martedì 30 novembre 2021

Vita da blogger: i miei primi 13 anni…

Oggi 13 candeline, nella vita da blogger. 

Felice di essere una blogger, da quando, il 30 novembre 2008, ho messo in rete il  post n.1 (il primo di una rubrica su un settimanale cartaceo: 150 parole da Palermo)...

Qui uno dei post intimisti dell’era giurassica (4 novembre 2009)
Qui una delle mie 101 storie da docente/psicopedagogista:

Due tra le mie ultime recensioni (ormai una novantina):

Quiqui, circa sette anni fa , due  post a caldo dopo l’elezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica

Due petit-onze: Esercizi - Splendi

Un grazie immenso a chi ha la pazienza, l’attenzione, la curiosità, il prio (termine dialettale siciliano che significa piacere) di leggere quello che scrivo e lasciare una traccia della sua presenza nei mari (o in FB).

Ma perché scriviamo?

Ancora valide le riflessioni di Primo Levi (anche sostituendo a scrittori 'blogger, meno impegnativo e più pertinente, nel mio caso)

"Avviene spesso che un lettore, di solito un giovane, chieda a uno scrittore, in tutta semplicità, perché ha scritto un certo libro, o perché lo ha scritto così, o anche, più generalmente, perché scrive e perché gli scrittori scrivono. A questa ultima domanda, che contiene le altre, non è facile rispondere: non sempre uno scrittore è consapevole dei motivi che lo inducono a scrivere, non sempre è spinto da un motivo solo, non sempre gli stessi motivi stanno dietro all’inizio ed alla fine della stessa opera. Mi sembra che si possano configurare almeno nove motivazioni, e proverò a descriverle; ma il lettore, sia egli del mestiere o no, non avrà difficoltà a scovarne delle altre.

Perché, dunque, si scrive?
1)    Perché se ne sente l’impulso o il bisogno. È questa, in prima approssimazione, la motivazione più disinteressata. L’autore che scrive perché qualcosa o qualcuno gli detta dentro non opera in vista di un fine; dal suo lavoro gli potranno venire fama o gloria, ma saranno un di più, un beneficio aggiunto, non consapevolmente desiderato: un sottoprodotto, insomma. Beninteso, il caso delineato è estremo, teorico, asintotico: è dubbio che mai sia esistito uno scrittore, o in generale un artista, così puro di cuore. Tali vedevano se stessi i romantici; non a caso, crediamo di ravvisare questi esempi fra i grandi più lontani nel tempo, di cui sappiamo poco, e che quindi è più facile realizzare. Per lo stesso motivo le montagne lontane ci appaiono tutte dello stesso colore, che spesso si confonde con il colore del cielo.

2)    Per divertire o divertirsi. Fortunatamente, le due varianti coincidono quasi sempre: è raro che chi scrive per divertire il suo pubblico non si diverta scrivendo, ed è raro che ci prova piacere nello scrivere non trasmetta al lettore almeno una porzione del suo divertimento. A differenza del caso precedente, esistono di divertitori puri, spesso non scrittori di professione, alieni da ambizioni letterarie e non, privi di certezze ingombranti e di rigidezze dogmatiche, leggeri e limpidi come bambini, lucidi e savi come chi ha vissuto a lungo e non invano. Il primo nome che mi viene in mente è quello di Lewis Carroll, il timido decano e matematico della vita intemerata, che ha affascinato sei generazioni con le avventure della sua Alice, prima nel paese delle meraviglie e poi dietro lo specchio. La conferma del suo genio affabile si ritrova nel favore che i suoi libri godono, dopo più di un secolo di vita, non solo presso i bambini, a cui egli idealmente li dedicava, ma presso i logici e gli psicoanalisti, che non cessano di trovare nelle sue pagine significati sempre nuovi. È probabile che questo mai interrotto successo dei suoi libri sia dovuto proprio al fatto che essi non contrabbandano nulla: né lezioni di morale né sforzi didascalici.

3)    Per insegnare qualcosa a qualcuno. Farlo, e farlo bene, può essere prezioso per il lettore, ma occorre che i patti siano chiari. A meno di rare eccezioni, come il Virgilio delle Georgiche, l’intento didattico corrode la tela narrativa dal di sotto, la degrada e la inquina: il lettore che cerca il racconto deve trovare il racconto, e non una lezione che non desidera. Ma appunto, le eccezioni ci sono, e chi ha sangue di poeta sa trovare ed esprimere poesia anche parlando di stelle, di atomi, dell’allevamento del bestiame e di apicoltura. Non vorrei dare scandalo ricordando qui “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi, altro uomo di cuore puro, che non si nasconde la bocca dietro la mano: non posa a letterato, ama con passione l’arte della cucina spregiata dagli ipocriti e dai dispeptici, intende insegnarla, lo dichiara, lo fa con la semplicità e la chiarezza di chi conosce a fondo la sua materia, ed arriva spontaneamente all’arte.

4)    Per migliorare il mondo. Come si vede, ci stiamo allontanando sempre più dall’arte che è fine a se stessa. Sarà opportuno osservare qui che le motivazioni di cui stiamo discutendo hanno ben poca rilevanza ai fini del valore dell’opera a cui possono dare origine; un libro può essere bello, serio, duraturo e gradevole per ragione assai diverse da quello per cui è stato scritto. Si possono scrivere libri ignobili per ragioni nobilissime, ed anche, ma più raramente, libri nobili per ragioni ignobili. Tuttavia, provo personalmente una certa diffidenza per chi “sa” come migliorare il mondo; non sempre, ma spesso, è un individuo talmente innamorato del suo sistema da diventare impermeabile alla critica. C’è da augurarsi che non possegga una volontà troppo forte, altrimenti sarà tentato di migliorare il mondo nei fatti e non solo nelle parole: così ha fatto Hitler dopo aver scritto “Mein Kampf”, ed ho spesso pensato che molti altri utopisti, se avessero avuto energie sufficienti, avrebbero scatenato guerre e stragi.

5)    Per far conoscere le proprie idee. Chi scrive per questo motivo rappresenta soltanto una variante più ridotta, e quindi meno pericolosa, del caso precedente. La categoria coincide di fatto con quella dei filosofi, siano essi geniali, mediocri, presuntuosi, amanti del genere umano, dilettanti o matti.

6)    Per liberarsi da un’angoscia. Spesso lo scrivere rappresenta un equivalente di una confessione o del divano di Freud. Non ho nulla da obiettare a chi scrive spinto dalla tensione: gli auguro anzi di riuscire a liberarsene così, come è accaduto in me in anni lontani. Gli chiedo però che si sforzi di filtrare la sua angoscia, di non scagliarla così com’è, ruvida e greggia, sulla faccia di chi legge; altrimenti rischia di contagiarla agli altri senza allontanarla da sé.

7)    Per diventare famosi. Credo che sono un folle possa accingersi a scrivere unicamente per diventare famoso: ma credo che nessuno scrittore, neppure il più modesto, neppure il meno presuntuoso, neppure l’angelico Carroll sopra ricordato, sia stato immune da questa motivazione. Aver fama, leggere di sé sui giornali, sentire parlare di sé, è dolce, non c’è dubbio; ma poche fra le gioie che la vita può dare costano altrettanta fatica, e poche fatiche hanno risultato così incerto.

