domenica 29 ottobre 2023

Operazione Colomba, vicini a chi soffre

     Palermo – In questi giorni bui, segnati dai terribili resoconti di quanto accade in Israele e Palestina, fa bene sapere che esistono associazioni italiane impegnate accanto a chi soffre. 
   Come la Comunità Papa Giovanni XXIII, di ispirazione cattolica: presente oggi in trenta Paesi di vari continenti con progetti a favore di minori, di vittime di violenza e di sfruttamento, di popoli coinvolti in conflitti armati, la Comunità nasce nel 1968 a opera del sacerdote don Oreste Benzi con una ‘mission’ di tipo assistenziale verso soggetti fragili (poveri, bambini, portatori di handicap) con uno stile di coinvolgimento attivo e paritario/familiare degli operatori. 
      Con la nascita al suo interno di Operazione Colomba, nell’associazione si sviluppa una vocazione più specifica per la presenza nonviolenta in zone di conflitto.
     Come ha raccontato la volontaria Caterina Ferrua, nel suo intervento a Palermo il 16 ottobre scorso, Operazione Colomba nasce quasi per caso nel 1992, quando  due giovani obiettori di coscienza di Rimini scelgono di recarsi nella dirimpettaia ex Jugoslavia, allora martoriata dalla guerra, per favorire i contatti tra i familiari degli opposti schieramenti, condividendo la vita difficile della gente ed effettuando accompagnamenti di scorta civile. Lì cercano di testimoniare concretamente la loro equivicinanza umana, contribuendo a riunire famiglie divise dai diversi fronti con la creazione di spazi di incontro, dialogo e convivenza pacifica. 
  L'esperienza maturata sul campo ha poi portato l’associazione a presenze stabili in alcune zone di conflitto: in Colombia e in Cile, in Medio Oriente (Libano, Palestina e Israele), in Ucraina e in Grecia, dove oggi, tra volontari e obiettori di coscienza, sono impegnate oltre 2.000 persone.
In Operazione Colomba ci sono volontari di lungo periodo, se offrono uno o più anni di disponibilità, e volontari di breve periodo, se invece sono disponibili solo per qualche mese. L’esperienza è aperta a chiunque, credente e no. Di indispensabile c’è l’adesione al percorso nonviolento - l’associazione crede fermamente che la nonviolenza sia l'unica forza attiva in grado di fermare la spirale di odio e vendetta generata dalle guerre - la maggiore età (e non avere più di 75 anni) e la partecipazione a un corso di formazione specifico.
Caterina Ferrua
    Gli interventi di Operazione Colomba si configurano quindi come un modello efficace di Corpo Civile e Nonviolento di Pace nei conflitti armati internazionali o nelle tensioni sociali acute.
Dal 1992 ad oggi Operazione Colomba ha stretto importanti rapporti di collaborazione con Istituzioni Nazionali ed Internazionali (ONU, UE), Centri per i Diritti Umani ed ONG, esponenti di Chiese e Associazioni. L’associazione svolge anche un importante ruolo di denuncia - spesso in modo silenzioso e discreto - attraverso i contatti con Agenzie Internazionali e Governi per sollecitare interventi istituzionali a favore di chi patisce condizioni di ingiustizia. 
    Caterina Ferrua, volontaria trentunenne che ha già operato per due anni e mezzo al Campo profughi siriani di Tel Abbas in Libano, ha evidenziato i tre pilastri fondamentali di Operazione Colomba: la condivisione, la scelta nonviolenta e l’equivicinanza. 
    La scelta della condivisione implica che i volontari ‘abitano il conflitto’, condividendo con le vittime la precarietà delle situazioni d’emergenza, diventando ‘prossimi’: si mettono accanto alle persone e vivono nei loro stessi luoghi (campi profughi, zone di guerra) condividendo tutto ciò che caratterizza il loro contesto di vita (cibo, routine, abitazioni) e anche le situazioni di pericolo. 
In questo modo, i volontari rompono l’iniziale diffidenza verso la loro presenza di ‘occidentali’: accompagnano le persone nei loro spostamenti, recapitano messaggi, viveri, pacchi, fanno la spesa, procurano cibo, medicine o altri generi di necessità. La loro sola presenza (ben visibili magliette o giubbotti che li contraddistinguono) serve spesso da protezione alle persone che hanno accanto. 
   Il secondo pilastro della loro opera è la nonviolenza: i volontari vivono in situazioni di guerra o di ingiustizie e tensioni sociali, dove la loro scelta nonviolenta è imprescindibile e sperimentano che è l'unica via per ottenere una risoluzione autentica dei conflitti, fondata su verità, giustizia e riconciliazione.   Caterina ha raccontato che, all’inizio della giornata, i volontari fanno sempre un momento di meditazione e di silenzio che possa aiutarli ad avere almeno un … luogo di pace interiore per affrontare le situazioni difficili e complesse che si troveranno a vivere. 
    Ad esempio, nei campi profughi del Libano dove stanno da anni migliaia di siriani fuggiti dalla guerra, i volontari costituiscono una presenza importante in un contesto interno spesso violento: purtroppo, infatti, le condizioni di precarietà e di sofferenza scatenano tensioni e violenze tra chi vive lì in situazione di estrema privazione. Donne e bambini sono le prime vittime spesso anche all’interno della famiglia stessa. 
   Terzo e ultimo fondamento di Operazione Colomba è l’equivicinanza, anche fisica, a tutte le vittime delle parti in conflitto, indipendentemente da etnia, religione, appartenenza politica. Caterina ha raccontato che per 21 anni i volontari dell’associazione hanno vissuto in un villaggio di pastori palestinesi nella cosiddetta Green Line, nel sud della Cisgiordania, in una zona semidesertica. Lì era nato un comitato di lotta popolare nonviolenta, in dialogo con una parte degli israeliani. Oggi il precipitare degli eventi ha costretto, loro malgrado, i volontari a rientrare in patria.
   Prima della tappa a Palermo, Caterina ha detto di essersi recata a Modica, in provincia di Ragusa, a visitare una famiglia siriana - marito, moglie, tre figli – una delle prime a entrare legalmente in Italia qualche anno fa, grazie ai Corridoi umanitari: protocolli giuridici che permettono l’ingresso legale e sicuro in Europa di persone vulnerabili, potenzialmente beneficiarie di protezione internazionale. 

