui lettura si esce ritemprati e rinnovati.
La professoressa Ina Siviglia ha evidenziato come il testo - frutto della sinergia feconda di studio, preghiera e profonda esperienza umana del suo autore - sia attraversato da uno sguardo antropologico che non si può definire né unicamente cristiano né solamente laico.
E' l’orizzonte di una antropologia universale umana che ciascuno può far risuonare a seconda delle proprie scelte, in quanto comprende e lascia spazio a tutte le esperienze umane arricchenti.
La relatrice ha poi sottolineato la differenza tra la 'communitas', in cui si mettono insieme i doni per metterli a servizio, in un contesto comunque di obbedienza, e la 'fraternitas', che assegna ai frati una formazione e una posizione diversa, costituendoli uomini con una parità sostanziale, con la propria soggettività e libertà di coscienza.
E – ha ribadito la professoressa Siviglia – a 50 anni dal Concilio Vaticano II c’è l’urgenza assoluta di uno sviluppo tematico della fraternità: in una società afflitta dalla pandemia e ora dalla guerra, la costruzione di un’antropologia solidale è indispensabile, per dei cristiani che non possono più stare seduti sulla soglia, sui gradini di una Chiesa disimpegnata. Ben venga quindi il contributo così importante del professore Salonia, capace di far sentire anche nel XXI secolo Francesco vivo e attuale: Francesco che abbraccia il lebbroso e sceglie la povertà per essere libero da paure e condizionamenti.
Allora, ha concluso la docente, il testo – che unisce analisi della struttura psicologica e cammino spirituale – è davvero una lettura per tutti e indica ai lettori la necessità di mettere assieme le scienze umane, le neuroscienze, la teologia e la spiritualità per essere capaci di indicare il cammino di un’umanità rinnovata e fraterna.
Intervendo da remoto, p.Francesco Neri (consigliere generale OFM cappuccini) ha proposto una lettura del testo secondo tre binomi: Radice/Frutto (il frutto di Francesco, frutto di fraternità e misericordia, nasce e matura dall’essere attaccato alla radice Gesù); Nome/Benedizione (Il nome ci distingue nella nostra unicità: Francesco chiamava per nome i frati, come segno e incoraggiamento benedicente perché ciascuno fosse capace di sviluppare la propria unicità); Poesia/Cortesia (Francesco, che fu anche paladino dell’ecumenismo, aveva un approccio poetico alla realtà. In questi tempi di nuova barbarie, è necessario recuperare uno sguardo da poeta, per un posizionamento diverso rispetto al dominio, al potere, alla rozzezza del mondo).
Il professore p.Carmelo Torcivia ha poi sottolineato l’approccio transdisciplinare dell’autore che, competente in varie discipline, ha interconnesso e fuso i vari livelli. Con un filo rosso che tutto collega: la rinuncia di Francesco all’eredità paterna e l’inaugurazione, di un codice fraterno e materno, evangelicamente libero da logiche di appartenenza, che apre quasi una sorta di filone antiistituzionale nella Chiesa ...
In conclusione, don Simone Bruno, direttore editoriale delle Edizioni san Paolo, ha esplicitato come la nostra struttura di personalità si costruisca nella relazione, citando letteralmente le parole dell'autore a p.45 del testo: “Il sapere che salva è il saper vivere in relazione: questa è vera sapienza”.
Richiamando poi la studiosa americana Judith Butler e il professore Massimo Ammaniti, ha sottolineato come gli schemi io/tu diano significato alla nostra identità e sostanzino la vita quotidiana. E’ centrale quindi definirsi nella fraternità io/tu: “L'imprinting di Francesco è quello di vivere da fratelli, facendo emergere la fraternità come principio di base della convivenza umana”.
Dopo il saluto e l’apprezzamento assai cordiale di don Corrado Lorefice e prima della lettura finale, donata dal professore Antonio Sichera, di una poesia di Galway Kinnel, il professore Giovanni Salonia ha infine sottolineato come l’obbedienza tra i frati non si basi mai su un’impostazione verticistica, perché “l’obbedienza è perfetta quando si rimane nell’amore … iscritta nel codice della fraternità sempre paterno/fraterno.