8)    Per diventare ricchi. Non capisco perché alcuni si sdegnino o si stupiscano quando vengono a sapere che Collodi, Balzac e Dostoevskij scrivevano per guadagnare, o per pagare i debiti di gioco, o per tappare i buchi di imprese commerciali fallimentari. Mi pare giusto che lo scrivere, come qualsiasi altra attività utile, venga ricompensato. Ma credo che scrivere solo per denaro sia pericoloso, perché conduce quasi sempre ad una maniera facile, troppo ossequente al gusto del pubblico più vasto e alla moda del momento.

9)    Per abitudine. Ho lasciato ultima questa motivazione, che è la più triste. Non è bello, ma avviene: avviene che lo scrittore esaurisca il suo propellente, la sua carica narrativa, il suo desiderio di dar vita e forma alle immagini che ha concepite; che non abbia più desideri, neppure di gloria e di denaro; e che scriva ugualmente, per inerzia, per abitudine, per “tener viva la firma”. Badi a quello che fa: su quella strada non andrà lontano, finirà fatalmente col copiare se stesso. È più dignitoso il silenzio, temporaneo o definitivo”.

Primo Levi, L’altrui mestiere, Einaudi, Torino, 2018 (pag.33-36)

domenica 28 novembre 2021

Amnesty International, una candela accesa sui diritti umani

  Palermo – Ha compiuto 60 anni Amnesty International, l’organizzazione internazionale non governativa impegnata a promuovere e difendere in tutto il pianeta il rispetto dei diritti umani, sanciti il 10 dicembre 1948 nella Dichiarazione universale adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. 
   Fondatore e primo segretario generale di Amnesty è stato l’avvocato, attivista e filantropo britannico Peter Benenson che, appresa la notizia della condanna in Portogallo a sette anni di prigione di due studenti - responsabili solo di un brindisi alla libertà delle colonie portoghesi - il 28 maggio 1961 pubblicò una lettera nel giornale londinese The Observer, accompagnata dall’articolo del direttore “I prigionieri dimenticati”. Nella missiva, Benenson chiedeva ai lettori di scrivere anch’essi lettere a sostegno dei due studenti imprigionati e di altre persone incarcerate per le loro idee. L’adesione all’iniziativa fu enorme, tanto da costituire in una dozzina di paesi gruppi di sostegno alla causa dei due studenti. 
       Nacque così Amnesty International, diffusa oggi, a 60 anni di distanza, in oltre 150 nazioni, con più di sette milioni di soci sostenitori. Amnesty si batte in particolare a favore delle persone incarcerate per reati di opinione: donne e uomini privati della libertà per le proprie idee o il proprio credo politico o religioso o discriminati per l’orientamento sessuale. L’associazione si adopera anche per convincere i governi a modificare le leggi palesemente ingiuste e discriminatorie.
    Le denunce e le azioni di Amnesty si fondano sull'accertamento dei fatti grazie ai ricercatori che operano sul territorio dove è commesso l’abuso. Tali collaboratori, in situazioni spesso assai difficili e avverse, raccolgono prove, registrano le violazioni, aggiornano i dati disponibili, tentano di parlare con le vittime.
    Nell’ottica del pieno rispetto dei diritti umani, Amnesty International si oppone senza riserva a tutte le forme di tortura e alla pena di morte. Nel 1977 è stata insignita del Premio Nobel per la pace, per l'attività di "difesa della dignità umana contro la tortura, la violenza e la degradazione". L'anno seguente le è stato assegnato il Premio delle Nazioni Unite per i diritti umani. 
   A cura del segretariato internazionale, viene pubblicato ogni anno l’Amnesty International Report, il rapporto sullo stato dei diritti umani nel mondo. Il penultimo rapporto (2019-2020), esamina in particolare la situazione dei diritti umani in sei macro-Regioni mondiali: Africa subsahariana, Americhe, Asia e Pacifico, Europa orientale e Asia Centrale, Medio Oriente e Africa del nord. Tale rapporto ha denunciato i diritti umani violati dalle nazioni all’interno delle macroaree considerate, indicando sempre l’ambito particolare del diritto violato. 
   Ad esempio, sono stati effettuate denunce su uccisioni illegali, sparizioni forzate, pena di morte, tortura ed altri maltrattamenti, uso eccessivo della forza, condizioni carcerarie, violenza contro le donne; nonché denunce sul mancato rispetto della libertà di riunione, della libertà di espressione, del diritto alla salute, del diritto all'infanzia, dei diritti dei rifugiati, dei migranti e richiedenti asilo, dei diritti delle persone lesbiche, gay, bisessuali, dei diritti degli obiettori di coscienza…
Queste le nazioni dove si sono registrate le maggiori violazioni dei diritti umani: Arabia Saudita, Brasile, Cina, Egitto, India, Iran, Libia, Myanmar, Polonia, Repubblica Centrafricana, Russia, Siria, Somalia, Sudan, Turchia, Venezuela.  
    L'ultimo rapporto di Amnesty International (2020-21) ha evidenziato l'eccezionalità di un anno caratterizzato dalla pandemia, sottolineando che la mortalità da Covid-19 è stata incrementata dalle ampie diseguaglianze esistenti, e aggravata da sistemi sanitari indeboliti da tagli indiscriminati e da istituzioni internazionali rese più deboli nelle loro funzioni. In particolare, il Rapporto 2020-2021, che raccoglie informazioni da 149 nazioni, segnala vessazioni da parte delle autorità statali verso operatori sanitari nel 28% dei Paesi considerati; in altri 42 Paesi, inoltre, autorità governative hanno ostacolato e intimidito il personale sanitario.
    L’ultimo rapporto di Amnesty evidenzia poi, nel 58% dei 149 Stati considerati, il perdurare di torture e maltrattamenti, con esiti mortali nel 28% dei casi. Tra le violazioni dei diritti umani, viene anche segnalato il rimpatrio forzato di migranti o rifugiati anche verso quei Paesi dove erano a rischio di persecuzione.
In Italia, Amnesty International è presente con circa 170 gruppi, oltre a una trentina di gruppi giovani, formati da soci in età scolare o universitaria. In Sicilia, una delle regioni più attive nell’impegno associativo, i gruppi sono una ventina.
    Il 21 novembre scorso, in occasione della Giornata Nazionale degli Alberi, per celebrare i 60 anni dell’associazione e simboleggiare la necessità che i diritti umani ‘mettano radici’, gli attivisti delle quattro sezioni presenti a Palermo hanno piantato un albero, un ginkgo biloba, all’interno del Parco dell’Uditore. Roberto Zampardi, responsabile della sezione palermitana n.243, ha ricordato ai presenti gli obiettivi dell’associazione, accanto alla sagoma in cartone di Patrick Zaki,  il trentenne egiziano studente all’Università di Bologna, detenuto in condizioni disumane nel suo Paese dal 7 febbraio 2020 per reati di opinione.
    Significativo, infine, il simbolo scelto da Benenson per l’associazione: una candela avvolta nel filo spinato. Scrisse il fondatore; «Quando ho acceso la prima candela di Amnesty avevo in mente un vecchio proverbio cinese: "Meglio accendere una candela che maledire l'oscurità". Questo è anche oggi il motto per noi di Amnesty (…) Questa candela non brucia per noi, ma per tutte quelle persone che non siamo riusciti a salvare dalla prigione, che sono state uccise, torturate, rapite, o sono "scomparse"».
Che la luce sui diritti umani sia sempre accesa, anche negli angoli più lontani, bui e nascosti del mondo.