I promotori dei Corridoi umanitari sono associazioni della società civile (Comunità di sant’Egidio, Caritas, Chiesa Valdese, Comunità Evangeliche) che negoziano e firmano i Protocolli con gli stati europei in cui i Corridoi vengono realizzati. Le associazioni selezionano i beneficiari e ne organizzano il viaggio in Europa, scegliendo, formando e monitorando la rete dell’accoglienza. Le autorità pubbliche garantiscono infatti la cornice giuridica e legale per i Corridoi umanitari, ma non sono coinvolte sul piano operativo e finanziario, che rimane a carico dei gruppi di accoglienza.
    I corridoi umanitari, in ultima analisi, non sono una forma di assistenza pubblica ai migranti beneficiari, in quanto si reggono esclusivamente sulle risorse economiche messe a disposizione dalla società civile.
     Vittorio Arrigoni, attivista italiano ucciso nel 2011 in Palestina, esortava a ‘restare umani’: i volontari di Operazione Colomba ci riescono, a nome di tutti gli uomini e le donne di buona volontà.

Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 29.10.23

sabato 28 ottobre 2023

Pensare il nemico: la voce di David Grossman

      "Pensare il nemico - tentando di comprendere il suo punto di vista, cercando di immaginare che cosa prova nei nostri confronti - è la via per riconoscerne l’esistenza. La guerra, la violenza, il fondamentalismo negano il nemico come persona, con la sua irripetibile individualità, lo relegano nell’anonimato della cosa, senza volto, come fosse una massa indistinta. “Resuscitare la persona dentro l’armatura”, da entrambe le parti in lotta, alternativamente in attacco e in difesa, è l’unico spiraglio per un possibile futuro di pace.
Questo il messaggio di un intervento dal titolo Con gli occhi del nemico (2006), elaborato da David Grossman, lo scrittore israeliano che ha pagato di persona il prezzo del conflitto in medio oriente, perdendo il figlio Uri nella guerra contro Hezbollah. 
     Da sempre impegnato nella ricerca di possibili strade di pace, è tra le voci più autorevoli che abbiamo letto e ascoltato in questi terribili giorni... "(continua qui, nell'imperdibile blog di Gian Maria, Rosario e Rossana. Ringrazio in particolare Rossana per questo post)

martedì 24 ottobre 2023

La grazia dei 104 ...