Agli umani, dunque, non resta che amarsi …l’ermeneutica di Francesco è quella di colui che è in grado di vedere la bellezza dell’altro anche quando ancora non c’è”.
Palermo – È noto che a dare la voce italiana ad Oliver Hardy sia stato Alberto Sordi, che iniziò a doppiare Ollio nel 1939, quando aveva diciannove anni. Pochi conoscono invece l’identità del doppiatore di Stanlio: il piemontese Mauro Zambuto (1918-2011).
Figlio d’arte - il padre era il doppiatore, attore e regista Gero Zambuto - da ragazzino Mauro era particolarmente dotato nel parlare lingue straniere; così, appena undicenne, nel 1929 fu notato a Torino dalla Paramount Pictures e inserito nel primo studio di doppiaggio europeo a Joinville-le-Pont, nel nord della Francia, dove doppiò l’attore Jackie Coogan (interprete, da bambino, de Il monello di Charlie Chaplin).
Il doppiaggio di Stanlio arrivò nel 1933, nel film Fra Diavolo, in coppia con uno studente italo-americano che dava la voce ad Ollio. Qualche anno dopo Zambuto interruppe il doppiaggio, perché nel frattempo era stato chiamato sotto le armi nella Regia Aeronautica.
A partire dal 1939, riprese a doppiare Stan Laurel assieme al giovane Alberto Sordi, da quell'anno voce di Ollio; I diavoli volanti fu il primo film di Stanlio e Ollio doppiato dalla coppia. Il loro sodalizio nel doppiaggio dei film dei comici statunitensi durò fino al 1951 e si concluse con Atollo K.
Il duo Sordi/Zambuto conferì il proprio stile inconfondibile all’identità vocale di Stanlio e Ollio per il pubblico italiano. Alberto Sordi apportò una modifica significativa alla voce di Ollio: mentre il vero Hardy aveva una dizione tenorile, Sordi la convertì in basso, con risate profonde e lamenti vibranti nei momenti di malessere; Zambuto diede invece a Stanlio una voce acuta, che nel gridato e nel pianto sfociava nel falsetto.
Ecco cosa dice lo stesso Zambuto, in una video-intervista: “La voce di Stan Laurel richiedeva un certo falsetto… in realtà Stanlio faceva il falsetto soltanto quando piangeva; io, invece, lo doppiavo sempre in falsetto”.
Sordi e Zambuto mantennero inoltre la dizione storpiata di molte parole, originata da una trovata casuale del produttore Hal Roach nel 1929, quando venne girato il primo cortometraggio sonoro della coppia Laurel/Hardy. Poiché il doppiaggio in lingue straniere non era stato ancora inventato, per il pubblico non anglofono, Roach faceva girare ciascuna scena cinque volte in altrettante lingue (inglese, francese, tedesco, spagnolo e italiano): a ogni sequenza gli attori secondari venivano sostituiti da interpreti madrelingua, mentre Stanlio e Ollio recitavano via via nelle varie lingue, a loro sconosciute, leggendo le battute sul gobbo posizionato dietro la macchina da presa.
L'effetto di tale meccanismo fu comico, perché i due attori spesso alteravano inconsapevolmente molte parole straniere spostandone gli accenti, come in "stupìdo" o "automobìle". Gli spettatori stranieri si divertirono tanto a questa dizione, che aggiungeva involontaria comicità alle battute. Così, quando nel 1933 venne sperimentato il doppiaggio, i distributori pretesero che i doppiatori pronunciassero le parole con gli accenti spostati, proprio come Stanlio e Ollio.
Dopo il 1951, le strade di Sordi e Zambuto si divisero: Sordi abbandonò il doppiaggio per dedicarsi interamente alla professione di attore, foriera di enorme successo nel panorama italiano e internazionale.