Maria D'Asaro, 28.11.21, il Punto Quotidiano





sabato 27 novembre 2021

Canzone in bianco

Joan Baez e Patty Smith
Candore:

vessillo glorioso,

musica della vita

ritmo possente del tempo...

Canzone





giovedì 25 novembre 2021

Sono una donna

G.Klimt: La danzatrice (1916-18)
Nessuno può immaginare
quel che dico quando me ne sto in silenzio
chi vedo quando chiudo gli occhi
come vengo sospinta quando vengo sospinta
cosa cerco quando lascio libere le mie mani.

Nessuno, nessuno sa
quando ho fame, quando parto
quando cammino e quando mi perdo,
e nessuno sa
che per me andare è ritornare
e ritornare è indietreggiare,
che la mia debolezza è una maschera
e la mia forza è una maschera,
e che quel che seguirà è una tempesta.
Credono di sapere
e io glielo lascio credere
e avvengo.

Hanno costruito per me una gabbia affinché la mia libertà
fosse una loro concessione
e ringraziassi e obbedissi.
Ma io sono libera prima e dopo di loro,
con loro e senza di loro
sono libera nella vittoria e nella sconfitta.

La mia prigione è la mia volontà!
La chiave della prigione è la loro lingua
ma la loro lingua si avvinghia intorno alle dita del mio desiderio
e il mio desiderio non riusciranno mai a domare.

Sono una donna.
Credono che la mia libertà sia loro proprietà
e io glielo lascio credere
e avvengo.

Joumana Haddad, qui sue notizie biografiche


Joumana Haddad

    Questa poesia, assieme ad altre, è stata proposta da Adriana Saieva mercoledì 10 novembre scorso,  presso la Casa dell’Equità e della bellezza a Palermo, in via Garzilli, 43)  nell’ambito di un incontro di meditazione sul tema: Stati d’animo, riflessioni a partire dalle poetesse di ogni tempo e luogo, con particolare sottolineatura della solitudine, condizione esistenziale e sociale propria a tante donne.
   Grazie, Adriana.

(Qui la splendida poesia di Blaga Dimitrova)



lunedì 22 novembre 2021

Linguaglossa, i segreti di una salsiccia speciale

      Palermo – È ormai noto che, per diminuire il surriscaldamento del pianeta e i conseguenti disastri climatici, oltre a utilizzare poco l’automobile e diminuire drasticamente i viaggi in aereo, è necessario ridurre il consumo di carne e dei prodotti di origine animale. 
     Merita comunque un’eccezione l’assaggio di una salsiccia speciale: quella prodotta a Linguaglossa, Piedimonte Etneo e Castiglione di Sicilia, comuni alle pendici dell’Etna. Da ottobre scorso, il gustoso insaccato è il 51° presidio Slow Food della Sicilia, regione che detiene il primato nazionale di tali riconoscimenti. 
     La salsiccia di Linguaglossa possiede infatti alcune particolari qualità. Intanto gli ingredienti, un gustoso composto di cinque tagli di carne suina: prosciutto di coscia, pancetta, guanciale, lardo e capocollo. Sono poi unici i modi e gli strumenti di lavorazione del composto; infatti, la carne non viene triturata meccanicamente, come avviene per la maggior parte dei salumi in Italia, bensì pazientemente tagliuzzata a mano in piccoli pezzi con il “partituri”, un coltello artigianale realizzato dai fabbri della zona. La paziente sminuzzatura avviene su un grande ceppo di quercia dell’Etna, che ha un legno molto asciutto grazie ai suoli vulcanici. Se ben utilizzato, il ceppo - detto ‘chianca’ nel dialetto siciliano - dura decenni; quando diventa poco uniforme in superficie, viene livellato con grande attenzione da ebanisti locali.
    Il composto di carne viene poi condito con sale, pepe nero e semi di finocchietto selvatico raccolto sull’Etna. C’è chi aggiunge qualche altro sapore: un pizzico di cipollotto oppure pomodoro semisecco e provola stagionata. A questo punto il tutto viene impastato a mano; i macellai esperti dicono di capire se l’impasto è ben amalgamato dal suono che fa nelle mani e dal fatto che si possa tenere tutto a palla infilato in un dito. Infine la carne così condita viene insaccata nel budello naturale e legata con lo spago, formando corde di salsicce lunghe circa due metri.
   La salsiccia al ceppo di Linguaglossa si mangia fresca e cotta, ma alcuni macellai la appendono in un luogo ventilato per una essicazione leggera che dura 20 giorni circa. La ricetta più classica è la salsiccia alla brace con i ‘caliceddi’: una sorta di cavoletti che crescono spontaneamente nella terra ai piedi dell’Etna. Per questa preparazione la salsiccia viene posta a spirale su una griglia e cotta alla brace per mezz’ora circa, Nel frattempo i caliceddi vengono lavati e lessati in acqua salata bollente, a cottura finita vanno scolati e conditi con olio. Secondo la tradizione, “caliceddi e sasizza” non possono mancare dalla tavola l’11 novembre, il giorno di San Martino.
    Il riconoscimento della salsiccia di Linguaglossa come Presidio Slow Food è arrivato dopo l’iniziativa sostenuta già da tempo dal Comune di Linguaglossa, che ha creduto nell’opportunità di valorizzare una risorsa ‘storica’ del territorio. Ma l’impegno non è finito: il professore Francesco Sottile, docente di Biodiversità e qualità del sistema agroalimentare all’Università di Palermo e tecnico della Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus, spiega che «l’obiettivo è quello di rafforzare la filiera a partire dall’allevamento. Già oggi i produttori utilizzano esclusivamente carne di suini nati e allevati in Sicilia, ma l’auspicio è quello di veder nascere allevamenti vicini a Linguaglossa. Realtà che, naturalmente, pongano il benessere animale al centro del proprio lavoro».
    «Quando nasce un nuovo presidio è una vittoria per tutti – afferma Anastasia De Luca, fiduciaria della condotta Slow Food Catania – non solo per i produttori, ma per l’intera filiera che gravita intorno. La salsiccia al ceppo, così chiamata per la sua particolare lavorazione, ancora indissolubilmente legata ai metodi tradizionali, è il frutto di una comunità che si mobilita nel nome del buono, pulito e giusto, attenta al benessere degli animali, lavorando con allevamenti non intensivi, e alle tradizioni simbolo del nostro territorio». 