     Chi è curioso di conoscere questa magnifica zia che oggi ha compiuto 104 anni, può leggere quiqui e qui.
     Zia Lillia continua a tenersi aggiornata su quanto accade nel mondo, da assidua lettrice di "Avvenire" e "Famiglia cristiana" (oggi segue con apprensione il terribile conflitto in Israele e Palestina), continua a stirare, a cucinare, ad andare a messa e dal parrucchiere, grazie anche all’impareggiabile compagnia della sorella più giovane (quasi 96 anni), la mitica zia Ninì.
     E continua ad amare le piante, il buon cibo, la compagnia… insomma, ad amare la vita.




lunedì 23 ottobre 2023

La lezione del signor L.

Luca Pugliese: I suoni della luce del sole (2013)
      Quando mise su casa, nostra signora ritrovò nel nuovo condominio il signor L., già suo vicino quando lei abitava con i genitori. Il vicino stimava sua madre e suo padre, che ricambiavano con identica stima.   
         Passavano gli anni, sua madre e suo padre non c‘erano più. Ma Il vicino continuava a sorriderle, nel ricordo dell’antica amicizia che si perpetuava con la sua nuova famiglia: infatti il vicino s’informava degli studi e delle attività dei suoi pargoli, uno dei quali aveva lo stesso nome del nonno e del vicino stesso. E forse per questo era omaggiato con uno sguardo ancora più buono.
     Intanto le cose cambiavano anche per il signor L: la sua casa, prima allegra per la presenza assidua di figli e nipoti, si era svuotata. Non c’erano più i nipoti in custodia e neppure la moglie, assai malata, ospite ormai di una struttura per ricevere le cure speciali che l’affettuoso marito non poteva più dare. Il signor L. era avanti negli anni e ormai solo. 
    Ma, quando si incontravano per strada o in portineria, era lui ad avere il sorriso più largo e più caldo: bypassando la sua solitudine, continuava a chiederle degli ex pargoli ormai lontani, ingegneri nel vasto mondo. E continuava a sorridere, con un sorriso più vasto, più profondo, più luminoso del suo.