Mauro Zambuto, invece, divenne ingegnere elettronico e iniziò a insegnare Fisica elettronica all’Università di Padova. Continuò comunque a dividersi tra la docenza universitaria e il doppiaggio: Mickey Rooney, Martine Milner, Anthony Caruso, Donald O’Connor furono alcuni dei tanti attori da lui doppiati.
Ma il professore Zambuto prestò la sua voce anche a personaggi del cinema di animazione della Disney, come la Cicogna e un Clown in Dumbo (1948) e Panco Pinco e il Leprotto Bisestile in Alice nel Paese delle Meraviglie (1951). Per inciso, si ricorda che il padre di Mauro, Gero Zambuto, aveva dato la voce a Eolo nel 1930, nella prima edizione Disney di Biancaneve e i sette nani.
Nel 1952 Zambuto si trasferì negli Stati Uniti, dove ricoprì la carica di vice Presidente della società italiana ‘Film Export’, costituita per doppiare in inglese i film italiani esportati negli USA; in seguito lavorò presso gli studi della Paramount ad Hollywood.
Zambuto, che era anche un bravo violinista e aveva il brevetto di pilota di aerei, nel 1962 decise di ritirarsi dal mondo del cinema per dedicarsi alla ricerca scientifica ed all'insegnamento. Specializzato in Elettronica quantistica, accettò il prestigioso incarico di docente di Ingegneria elettronica e dei computer presso il New Jersey Institute of Technology e spese nell’insegnamento la parte finale della sua vita, così talentuosa e poliedrica.
Se Stan Laurel e Oliver Hardy hanno fatto ridere di cuore varie generazioni di italiani il merito va dunque anche al felice doppiaggio della coppia Sordi/Zambuto.
E, in un mondo dove c’è poco da ridere, chi riesce a suscitare ilarità - e continua nel tempo a regalare quintali di buonumore – va annoverato tra i benefattori dell’umanità.
L’ultimo degli stati senza confini, o dimore divine, dove posare il cuore è l’equanimità, in pali upekkhà, che significa ‘equilibrio’.
In realtà questo stato o atteggiamento dovrebbe permeare tutti gli altri incommensurabili e in generale tutto il nostro orientamento nei confronti del percorso interiore.
Upekkhà è la non-scelta, la capacità di stare in equilibrio, come funamboli o come i piatti di una bilancia, non esaltarsi per il piacevole, non abbattersi per lo spiacevole.
Stare in mezzo. L’arte di non scartare. Nasce dalla profonda conoscenza del costante cambiamento, del flusso dell’impermanenza. È la piena accoglienza di quello che arriva senza discussioni.
Anche la gentilezza amorevole, la compassione, la gioia empatica possono cadere in un opposto o in un altro, tra esaltazione sentimentale e indifferenza: upekkhà corregge la postura, insegna l’illimitatezza della conoscenza dei limiti. Non è un gioco di parole, saper stare con i propri limiti fa affacciare su una sconfinatezza che non ci appartiene ed è a questa sconfinatezza impersonale che ci arrendiamo e consegniamo gli altri, chi ci fa bene, chi ci è indifferente, chi ci fa male.
Upekkhà bilancia il nostro bisogno di bene con il nostro bisogno di giustizia e di equilibrio. Consegna ognuno alla sua responsabilità, alle conseguenze delle sue azioni.
Il karma non è una minaccia né un semplice contrappasso. Nel karma si prende rifugio. Karma significa semplicemente “azione”. È una legge universale di risonanza. Fare il bene crea una certa sonorità che si riflette nel mondo e nelle vicende, così come fare il male.
Ma per conoscere cosa fa bene e cosa fa male occorre purificare la mente. Questo indicò il Buddha come sintesi del suo insegnamento: smettere di fare il male, fare il bene, purificare la mente.
Così, il karma è come ci poniamo davanti agli eventi, non gli eventi stessi.
Puoi avere una vita durissima e rispondere con delicatezza fiduciosa. Puoi avere una vita più agevole e chiuderti nella scontatezza. Il modo in cui rispondiamo crea frequenze e risposte della vita stessa. Ma non è aritmetica, è danza.