Maria D'Asaro, 21.11.21, il Punto Quotidiano

venerdì 19 novembre 2021

C’era una volta l’isteria… E c’è ancora, nello scenario della postmodernità

Rosaria Lisi
     Il saggio della psicologa e psicoterapeuta Rosaria Lisi Isteria e Gestalt Therapy, Quando tutto è pertinente (Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2019, €15), si inserisce nella collana della casa editrice trapanese che ospita testi relativi alla teoria e alla clinica della Terapia della Gestalt, capaci comunque di interessare anche i lettori e le lettrici non addetti/e ai lavori. Tali testi infatti (vedi Sulla felicità e dintorni; Danza delle sedie e danza dei pronomi; Incontri terapeutici a quattro zampe; La grazia dell’audacia; Come l'acqua... La luna è fatta di formaggio; etc.) coniugano con sapienza l’ermeneutica gestaltica a spunti di riflessione sugli orizzonti di senso e sul travaglio della condizione umana odierna.
      Nelle pagine introduttive, il professore Salonia sottolinea che l’autrice «ripensa l’isteria nella postmodernità, ovvero il suo manifestarsi (e celarsi) nel tempo delle identità liquide»; mentre la rilettura odierna dell’isteria con occhiali gestaltici permette di affermare che «non esistono pazienti isteriche, ma bensì modalità relazionali di tipo isterico.» 
    Nel passato invece, continua il professore «Definire una donna ‘isterica’ significava considerarla dominata dall’utero (hyster), insinuare che fosse insoddisfatta sessualmente e alludere alla pressione di un eccesso di emotività che annullava la razionalità. Ma se la donna, in quanto tale, era ‘isterica’ (…), allora andava confinata nella casa, fuori dal mondo della razionalità e del potere decisionale che apparteneva ai maschi, L’isteria è stata insomma, nelle società tradizionali e della prima modernità, simbolo e avamposto della condizione femminile».
    A proposito del legame tra isteria e condizione femminile, vengono riportate nel libro le considerazioni della filosofa e psicoanalista Luce Irigaray e della psicologa Juliet Mitchell: secondo la Irigaray, l’isteria era l’unica alternativa possibile che la donna della società patriarcale aveva al posto della repressione totale delle pulsioni; mentre Juliet Mitchell sottolinea l’errore di considerare l’isteria una patologia al femminile: infatti tale modalità relazionale esiste anche nei maschi, spesso in forme più gravi. 
    Sempre secondo la Mitchell, inoltre, la psicoanalisi ha trascurato l’importanza che nella comprensione dell’isteria rivestono i rapporti orizzontali, cioè con i fratelli. E conclude: “L’isteria fa parte della condizione umana, è il ventre molle della normalità: può evolversi nel senso di una grave patologia o nel senso di una creatività nella vita o nell’arte. In qualunque di questi due sensi si caratterizzi, è comunque un modo attraverso cui il soggetto riafferma la propria unicità nel mondo.” 
     Se quindi, da un lato, vi è una sorta di ‘isterizzazione della società’, di contro oggi di isteria quasi non si parla più, né in ambito sociologico né in ambito clinico. Dal 1987 l’isteria è stata cancellata dall’elenco dei disturbi mentali: infatti il DSM-III (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) la menziona ‘lateralmente’ solo nella diagnosi del disturbo istrionico di personalità. Oggi, nella versione più recente di tale documento, il DSM-V, viene collocata tra i disturbi di personalità, insieme al disturbo antisociale, al disturbo borderline e al disturbo narcisistico.
    Ma l’isteria è davvero scomparsa? Oppure si è semplicemente mimetizzata e non se ne parla per timore di evocare l’equivoco che in passato ha riferito tale modalità solo alle donne, relegandole in uno stato di inferiorità e di scarsa affidabilità? 
   E poi, si chiede Rosaria Lisi, normalizzare l’isteria, considerando isterica tutta la società attuale postmoderna, non equivale forse a ignorare una sorta di “grido esistenziale dell’uomo?
    L’isteria, oggi, ritorna infatti con maschere diverse. L’autrice, alla ricerca del filo rosso di questa sintomatologia così complessa, chiama in causa Karl Jaspers che lo identifica nella «tendenza ad apparire piuttosto che ad essere», "da qui la continua falsificazione della propria immagine, la teatralità e la ricerca di spettacolarità.
    Viene poi citato lo studioso Angelo Pasetti che sottolinea come “l’isterico è colui che colpisce a causa del suo esibizionismo. Comunque si tratta di comportamenti che tendono a destare nell’interlocutore moti di sorpresa e di stupore e a creare il sospetto di assistere a una messa in scena”. Si può quindi immaginare la persona con modalità relazionali isteriche “come un attore che ha difficoltà ad uscire dal palcoscenico per vivere il proprio corpo e la propria vita”. Quindi, evidenzia l’autrice: “la modalità isterica (…) si può ricondurre ad un bisogno centrale che dà origine alla sua sintomatologia: il bisogno di simulare, di recitare una parte, di imitare”.
    Eccoci allora al cuore del testo: “L’imitazione isterica, come stile relazionale, costituisce l’estremizzazione della natura relazionale dell’essere umano: è l’essere centrati sul Tu pur di incontrarlo, pur di raggiungerlo ad ogni costo, pur di non sentire la solitudine dell’Io.” 
Vittorio Gallese
    Per cogliere meglio la dimensione antropologica della tendenza imitativa propria della modalità relazionale isterica, l’autrice esamina varie ricerche. Tra gli studiosi, cita il neuroscienziato Vittorio Gallese, che sottolinea come «il mimetismo caratterizza in modo pervasivo la dimensione sociale dell’esistenza umana (…). Mimiamo inconsapevolmente il comportamento non verbale altrui; ci piace di più chi ci imita; (…) Il mimetismo è quindi uno strumento fondamentale nella costruzione del gradimento sociale».
    Viene poi riportata la lettura fenomenologica dell’isteria fornita nel 2006 da Umberto Galimberti, nel Dizionario di Psicologia: «In quest’ambito l’isteria è descritta come la condizione di chi può vivere solo esponendosi all’attenzione degli altri in quella sorta di presenza “alienata” che solo gli altri hanno il potere di rendere presente. Ѐ una presenza che si declina nella direzione dell’esse est percipi, dove l’essere percepito, l’essere visto, l’essere ascoltato è una condizione indispensabile per poter essere in generale. Ad ogni esibizione, segue l’inibizione ad ogni autentico incontro, perché l’altro non è trattato come un ‘tu’, ma solo mezzo per potere esistere».
    Ma cosa distingue il meccanismo imitativo fisiologico da quello isterico? E come considerare oggi tale atteggiamento nella società, prima che nell’ambito della psicoterapia? Ecco alcune considerazioni generali offerte dal testo, tralasciando le specifiche conclusioni cliniche, ‘digeribili’ solo per chi ha una specifica formazione psicoterapeutica gestaltica. 
   Scrive l’autrice: “Sono l’annullamento del pensiero e della soggettività, e quindi del confine tra sé e l’Ambiente, gli elementi che permettono di distinguere l’imitazione sana e fisiologica dal meccanismo imitativo della modalità isterica”. “Il soggetto con modalità isterica, piuttosto che registrare nel proprio corpo le conseguenze positive o negative di un’azione, utilizza come criterio di scelta lo ‘sguardo dell’altro’, ogni scelta è guidata dal bisogno di imitare ciò che gli permette di avere su di sé le attenzioni dell’altro”. Neppure professionisti brillanti e colti, sono esenti da questa modalità, se “dietro il fascino delle apparenze si cela l’angoscia di essere rifiutato o abbandonato dall’altro (…). Parafrasando Cartesio, il motto del soggetto con modalità isterica è ‘Imitor, ergo sum’, imito per essere qualcuno, imito per esistere.”
   In sintesi, allora, la modalità isterica è il fallimento dell’incontro autentico con l’altro; condizione sofferta da chi non riesce a gestire una relazione autentica perché è l’altro, col suo approvare/non approvare, ad avere il potere sulla relazione.
Giovanni Salonia
     Rosaria Lisi chiama in causa ancora il professore Salonia, secondo cui l’anelito alla confluenza (cioè alla fusione-con-l’altro), che caratterizza il paziente isterico, gli fa percepire l’Ambiente come una parte di sé. Tale modalità relazionale è sostenuta proprio dal fatto che: «L’angoscia di separazione non permette all’isterico di avere i confini ben differenziati. Non sperimentando il contatto pieno per mancanza di differenziazione, l’isterico non assimila le proprie esperienze ma ‘fa finta’ di vivere esperienze, ‘tutto è pertinente’ vuol dire che niente viene assimilato». «La funzione-Io è il grande problema dell’isteria – afferma ancora Salonia – poiché “le emozioni non trovando nell’organismo il senso della propria integrità vagano e, in un certo qual senso, diventano sostitutivi della funzione-Io. Il paziente isterico è la situazione, è l’emozione; non può dire ‘ho quest’emozione’ perché manca della funzione-Io che discrimina tra ciò che è pertinente e ciò che non lo è».
Il soggetto con modalità isteriche, quindi, recita sempre, ed e incapace di raccontarsi.
Come sostenerlo e aiutarlo?
     “Il lavoro con la personalità isterica  - sostiene l'autrice - si focalizza essenzialmente sulla funzione del pensare piuttosto che sulla consapevolezza delle sensazioni o – men che meno – delle emozioni”.  Se si “rimane” sulle emozioni, infatti, si continua ad amplificare ciò che non è autentico.
   E quindi, nella postmodernità in cui imperano le emozioni individuali e collettive, per riappropriarsi della propria sana integrità, bisogna re-imparare a pensare, a differenziarsi dagli altri, a distinguere, dalle mille suggestioni dell’ambiente, il proprio pensiero. Sempre attuale, dunque, la massima ‘Conosci te stesso’, incisa nel frontone del tempio di Apollo a Delfi, eredità della cultura greca. 
    Sottolinea ancora Rosaria Lisi: “Il lavoro sulla funzione del pensare (…) ha il vantaggio di favorire il pensiero che permette la differenziazione. Infatti, è il pensare – e il pensare pensieri diversi – che dà inizio alla differenziazione, in cui «il pensiero apre il senso della propria integrità"
    Allora non saranno le migliaia di like di consenso a salvare una persona, e una società intera, affette da modalità isteriche. “A favorire la guarigione dell’isterico sarà la capacità di far emergere la sua angoscia nella differenziazione, sostenendolo e aprendolo al piacere di essere sé stesso di fronte all’altro con un pensiero e una bellezza propri.” 
Conclude significativamente l'autrice:
Il lavoro con il paziente isterico, in fondo, ripercorre la difficile strada che ogni uomo e ogni donna (…) attraversano nella travagliata lotta tra l’inevitabile adattamento alle richieste dell’ambiente e l’audace scelta di essere sé stessi di fronte al mondo, una lotta che, se si risolve senza né vincitori né vinti, conduce alla scoperta di nuove e creative possibilità di esprimere pienamente sé stessi nei diversi contesti che la vita presenta.”