domenica 22 ottobre 2023

Valencia, felice sintesi tra storia e futuro

      Palermo – Attratta da una mostra allestita per il centenario della morte del pittore valenciano Joaquin Sorolla, per la scrivente la città di Valencia si è rivelata una scoperta, attraente e godibile sotto ogni aspetto.
     La capitale valenciana, che si affaccia sul Mediterraneo lungo la costa centro-orientale del paese, è innanzitutto una città a misura di … donna: è ben collegata con il vicino aeroporto e numerose metropolitane attraversano in lungo e largo la città, in sinergia con i bus, permettendo ai turisti di muoversi agevolmente e di arrivare anche nelle zone meno vicine al Centro storico.
      I prezzi dei trasporti urbani sono poi a portata di tutte le tasche: la scrivente si è recata a Valencia a settembre in un giorno in cui, in occasione della settimana europea della mobilità sostenibile, i trasporti pubblici erano gratuiti (389 le città spagnole aderenti all’iniziativa, a fronte delle 91 italiane), mentre nei tre giorni successivi ha fruito di una ‘tarjeta’ (scheda) turistica dal costo di €22,50, che le ha consentito di utilizzare tutti i mezzi pubblici e di usufruire dell’entrata gratis o con biglietto ridotto nei musei, nelle chiese e in altri luoghi turistici. 
      A livello artistico e architettonico, la bellezza del centro storico valenziano eguaglia in bellezza quello madrileno. Innanzitutto, a Plaza del Mercado c’è la Lonja de la Seda, dal 1996 patrimonio dell’umanità: la Loggia della Seta o Loggia dei Mercanti è un complesso monumentale storico-artistico in stile gotico valenzano con decorazioni rinascimentali, costruito alla fine del XV secolo come luogo di raduno commerciale dei mercanti, segno della prosperità commerciale della città in quel periodo. 
La Sala de Contratación, dove i mercanti si riunivano per vendere e firmare i contratti per le grosse partite di merce, è l’ambiente architettonicamente più prezioso, con un tetto formato da volte sostenute da quattro file di colonne elicoidali slanciate che terminano nel soffitto. Le colonne dividono la sala in tre settori longitudinali pavimentati con intarsi marmorei. L'edificio è stato pensato come un tempio al commercio e il suo interno rappresenta un'allegoria del Paradiso, con le colonne che rappresentano le palme e le cupole simboleggiano la volta celeste. Una scritta in banda blu e lettere d’oro, lungo le quattro pareti della sala, inneggia alla necessaria unità tra etica ed economia.
   Vicino alla Loggia della Seta vale la pena visitare il Mercado Central - oggi uno dei maggiori mercati di prodotti freschi d’Europa - e il Mercado de Colòn, costruiti nei primi decenni del 1900, esempi del ‘modernismo valenciano’, vicino all’Art Nouveau, o stile Liberty.
Sorta nel XIII secolo in stile gotico valenciano sull'antica moschea di Balansiya, c’è poi da visitare la Cattedrale, sulla cui parete di fondo si trova il retablo, grande pala d’altare costituita da un'opera scultorea in alabastro, con scene dell'Antico Testamento nella parte inferiore e del Nuovo Testamento nella superiore. Sopra il retablo si trova una bella vetrata, al centro della quale c'è la raffigurazione del Santo Calice. Proprio in una suggestiva cappella della Cattedrale, è infatti custodito un calice ritenuto per tradizione il santo Graal, vale a dire la coppa con cui Gesù avrebbe celebrato l’Ultima cena.
Da fare senz’altro i 207 scalini che portano alla sommità del campanile della Cattedrale, detto Micalet (diminutivo del nome della campana principale, Miquel), uno dei simboli della città, da cui si gode uno splendido panorama.
   Da visitare anche, se possibile, la Basilica della Vergine degli Abbandonati, che si trova in Plaza de la Virgen, e le chiese di san Giovanni dell’Ospedale, il più antico edificio di culto cattolico, e di san Nicola di Bari e di san Pietro martire.
   Meritano di essere viste poi le imponenti Torri dels Serrans e le Torres de Quarts: le uniche porte della città rimaste dopo l’abbattimento delle mura nel 1865.
Un’altra meraviglia di Valencia è il Giardino del Turia, il più vasto giardino urbano della Spagna: un parco di ben 110 ettari realizzato nel 1986 nel letto del fiume Turia, prosciugato e deviato fuori dai suoi confini cittadini per evitare ulteriori alluvioni, dopo quella disastrosa dell’ottobre del 1957 che causò molte vittime e gravi danni.
   Oltre a svariati parchi e campi sportivi, il giardino del Turia ospita anche la straordinaria Ciutat de les Arts i les Ciències (Città delle Arti e delle Scienze), progettata nel 1996 dagli architetti Felix Candela (che ideò solo l’Oceanografic perchè morì l’anno dopo) e Santiago Calatrava, che ha legato il suo nome all’opera.
    Vasta circa 350.000 mq, la Ciutat de les Arts i les Ciències è un esempio felice di architettura organica d’avanguardia: la bellezza mediterranea del mare e della luce traspare dal gioco di colori tra l'azzurro dei laghetti e il bianco, l’acciaio e il vetro degli edifici, dalla forma originale e suggestiva. 
Ne fanno parte: il Palau de les Arts Reina Sofia, che ospita e promuove le arti sceniche; l’Hemisfèric, la cui forma ricorda un gigantesco occhio umano, che ospita al suo interno uno schermo di quasi 900 mq che offre proiezioni cinematografiche in formato IMAX; l’Umbracle, la cui parte superiore è costituita da un giardino alberato che contiene una grande varietà di piante e alberi, mentre nella parte inferiore vi è un grande parcheggio a due piani; il Museo de las Ciencias Principe Felipe, la cui forma ricorda lo scheletro di un enorme dinosauro, attraente museo scientifico interattivo suddiviso in tre piani di circa 8.000 mq ciascuno; il museo va bene per visitatori di tutte le età e di ogni grado di cultura; l’Oceanografic, uno dei più grandi acquari d’Europa; il Pont de l’Assut de l’Or, il cui pilone è il punto più alto della città; l’Agora, una piazza coperta dove si realizzano convegni ed eventi sportivi. 
Valencia è anche ricca di musei: vale la pena visitare almeno il Museo delle Belle Arti che - oltre ad ospitare 46 dipinti di Sorolla in una mostra temporanea per il centenario della sua morte - costituisce una delle più importanti pinacoteche spagnole.
La città condivide poi con Madrid la buona cucina: pochi sanno che la tradizionale paella è nata proprio a Valencia (dove, anziché a base di pesce, è a base di carne, con pollo, coniglio, costine di maiale e le immancabili verdure); da qui, a partire dal XIX secolo, si è diffusa in tutta la Spagna. 
   In più Valencia ha l’azzurro magnifico del Mediterraneo: fa bene ai polmoni e all’anima passeggiare lungo gli oltre 20 km di costa, tra playa de la Malvarrosa e playa El Cabañal.
Gemellata con Palermo dal 2000, la scrivente si augura allora che per quantità di verde, sistema dei trasporti, pulizia urbana, gestione dei servizi, la capitale siciliana prenda esempio dalla sua gemella spagnola…

Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 22.10.23









venerdì 20 ottobre 2023

Femminismo: una visione altra della guerra

       "Poiché questa prima giornata è dedicata alla denuncia – io non avevo pensato il mio intervento in questi termini – se devo denunciare qualcosa è la “questione maschile”. 
     Voi sapete che dalla fine dell’Ottocento per tutta una metà del Novecento e oltre si è parlato della “questione femminile”. La questione femminile consisteva nell’interrogarsi su come mai le donne fossero meno istruite, meno occupate, meno retribuite e meno presenti nella vita pubblica. In realtà c’era poco da domandarselo, la risposta era una: perché gli uomini le escludevano, con la forza e con le leggi. Questa semplicissima risposta, però, porta alla vera domanda: perché mai gli uomini lo facessero, e alla vera “questione”, che è la “questione maschile”. 
    La questione maschile non è risolta. È dietro alla violenza maschile contro le donne, all’organizzazione capitalista dell’economia, alla concezione dell’ambiente come terreno di conquista da saccheggiare, alla scienza a compartimenti stagni iperspecialistici che non confrontano con altre discipline l’impatto del loro operato. La questione maschile è anche la guerra. 
   Per come si è sviluppata la nostra storia, la guerra è stata un’invenzione maschile; questo non vuol dire che agli uomini piaccia. La maggior parte di loro non vorrebbe saperne di andare in guerra. Ma non è stata né inventata né codificata dalle donne.
    Nel 1940 Virginia Woolf scriveva (nota 1) che bisogna trovare in alternativa alla guerra altre «occupazioni onorevoli per gli uomini onesti». Questa cosa è ancora vera. Come ha osservato la mia amica Clara Jourdan, aprendo un incontro contro la guerra alla Libreria delle donne (nota n.2) nelle piazze principali di tutti i paesi italiani c’è un monumento ai soldati (non ai e alle civili) caduti in guerra, si considera ancora un onore per gli uomini onesti morire da soldati sacrificandosi per il bene del paese. 
   Nulla ricorda invece le vittime degli incidenti sul lavoro, che pure si sono sacrificate per produrre tutto ciò che ci serve per vivere o per vivere meglio, e quindi ancor più per il bene del paese. Da qui si vede quanto ci sia bisogno di ribaltare il concetto di “onore”. 
Un altro esempio di come la concezione dell’onore dettata dalla questione maschile sia trasversale: quand’ero giovane i miei amici rivoluzionari esaltavano la figura di Ernesto Che Guevara, non tanto per la particolarità del suo pensiero politico, bensì perché era «morto con le armi in pugno». 
Io provavo perplessità per questo. Sia perché avrei preferito che non si facesse ammazzare, sia perché consideravo la sua morte come il tragico esito di un errore politico: non aver colto che in Bolivia il suo progetto non aveva radici, aver cercato di suscitare artificialmente un movimento rivoluzionario. Ebbene, alle mie prime elezioni politiche, nel 1983, ero scrutatrice. Tra gli altri componenti del mio seggio c’era un militante del MSI che non faceva mistero delle sue opinioni e del suo anticomunismo assoluto. Disprezzava tutti i comunisti, con un’eccezione: Che Guevara. «Lui lo ammiro perché è morto con le armi in pugno». Lo diceva con le stesse identiche parole dei miei compagni rivoluzionari, lo stesso motivo per cui lo ammiravano a sinistra: solo perché era morto “onorevolmente”, non per come volesse trasformare il mondo. 
Ed è questa trasversale cultura dell’“onore” che denuncia Virginia Woolf: l’opzione distruttiva/autodistruttiva della morte in combattimento è considerata più forte e più valida eticamente delle opzioni di pace. E questa concezione io la attribuisco a una cultura patriarcale che in parte è sopravvissuta a sé stessa, in parte no.
   Il patriarcato come sistema di pensiero che faceva ordine, grazie al femminismo ha perso di credito e ha smesso di fare ordine nella testa della gente. Finché reggeva, la guerra di conquista era apertamente considerata un’impresa legittima e gloriosa. Oggi per fortuna non più. Oggi neanche chi manda i soldati in guerra osa più dire che è giusto conquistare un altro paese e sottometterne la popolazione. 
    Si tratta lo stesso di guerre di conquista, e di sterminio delle popolazioni civili, come ci ha raccontato Manuela Valenti nel suo intervento (nota 3), ma per farle digerire alle opinioni pubbliche bisogna chiamarle “umanitarie”, “di difesa”, addirittura dire che si tratta di “resistenza” (io ho sempre creduto che la resistenza fosse un movimento spontaneo, e il vocabolario mi dà ragione, ma adesso si usa per definire uno Stato con un esercito regolare che sospende il regime democratico e arruola a forza gli obiettori), “esportazione della democrazia”, “denazificazione”. 