Chandra Candiani: Questo immenso non sapere Einaudi, Torino, 2021, pag. 106,107
Palermo – Chissà se le nostre nonne e bisnonne, così esperte nei lavori a maglia, nella produzione di centrini all’uncinetto e persino nel creare pizzi e merletti con il tombolo, non intuissero già l’esistenza del legame tra l’uso sapiente delle mani e lo sviluppo della mente…
Alcuni ricercatori italiani del Centro Francese di Ricerche in Neuroscienze di Lione, coordinati dal professore Claudio Brozzoli, hanno dimostrato infatti che la manualità, specialmente l’uso della motricità fine, è strettamente connessa allo sviluppo del linguaggio, in particolare alla formulazione e produzione di frasi complesse. Per provare come queste attività utilizzino e potenzino le stesse risorse neurali, i ricercatori hanno effettuato Imaging (diagnostica per immagini) e Risonanze magnetiche ad alcuni volontari mentre posizionavano dei perni servendosi di una pinza e poi leggevano frasi complesse.
Prof. Claudio Brozzoli
“C’è una zona del cervello che si attiva per entrambi i compiti: i cosiddetti ‘gangli della base’ – afferma il professor Claudio Brozzoli – Tale area cerebrale è una struttura sottocorticale che comprende diversi nuclei; l’uso della motricità fine, in particolare, attiva il nucleo caudato anteriore e il cosiddetto ‘globus pallidus’. Sapevamo da tempo che linguaggio e capacità motorie sensoriali sono strettamente legate, ma nessuno aveva dimostrato che, nelle stesse persone, l’utilizzo di uno strumento e il ‘compito’ sintattico attivassero queste aree insieme”.
“L’Imaging e la Risonanza magnetica – continua il professore Brozzoli – hanno provato che trenta minuti circa di utilizzo di uno strumento manuale in modo piuttosto articolato e complesso portano a un miglioramento della performance linguistica. Cosa che non si verifica con il gruppo di controllo che non ha utilizzato la manualità fine con uno strumento.
Abbiamo poi chiesto a un altro gruppo di partecipanti di allenarsi nella comprensione di frasi complesse dal punto di vista sintattico per vedere se il training linguistico potesse influenzare la capacità di maneggiare lo strumento. Anche in questo caso la nostra ipotesi è stata confermata. Tali risultati ci hanno permesso di dimostrare l’esistenza di un ‘transfer bidirezionale dell'apprendimento’ basato su alcune risorse neurali associate sia al comportamento manuale sia a quello linguistico. Il linguaggio è quindi associato a funzioni sensomotorie che un tempo si credeva fossero legate a capacità cognitive meno complesse. C’è stata quindi una rivalutazione dei circuiti sensomotori e della loro partecipazione alle funzioni cognitive di alto livello, come il linguaggio.”
“In una precedente ricerca, in alcuni partecipanti adulti avevamo già mostrato l’esistenza di una correlazione comportamentale tra l’utilizzo della sintassi nel linguaggio e la sintassi dell’azione associata all’uso di strumenti - dice ancora Brozzoli - In quell’occasione abbiamo potuto osservare che i soggetti che si dimostravano particolarmente abili nell’utilizzare uno strumento per spostare dei piccoli oggetti e manipolarli erano anche quelli più capaci di costruire delle frasi sintatticamente complesse.
Questi risultati ci hanno spinti a ipotizzare che la capacità di integrare uno strumento nel proprio sistema motorio e quella di comprendere la sintassi nel linguaggio si basassero su alcuni meccanismi cognitivi comuni. Questa tesi sollevava un ulteriore interrogativo: se esistono delle risorse neurali in comune tra queste due abilità, allenarne una aiuta a migliorare anche l’altra?”
L’ultima ricerca, che ha coinvolto 244 volontari di madrelingua francese, fornisce la chiara risposta affermativa al quesito.
Si auspica che scuola e società tengano conto di questi risultati. Perché non ci si limiti a usare solo il pollice per scorrere immagini negli smartphone, ma si utilizzino entrambe le mani, con le dieci dita, per continuare a scrivere a mano, a lavorare ai ferri, all’uncinetto, per suonare uno strumento musicale, per adoperare con maestria pinze, tenaglie e ogni sorta di attrezzi.