Maria D’Asaro

mercoledì 17 novembre 2021

La solitudine? E' donna, parola poetica di Blaga Dimitrova

    Mercoledì 10 novembre,  presso la Casa dell’Equità e della bellezza (a Palermo, in via Garzilli,43) Adriana Saieva ha proposto un incontro di meditazione sul tema: Stati d’animo, riflessioni a partire dalle poetesse di ogni tempo e luogo.
     Tra le innumerevoli che costellano l'universo della poesia al femminile, Adriana ha offerto una  toccante selezione di poesie su un particolare stato d'animo: la solitudine. Ecco la prima - "Donna sola in cammino", della poetessa bulgara Blaga Dimitrova:

Scomodo rischio è questo
in un mondo ancora tutto al maschile.
Dietro a ogni angolo ti aspettano
in agguato incontri vuoti.
E percorri vie che ti trafiggono
con sguardi curiosi.
Donna sola in cammino.
Essere inerme
è la tua unica arma.


Tu non hai mutato alcun uomo
in protesi per sostenerti,
in tronco d'albero per appoggiarti,
in parete - per rannicchiarti al riparo.
Non hai messo il piede su alcuno
come su un ponte o un trampolino.
Da sola hai iniziato il cammino,
per incontrarlo come un tuo pari
e per amarlo sinceramente.

Se arriverai lontano,
o infangata cadrai,
o diventerai cieca per l'immensità
non sai, ma sei tenace.
Se anche ti annientassero per strada,
il tuo stesso partire
è già un punto d'arrivo.

Donna sola in cammino.
Eppure vai avanti.
Eppure non ti fermi.
Nessun uomo può
essere così solo
come una donna sola.
Il buio davanti a te cala
una porta chiusa a chiave.
E non parte mai, di notte
la donna sola in cammino.
Ma il sole come un fabbro
schiude i tuoi spazi all'alba.

Tu cammini però anche nell'oscurità
e non ti guardi intorno con timore.
E ogni tuo passo
è un pegno di fiducia
verso l'uomo nero
col quale a lungo ti hanno impaurita.
Risuonano i passi sulla pietra.
Donna sola in cammino.
I passi più silenziosi e arditi
sulla terra umiliata,
anche lei
donna sola in cammino.

Blaga Nikolova Dimitrova (qui sue notizie biografiche)

Blaga Dimitrova




















(per chi è interessato, gli incontri di meditazione alla Casa dell’Equità e della bellezza sono ogni mercoledì, dalle 18 alle 19.30. Ecco il link informativo a quello odierno, condotto da Margherita Ganci)