     Tutte mistificazioni da smantellare, pericolose perché mirano a rendere accettabile l’inaccettabile. Però, altra osservazione di cui sono debitrice a Clara Jourdan (nota 4), dimostrano che la guerra ha perso ogni legittimità agli occhi delle popolazioni, al punto che oggi, pur con tutta la retorica sulla “resistenza” ucraina e la quasi totalità delle forze politiche del nostro paese schierata con la NATO e favorevole a mandare armi all’Ucraina, i sondaggi di opinione mostrano che la maggior parte delle italiane e degli italiani è contraria.
È un passo avanti contro la cultura della guerra, piccolo poiché non riesce a fermare il massacro, ma un punto importante da cui ripartire. E bisogna far sì che questa consapevolezza diffusa ci spinga a considerare che le occupazioni da considerare “onorevoli per gli uomini onesti” non possono più comprendere la guerra.
E le donne? Abbiamo parlato della loro lunga esclusione dagli spazi pubblici e decisionali. Si può usarla come un’opportunità. 
   Lo dirò con le parole di Carla Lonzi, autrice nel 1970 del Manifesto di Rivolta femminile, in cui scrive: «La differenza femminile sono duemila anni di assenza dalla storia: approfittiamo dell’assenza». L’assenza ci consente di posizionarci al di fuori e di assumere un punto di vista nostro, uno sguardo libero dai vincoli sociali che legano gli uomini tra loro. Noi non siamo tenute a aderire a un ruolo sociale che prevede di partire per la guerra a comando e di essere stigmatizzati se ci si sottrae alle prove di forza, e così abbiamo una possibilità in più di pensare fuori dagli schemi. 
Ma è una possibilità, non una certezza né una predestinazione. Ci si riesce se si parte da sé anziché da quello che ci viene detto, e se si sta in relazione con altre donne. Non è scontato, ci vuole la scelta consapevole di assumere la propria parzialità come una risorsa. 
    Non c’è un pacifismo femminile innato.
E lo vediamo con delusione adesso che le donne sono dappertutto, meno degli uomini ma comunque in tutte le posizioni: alla guida della Banca Centrale Europea, della Commissione europea, di diversi governi dell’Unione. Donne come Sanna Marin, ministra capo della Finlandia fino a giugno 2023, Kaja Kallas, prima ministra dell’Estonia, e Ursula von der Leyen, attuale presidente della Commissione, che si erano insediate facendo riferimento all’orgoglio di essere donne e talvolta esplicitamente al femminismo. 
  Ci aspettavamo da loro che avrebbero frenato o invertito la tendenza a (non) risolvere le controversie con la guerra. Invece abbiamo visto addirittura due paesi come la Svezia (neutrale da due secoli) e la Finlandia (neutrale da circa ottant’anni), guidati da donne al momento dello scoppio del conflitto russo-ucraino, presentare istanza di ingresso nella NATO e schierarsi buttando via una lunghissima e preziosa tradizione di neutralità. Lo avrebbero fatto degli uomini al loro posto? Lo hanno fatto come l’avrebbero fatto quegli uomini? O per motivi differenti? È accaduto semplicemente perché è toccato a loro trovarsi lì nel momento in cui si compiva un processo già in atto (per esempio trattative già avviate con la Nato), e quindi non si sono differenziate dai loro colleghi maschi? 
Oppure sono state mosse da qualcosa che non avrebbe toccato gli uomini, forse hanno ceduto al panico che la guerra si espandesse sui loro territori, contro le loro popolazioni, e hanno pensato che la NATO rappresentasse una protezione? Di certo so solo che non hanno saputo o voluto radicarsi nella loro differenza, non hanno saputo approfittare dell’assenza dalla storia e sono entrate a piè pari nelle regole del gioco maschili.
Ma come avrebbero potuto fare a radicarsi nella loro differenza? Facciamo un esempio di donne che ci sono riuscite. Non riguarda propriamente una guerra ma l’opposizione a una delle più sanguinarie dittature del XX secolo, quella argentina. 
    Parlo delle Madres de plaza de Mayo. Hanno totalmente ignorato le dinamiche e gli schemi della politica maschile. Non hanno giudicato le posizioni politiche di regime o contro il regime, non hanno fatto considerazioni religiose o ideologiche o di compatibilità. Sono partite da sé, dalla propria esperienza di madri a cui erano spariti i figli, le figlie e hanno semplicemente detto “li rivogliamo indietro”. «Vivos los parimos, vivos los queremos», li abbiamo partoriti vivi e vivi li rivogliamo, è stato il loro noto slogan. Una verità semplicissima, incontrovertibilmente giusta, che ha tolto legittimità al regime agli occhi della popolazione e del mondo, aprendo una crepa insanabile nell’immagine della dittatura.
   La luce che hanno gettato su di essa e sulla storia recente dell’Argentina è stata tale che ha condizionato il dopo-dittatura, aprendo uno spazio per la verità e la memoria che non si è aperto per esempio nel vicino Cile.