Il sospetto che delegare tante azioni manuali ai robot può comportare una stasi delle nostre funzioni cerebrali c’era già… I ricercatori di Lione ce lo hanno confermato.
"Il pacifismo attivo si muove in tre dimensioni a seconda che cerchi la soluzione al proprio problema – eliminazione della guerra e instaurazione di una pace perpetua – agendo o sui mezzi o sulle istituzioni o sugli uomini.
Si può parlare di un pacifismo strumentale nel primo caso, istituzionale, nel secondo, finalistico nel terzo.
Nel pacifismo strumentale conviene distinguere due momenti: il primo momento è rappresentato dallo sforzo per distruggere le armi o almeno per ridurne al minimo la quantità e la pericolosità; il secondo momento è rappresentato da tutti i tentativi compiuti allo scopo di sostituire i mezzi violenti con mezzi non violenti. (…) Il primo momento si esprime nella teoria e nella pratica del disarmo; il secondo nella teoria e nella pratica della nonviolenza.
La politica del disarmo rappresenta il pacifismo attivo nella sua forma teoricamente più elementare e praticamente più moderata: (…) si limita (…) a dare l’ostracismo agli strumenti che rendono possibili le conseguenze nefaste della guerra e fanno della guerra un evento deprecabile. (…)
Le teorie della nonviolenza stanno diventando sempre più importanti nella società contemporanea; su di esse occorrerebbe un discorso molto più lungo di quello qui consentito. (…)
Ciò che caratterizza la nonviolenza dei gruppi nonviolenti è l’uso di mezzi nonviolenti anche quando le teorie tradizionali giustificano l’uso della guerra, ovvero l’uso di mezzi nonviolenti in sostituzione dei mezzi violenti, anche nel caso in cui sembra che di questi non si possa assolutamente fare a meno, e pertanto siano moralmente giustificabili. (…)
Non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza attuale della teoria e della pratica della nonviolenza attiva. In un mondo in cui l’accresciuta potenza degli apparati statali sembra non lasciare di fronte ad un regime tirannico altra alternativa che quella dell’obbedienza passiva o del sacrificio, l’invenzione, l’applicazione e la verificazione di tecniche della nonviolenza possono aprire nuove vie alle lotte per la libertà.
Se l’etica della nonviolenza è antica, le tecniche per rendere efficace la nonviolenza, per fare della nonviolenza un atteggiamento proprio non solo di un’etica dell’intenzione, ma anche di un’etica della responsabilità, sono recenti, tanto recenti che non ci è dato ancora conoscerne i possibili sviluppi.
La nonviolenza attiva è una strada aperta verso l’avvenire, anche nei rapporti internazionali: dove l’antica tecnica per la risoluzione delle controversie tra stati, la guerra, può condurre allo sterminio indiscriminato e appare sempre più improduttiva, l’invenzione di nuove tecniche non cruente per piegare i superbi o per scoraggiare i temerari (…) appare come una delle forme più alte della saggezza e dell’intelligenza umane.
Norberto Bobbio: Il problema della guerra e le vie dalla pace, Bologna, Il Mulino, 1984, pp.79/83
"Dove eravamo rimasti?" - ha esordito la professoressa Carla Spanò, docente di pianoforte presso la scuola media "G.A.Cesareo" di Palermo, presentando il saggio che ha concluso in bellezza gioiosa le attività del corso musicale nel corrente anno scolastico.
Perchè l'Istituto rinasce dopo un periodo davvero duro, dovuto alla pandemia, ma anche alla pregressa, assai discussa, gestione dirigenziale.
Grazie allora agli alunni e alle alunne e ai docenti Ambrosi, Buttitta, Sgroi che, assieme alla professoressa Spanò, ci hanno donato un intermezzo di note allegre e... di speranza di una nuova primavera didattica.
E un plauso a tutti i docenti e alla Dirigente, impegnati nel far tornare la scuola alla sua autentica e feconda missione educativa.