domenica 14 novembre 2021

Le audaci imprese del capitano Shackleton


     Palermo – “Una catastrofe psico-cosmica mi sbatte contro le mura del tempo. Sentinella, che vedi? (…) Durante la grande guerra nel gennaio del 1915, un forte vento spingeva grandi blocchi di ghiaccio galleggianti imprigionando per sempre la nave dell'audace capitano Shackleton”. Questo l’inizio della canzone che Franco Battiato, nell’album “Gommalacca” del 1998, dedicava all’esploratore. 
    Chi era il capitano Shackleton e per quali audaci imprese lo ha ricordato il cantautore siciliano con le sue note suggestive? Di origini irlandesi, Ernest Shackleton (1874-1922) è stato un esploratore britannico, capitano di Marina. Il padre medico desidera che praticasse la sua stessa professione; ma a 16 anni Ernest si arruolò come mozzo su una nave della Marina mercantile britannica e sei anni dopo, nel 1896, venne promosso nostromo. 
    Nel 1901 iniziò la sua carriera di esploratore del Polo Sud, come terzo luogotenente sulla nave Discovery guidata da Robert Falcon Scott, nella spedizione artica organizzata dalla Royal Geographical Society, il cui ambizioso obiettivo era raggiungere per primi il Polo Sud. L’equipaggio conseguì il primato dell’attraversamento del Mare di Ross e scoprì nuovi terre artiche. Ma, a causa dell’inesperienza nell’organizzazione – i viveri non furono sufficienti, i cani da slitta erano stremati – gli esploratori dovettero fermarsi il 31 dicembre 1902 a circa 480 miglia dal Polo Sud, a 82° 17’ di latitudine. 
La nave Endurance imprigionata dal ghiaccio
     Durante il rientro, che si trasformò in una corsa per sopravvivere, Shackleton fu affetto dallo scorbuto e dovette rimpatriare subito in Gran Bretagna, dove comunque fu festeggiato da eroe.
Dal 1907 al 1909 ci fu la sua seconda missione in Antartide: la spedizione Nimrod, guidata dallo stesso Shackleton che, con i compagni Frank Wild, Eric Marshall e James Adams,  giunse a 88° 23’ di latitudine sud  e stabilì per tre anni il primato di avvicinamento al Polo Sud. Però, a soli 180 km dall’agognato traguardo, valutando le scorte e le forze del gruppo, Shackleton decise di interrompere il tentativo e di tornare al campo base. Motivò la sua sofferta decisione affermando: "Better a live donkey than a dead lion (Meglio un asino vivo che un leone morto)". La spedizione riuscì a localizzare il Polo Sud magnetico, a scalare il monte Erebus (il vulcano attivo sull’isola di Ross) e a scoprire il passaggio nel ghiacciaio di Beardmore.
     Al ritorno in patria il capitano Shackleton fu nominato cavaliere (Sir), Comandante dell’Ordine reale vittoriano e Ufficiale dell’Impero britannico. Il Polo Sud fu poi raggiunto per la prima volta da Roald Amundsen, con altri cinque norvegesi, il 14 dicembre 1911.
   Il 9 agosto 1914 Ernest Shackleton salpò da Plymouth per la sua terza missione con la nave Endurance: dopo il raggiungimento del Polo sud da parte di Amundsen (e poi di Scott) l'unica conquista di prestigio da compiere era la traversata del continente antartico.
Il 10 gennaio 1915 l’Endurance raggiunse il mare di Weddell; ma il 19 rimase incastrata nella banchisa, andando alla deriva, finché il 27 ottobre, dieci mesi dopo, dovette essere abbandonata: il 21 novembre la nave fu completamente distrutta dalla pressione del ghiaccio. Shackleton e l’equipaggio si trasferirono sulla banchisa, in un accampamento d'emergenza chiamato "Ocean Camp", dove rimasero fino al 29 dicembre, quando furono costretti a spostarsi, con tre scialuppe di salvataggio, su un altro lastrone di banchisa battezzato “Patience Camp”. Vi rimasero fino all'8 aprile 1916 ma, quando il lastrone incominciò a sciogliersi, nonostante le terribili condizioni avverse,  navigarono a bordo dello loro scialuppe e raggiunsero così l'isola Elephant 
    Poiché le probabilità che qualcuno li soccorresse nell’isola erano nulle, per cercare aiuto Shackleton decise quindi di raggiungere la Georgia del Sud (distante circa 1.600 km), utilizzando la scialuppa migliore, insieme a cinque uomini. I sei salparono il 24 aprile 1916 e riuscirono ad attraccare nella parte meridionale dell'isola, dopo 15 giorni di navigazione in condizioni meteorologiche pessime. 
Da qui Shackleton, con due compagni, in sole 36 ore fu capace di attraversare 30 miglia di montagne e ghiacciai inesplorati della Georgia del Sud per raggiungere il 20 maggio la stazione baleniera di Stromness, sulla costa settentrionale. Da lì organizzò il soccorso degli uomini rimasti sull'isola di Elephant che furono tratti in salvo, al quarto tentativo, nell’agosto 1916, col rimorchiatore cileno Yelcho.
    L’incredibile impresa viene cantata così da Battiato: “Su un piccolo battello, con due soli compagni, navigò fino a raggiungere la Georgia Australe; mentre i 22 superstiti dell'isola Elefante sopportavano un tremendo inverno. (…) Per sopravvivere furono costretti a uccidere i loro cani, per sopravvivere. Ma il 30 agosto 1916, il leggendario capitano, compariva a salvarli con un'altra nave.”
La tomba di Shackleton, nella Georgia del Sud
   Nel 1920 Shackleton tentò di organizzare un’altra spedizione, questa volta verso il Polo Nord per raggiungere il Polo Artico. Ma numerosi ritardi e contrattempi impedirono una partenza tempestiva per evitare l'inverno artico. Fu allora preparata un’ulteriore spedizione in Antartide.
La nave designata, la ‘Quest’, salpò il 17 settembre 1921 da Londra, salutata da una folla esultante. A bordo vi erano molti dei partecipanti alla precedente spedizione Endurance. La nave arrivò al porto di Grytviken, nella Georgia del Sud il 4 gennaio 1922. Ma, nella notte del 5 gennaio, Shackleton morì per un attacco cardiaco, a soli 47 anni. La moglie Emily dispose che venisse sepolto nel cimitero dei pescatori di Grytviken.
   Battiato conclude l’omaggio musicale al capitano con versi in tedesco, che evocano un crepuscolo silenzioso e un giardino ghiacciato, con rose dolenti. 
   Rose che vorremmo idealmente deporre sulla tomba dell’audace Shackleton, nel crepuscolo sempre gelato di quel cimitero così vicino all’agognato Polo Sud…

Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 14.11.21


venerdì 12 novembre 2021

Qui (non) si parla di politica...

Renè Magritte: Il falso specchio, 1928
     Nostra signora si era accorta con rammarico che da tempo nei suoi post non si parlava di politica. Ma non per mancanza di interesse: al contrario gliene importava anche troppo. Le importava tantissimo dell’ecologia e della salvaguardia della Terra (e di questo ogni tanto scriveva), di un’equa distribuzione delle risorse, della giustizia sociale, della lotta alle dittature, del rispetto dei diritti umani, del no all’industria delle armi…
     Il modo di trattare questi temi, o la loro assenza nell’agenda politica italiana e internazionale, la lasciava perplessa e assai triste. Era sconvolta dal destino delle donne afghane, dall’eterna prigionia di Patrick Zaki. Persino della sua città, piena di rifiuti e priva di un progetto di bene comune, non era entusiasmante parlare. 
     Ecco perché preferiva tacere. E pubblicare poesie di Wislawa Szymborska o scritti dell’amata Natalia Ginzburg: in questo grigiore, le loro parole speciali le donavano bagliori di luce e le tenevano compagnia.

mercoledì 10 novembre 2021

La pazienza dell'albero e del cuore...

Claude Monet, Pioppi sulla riva dell'Epte, 1891
    Tutto è portare a termine e poi partorire. Lasciare che ogni impressione e ogni germe d’un sentimento si compia dentro di sé, nel buio, nell’indicibile, nell’oscurità irraggiungibile alla propria ragione, e attendere con profonda umiltà e pazienza l’ora della nascita d’una nuova chiarezza: questo solo si chiama vivere da artista: nel comprender come nel creare.
Qui non si misura il tempo, qui non vale alcun termine e dieci anni son nulla. Essere artisti vuol dire: non calcolare e contare; maturare come l’albero, che non incalza i suoi succhi e sta sereno nelle tempeste di primavera senza l’ansia che dopo non possa giungere l’estate. Ma essa giunge solo a chi è paziente e vive come se l’eternità gli stesse innanzi, e sta sereno, con uno sguardo vasto e sgombro da ogni ansia. Io l’imparo ogni giorno, l’imparo tra i dolori, cui sono riconoscente: la pazienza è tutto! 