Ho assistito in occasione dell’11 settembre, il cinquantennale del colpo di stato del 1973 in Cile, a un dibattito in collegamento da remoto con un ex-dirigente del MIR, Movimiento de Izquierda Revolucionaria, ex-esule in Italia. Uno dei presenti gli ha chiesto di questa differenza con l’Argentina, osservando che in Cile sembra esserci una tendenza alla rimozione della storia del colpo di stato e della dittatura e una difficoltà maggiore a lasciarsi alle spalle le sue conseguenze. Non c’è la stessa capacità di coltivare la memoria storica che c’è in Argentina, dove tra l’altro alcuni dei responsabili dei crimini della dittatura sono stati processati e condannati. Mentre parlava io pensato: «Beh, è perché in Argentina ci sono state le Madres de Plaza de Mayo». Ma intanto lui continuava e chiedeva: «Perché in Cile non ci sono state le Madri di Plaza de Mayo?», con quella che ho visto come una strana torsione, un’inversione della causa con l’effetto. Lui si figurava che in Cile fosse mancato un ingrediente della politica tradizionale dell’opposizione, presente invece in Argentina, che aveva impedito sia che nascessero le Madres, sia che si facesse giustizia e si trasmettesse la memoria. Mentre invece, al contrario, l’ingrediente imprevisto che ha permesso di fare luce e giustizia sono state proprio le Madres. Sono loro che hanno reso dicibile l’indicibile, che mettendo in gioco la loro differenza hanno sparigliato le regole del gioco.
    Queste donne sono diventate un tale faro da essere proverbiali. In occasione della morte della presidente dell’associazione, Hebe Pastor de Bonafini, ho letto un servizio su un giornale che raccontava come in Argentina sia nato un modo di dire: «Quando non sai cosa fare, guarda dove vanno le Madri»(nota 5). Hanno acquisito una potenza simbolica capace di orientare perché hanno fatto politica radicandosi nella loro differenza. E, attenzione, hanno fatto tutto questo senza immolarsi, senza “morire con le armi in pugno”. In qualche modo, sono state intoccabili e intoccate. Loro non sono state ammazzate, incarcerate né fatte sparire come i loro figli e le loro figlie. È quasi un mistero che il regime non le abbia toccate, come avrebbe potuto fare e aveva fatto con migliaia di persone. 
E in questo mistero c’è un grande potenziale della politica delle donne da usare contro la cultura di guerra. Non è il primo episodio nella storia. 
    Una cosa simile è accaduta nella Germania nazista nel 1943: un gruppo di tedesche non ebree mogli di ebrei rastrellati presidiò per una settimana l’edificio in cui i mariti erano stati rinchiusi, in Rosenstraße 2/46, e alla fine i mariti furono rilasciati. Benché minacciata di sgombero, la manifestazione non fu mai repressa, e questo in pieno nazismo e in piena guerra mondiale, quando si subivano terribili conseguenze per molto meno. Quando le donne agiscono partendo da sé e dalla propria differenza, fuori dagli schemi, possono prodursi dei risultati inattesi. Sono esempi da seguire per contrastare la cultura della guerra. 
Sradicare la cultura della guerra può sia prevenire nuove guerre, sia condizionare il modo in cui si esce da una guerra in corso, così come in Argentina ha influenzato l’uscita dalla dittatura. 
   Per concludere, quindi, cosa si può fare? Se per noi donne si tratta di continuare a partire da sé in relazione con le altre per continuare a inventare pratiche politiche, per gli uomini è essenziale superare la “questione maschile”, cioè mettere da parte la convinzione di riassumere in sé l’umanità tutta, riconoscere e ammettere la propria parzialità e imparare alcune lezioni dalle donne. 
Fra queste, c’è una delle pratiche che il femminismo ha inventato e sperimenta: è la pratica del conflitto. Significa che di fronte a un dissidio non si rinuncia a confliggere, non si rinuncia alle proprie posizioni, ma lo si fa con il presupposto che lo scopo non può essere in nessun caso cancellare, annientare l’altra e la sua posizione. È il contrario della logica del nemico. Se si riesce a mantenersi in questa pratica – non è semplice – a un certo punto si deve trovare una soluzione che va oltre. Si è costrette a delle schivate, a degli spostamenti, alla ricerca di strade terze che a volte danno luogo a delle invenzioni politiche altrimenti impossibili. 
     È l’esatto contrario della pretesa di entrambi i contendenti oggi, nella guerra tra Russia e Ucraina: che il presupposto per aprire delle negoziazioni sia che l’avversario non possa neppure sedere al tavolo. La pratica del conflitto invece va agita già in tempo di pace, come alternativa a una democrazia in crisi, quella concepita come maggioranza che impone la propria posizione come unica, cancellando del tutto quelle delle minoranze".