 (tratto dalla lettera scritta a Viareggio, 23 aprile 1903)
    
 Se lei si attiene alla natura, a quanto in essa vi è di semplice di piccolo, che è invisibile ai più e può a un tratto farsi grande e incommensurabile; se prova questo amore per le umili cose, e con semplicità, da servitore, cerca di conquistare la fiducia di ciò che sembra povero: allora tutto le diverrà più facile, più uniforme, più conciliante (…).
      Lei è così giovane, così nuovo a ogni inizio, e io vorrei pregarla come posso, caro signore, di essere paziente verso tutto l’insoluto del suo cuore, e di tentare di amare le domande stesse come stanze chiuse, e come libri scritti in una lingua molto estranea. Non ricerchi ora le risposte, che non possono esserle date perché non le potrebbe vivere. Mentre si tratta appunto di vivere tutto. Ora viva le domande. Forse così a poco a poco, insensibilmente, si troverà un giorno lontano a vivere la risposta. 
(tratto dalla lettera scritta a Worpswede, presso Brema, 16 luglio 1903)

Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, a cura di Marina Bistolfi

martedì 9 novembre 2021

La famiglia Manzoni...

     "Ho tentato di mettere assieme la storia della famiglia Manzoni; volevo ricostruirla, ricomporla, allinearla ordinatamente nel tempo. Avevo delle lettere e dei libri. 
    Non volevo esprimere commenti, ma limitarmi a una nuda e semplice successione dei fatti. Volevo che i fatti parlassero da sé. Volevo che le lettere, accorate o fredde, cerimoniose o schiette, palesemente menzognere o indubitabilmente sincere, parlassero da sé. Pure alcuni commenti mi è sembrato via via impossibile non esprimerli. Sono quanto mai rari e brevi.
    Il protagonista di questa lunga storia famigliare non volevo fosse Alessandro Manzoni. Una storia famigliare non ha un protagonista; ognuno dei suoi membri è di volta in volta illuminato o risospinto nell’ombra.  Non volevo che egli avesse più spazio degli altri; volevo che fosse visto di profilo o di scorcio, e mescolato in mezzo agli altri, confuso nel polverio della vita giornaliera.
    E tuttavia egli domina la scena; è il capo-famiglia; e gli altri certo non hanno la sua grandezza. E d’altronde egli appare più degli altri strano, tortuoso, complesso. In qualche raro istante, mi è sembrato impossibile non osservarlo di faccia, e in solitudine. 
    Nel corso della mia vita ho scritto romanzi e non avevo mai scritto nulla che richiedesse il soccorso di libri o lettere scritti da altri;  non avevo ma usato nulla se non la mia propria memoria e a mia immaginazione.
   E nemmeno mai mi ero trasferita, scrivendo, in un altro secolo; e che cosa mi abbia spinto a tentare di ricomporre insieme, in un’epoca da me lontana, una storia fatta di persone veramente esistite, non saprei dirlo.
    Come ogni storia famigliare sulla quale è passato un secolo, questa presenta lacune, vuoti, erosioni, anelli mancanti. Io credo che simili erosioni e devastazioni mi siano parse attraenti perché misteriose e dolorose, e perché inoltrarvisi era strano come inoltrarsi per una terra sconvolta da un nubifragio; dove accadeva a volte di incontrare oggetti e suppellettili, quando intatti e quando sciupati, ma caldi ancora della vita degli esseri umani che li toccarono."
Natalia Ginzburg
(risvolto scritto dall’autrice per la prima edizione de “La famiglia Manzoni”, 1983, Einaudi)

(Un testo affascinante. Dopo averlo letto, il 5 maggio e i Promessi Sposi hanno un sapore diverso...)

domenica 7 novembre 2021

Glasgow, COP-26: ultima chiamata per salvare l’umanità

   Palermo - Il 31 ottobre a Glasgow, in Scozia, è iniziata la COP-26: 26esima Conferenza internazionale delle Nazioni Unite sul clima. Alla Conferenza, che si concluderà il 12 novembre, partecipano circa 120 capi di Stato, oltre a vari Ministri dell’Ambiente e numerosi negoziatori. A Glasgow si tenterà di raggiungere un accordo globale per la riduzione dei gas serra e il contenimento dell’aumento della temperatura a 1 grado e mezzo, per mitigare gli effetti del cambiamento climatico.
    Il primo Summit della Terra si è tenuto nel 1992 a Rio de Janeiro dove organizzazioni non governative ed esponenti dei governi di 172 paesi si sono confrontati sull’impatto ambientale dei mezzi di produzione, dei sistemi di trasporto e sulle risorse di energia sostenibile alternative all’utilizzo di combustibili fossili, responsabili del riscaldamento del pianeta. Da allora, secondo la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) del 1992, ogni Paese è vincolato a mettere in atto azioni concrete per ridurre le emissioni di gas serra.
    Dopo la conferenza di Rio, sono state ben 25 le Conferenze mondiali sul clima. Nella COP-21, tenutasi a Parigi nel dicembre del 2015, è stato sottoscritto un accordo firmato da 195 Paesi che si sono impegnati a mantenere l'aumento della temperatura globale entro 1,5° C rispetto ai livelli preindustriali.     Per raggiungere l’obiettivo, giuridicamente vincolante, i paesi firmatari hanno concordato la creazione di piani nazionali indicanti la misura della riduzione delle proprie emissioni, i cosiddetti NDC (Nationally Determined Contribution), cioè Contributi determinati a livello nazionale, con i quali ci si è impegnati a ridurre o frenare la crescita delle emissioni di gas serra entro il 2030. Secondo un rapporto dell'ONU, per avere buone possibilità di limitare il riscaldamento globale, le emissioni devono essere ridotte del 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2010, mentre dal 2030 in poi ed entro il 2050 dovrebbero progressivamente azzerarsi.
    A Glasgow, in particolare, i partecipanti discuteranno di tre importanti questioni: finanza climatica, graduale eliminazione del carbone e messa in atto di interventi a sostegno dell’equilibrio naturale.
I finanziamenti per il clima sono gli aiuti dati ai paesi più poveri per aiutarli a ridurre le emissioni e far fronte agli impatti delle condizioni meteorologiche estreme. Durante la COP-15, svoltasi a Copenaghen nel 2009, era stato stabilito un finanziamento di 100 miliardi di dollari entro il 2020, ma ne sono stati erogati circa 20 miliardi in meno. I paesi in via di sviluppo puntano a un nuovo accordo finanziario che amplierà i fondi disponibili oltre il 2025.
    L'eliminazione graduale dell’uso del carbone è essenziale per contenere il riscaldamento globale entro il limite auspicato. La Cina, il più grande consumatore di carbone del mondo, smetterà di finanziare nuove centrali elettriche a carbone all'estero. Ma molto resta ancora da fare considerato che Cina, India, Indonesia, Messico, Australia e altri paesi non cesseranno subito la produzione e il consumo di carbone.
     A sostegno dell’ambiente si attueranno poi progetti come la conservazione e il ripristino di foreste, di torbiere, di zone umide e la messa a coltura di tanti alberi.
    Purtroppo gli attuali NDC, cioè i contributi determinati a livello nazionale, presentati recentemente da oltre cento paesi, sono insufficienti. Secondo quanto riferito da un recente rapporto dell’ONU, essi si tradurrebbero in un aumento del 16% delle emissioni, assai lontano dal taglio del 45% necessario. Inoltre, se la Cina - il cui presidente Xi Jinping peraltro non partecipa alla Conferenza di Glasgow - continuerà con il suo ritmo di emissioni di CO2, l’aumento di temperatura non potrà essere inferiore purtroppo ai 2,4 gradi.
    “Il pianeta segna l’allarme rosso, ma le leadership mondiali sono spente”, ha affermato il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, commentando il rapporto che analizza il divario tra le intenzioni dei paesi e le azioni necessarie contro il riscaldamento globale. “Molti degli impegni verso l’abbandono dell’uso del carbone sono risultati vaghi e, a meno di un taglio rigoroso alle emissioni nei prossimi dieci anni, gli Stati ci stanno conducendo dritti verso una potenziale catastrofe climatica. I paesi stanno sprecando un'enorme opportunità di investire le risorse fiscali e i finanziamenti post-Covid in modi sostenibili per il pianeta. Questo rapporto è un altro tonante campanello d'allarme. Di quanti altri ne abbiamo bisogno?”, ha aggiunto Guterres.
    Inger Andersen, direttore esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente (UNEP) ha poi dichiarato: “Il cambiamento climatico non è più un problema futuro. È ora. Per avere una possibilità di limitare il riscaldamento globale entro 1,5°C, abbiamo otto anni per dimezzare le emissioni di gas serra: otto anni per fare i piani, mettere in atto le politiche, implementarle e infine realizzare i tagli. Il tempo scorre e il ticchettio dell’orologio è forte”.
   Capirà l’umanità che la casa comune brucia davvero e che, se non si spegne l’incendio, domani non si potrà suonare la musica della vita?


Maria D’Asaro, 7.11.21, il Punto Quotidiano

sabato 6 novembre 2021

Sfumature autunnali

 






                                                          Milano: Collina dei ciliegi







                          Genova: Palazzo Reale - Sampierdarena - veduta da Castelletto

giovedì 4 novembre 2021

4 Novembre: niente da festeggiare

    Quella del 4 novembre più che una festa in onore dei caduti in guerra, ha il sapore di un'offesa. Non c'è nulla da festeggiare quando qualcuno muore. È sempre una sconfitta. Soprattutto se non ha scelto di sacrificare la propria vita ma vi è stato costretto dalle leggi dell'epoca. Chiedetelo a quei morti se avrebbero scelto liberamente di combattere e sacrificare la propria giovinezza! 
   Leggo nel sito dell'Esercito italiano che oggi è la festa di tutti coloro che continuano a mettere a repentaglio la propria vita per garantire la sicurezza degli italiani e penso a chi, nei giorni più bui della crisi pandemica, hanno operato nelle Rsa e negli ospedali, penso a un amico medico in pensione che volontariamente ritornò in servizio e venne ucciso dal virus. Penso a tutti questi e ad altri ancora. A giornalisti, magistrati, poliziotti, preti e cittadini inconsapevoli uccisi dalle mafie. Da tutti questi mi sono sentito davvero garantito e protetto. 
   Penso che nelle guerre di ultima generazione buona parte delle armi, soprattutto quelle nucleari, sono pensate e utilizzate per colpire la popolazione civile. Penso a una retorica senza fondo che narra con enfasi della conquista di Trento e Trieste che avremmo potuto ottenere senza sparare un solo colpo, diceva don Milani. Condoglianze e non auguri dovremmo dire oggi. Senza parate e senza sventolii di bandiere, se non a mezz'asta.
Tonio Dell’Olio, Mosaico dei giorni -  Bandiere a mezz'asta - 4 novembre 

Questi esseri umani sono stati uccisi. Da altri esseri umani.
La quasi totalità di loro neppure si conosceva, non aveva alcun personale motivo d'inimicizia.
Hanno ucciso e sono stati uccisi perché qualcuno ha dato loro un'arma, una divisa, un ordine.
La guerra é sempre e solo un crimine contro l'umanità. Occorre abolire tutti gli eserciti e tutte le armi. (…)
Il dolore per la loro morte ci chiama ad opporci a tutte le guerre, a tutti gli eserciti, a tutte le armi, a tutti i poteri assassini.
Ogni potere armato è già assassino. Ogni arma è nemica dell' umanità.
Ogni vittima ha il volto di Abele. Salvare le vite è il primo dovere. (...)

Pace, disarmo, smilitarizzazione. Opporsi alla violenza con la nonviolenza, la solidarietà, la condivisione del bene e dei beni.
Soccorrere, accogliere, assistere ogni persona bisognosa di aiuto. Opporsi al male facendo il bene.
Se non si rispetta la vita e la dignità delle persone, ogni bene è perduto, nulla si salva.
Solo la nonviolenza può salvare l'umanità dalla catastrofe. (…)
Questi uccisi ci chiedono di impedire che altre persone siano uccise, ci chiedono di far cessare la dittatura della violenza, ci chiedono di liberare l'umanità dal crimine della guerra.
Ci dicono: siamo una sola famiglia umana in un unico mondo vivente casa comune dell'intera umanità.

Peppe Sini, resp. del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" - Viterbo
 dal Notiziario on line: “La nonviolenza è in cammino”

martedì 2 novembre 2021

Intervista con Atropo

Bernardo Strozzi: Le tre Parche,1635 circa
La signora Atropo? 
Esatto, sono io. 

Delle tre figlie della Necessità
Lei è quella con la fama peggiore.
Grossa esagerazione, poetessa mia.
Cloto tesse il filo della vita,
ma quel filo è sottile, 
non è difficile tagliarlo. 
Lachesi con la pertica ne fissa la lunghezza. 
Non sono innocentine.

Però le forbici sono in mano Sua.
Giacché lo sono, ne faccio uso.

Vedo che anche ora, mentre conversiamo… 
Sono lavorodipendente, questa è la mia natura.

Non si sente annoiata, stanca, 
assonnata quantomeno di notte? No, davvero no?
Senza ferie, weekend, feste comandate 
o almeno brevi pause per una sigaretta? 
Ci sarebbero arretrati, e questo non mi piace.

Uno zelo inconcepibile. 
Senza mai qualche riconoscimento, 
premi, menzioni, coppe, medaglie? 
Magari diplomi incorniciati? 
Come dal barbiere? Molte grazie. 

Qualcuno L’aiuta? E se sì, chi? 
Un paradosso niente male – appunto voi, mortali. 
Svariati dittatori, numerosi fanatici. 
Benché non sia io a costringerli. 
Per loro conto si danno da fare.

Di sicuro anche le guerre devono rallegrarLa, 
in quanto danno un bell’aiuto. 
Rallegrarmi? E’ un sentimento sconosciuto. 
Non sono io che invito a farle, 
non sono io che ne guido il corso. 
Ma lo ammetto: è grazie a loro soprattutto 
che posso stare al passo. 

Non Le dispiace per i fili tagliati troppo corti? 
Più corti, meno corti – 
solo per voi fa la differenza.

E se uno più forte volesse sbarazzarsi di Lei 
e provasse a mandarLa in pensione? 
Non ho capito. Sii più chiara. 

Riformulo la domanda: Lei ha un superiore? 
… Passiamo alla domanda successiva.

Non ne ho altre. 
In tal caso, addio. 
O per essere più esatti…

Lo so, lo so. Arrivederci. 


Wisława Szymborska, “La gioia di scrivere” , trad. di Pietro Marchesani, pag.659, Adelphi, 2016