Silvia Baratella, intervento alla Tre giorni per la pace a Milano
Contro l'invio delle armi, per una trattativa di pace, 22 settembre 2023
presso C.I.Q., Centro Internazionale di Quartiere di via Fabio Massimo  

1. Virginia Woolf, Pensieri di pace durante un'incursione aerea, 1940. Edizioni italiane: in AA.VV., "Guerre che ho visto", Libreria delle donne, Quaderni di Via Dogana - Supplemento a Via Dogana n. 44/45, settembre 1999; in V. Woolf, "Pensieri di pace", Coppola Editore, collana I Fiammiferi, 2021.
2. Clara Jourdan, La guerra fa parte della questione maschile, 15 febbraio 2023, 
www.libreriadelledonne.it/report_incontri/la-guerra-fa-parte-della-questione-maschile/
3. Responsabile della divisione di pediatria di Emergency, presente all'incontro con un intervento sulle "Vittime collaterali della guerra".
4. C. Jourdan, ibidem.
5. Elena Basso, la Repubblica, 20 novembre 2022: 
www.libreriadelledonne.it/puntodivista/dallastampa/e-morta-hebe-de-bonafini-presidente-delle-madres-de-plaza-de-mayo/
6. L'episodio storico, che ha avuto luogo dal 27 febbraio al 5 marzo 1943, e' descritto nel film Rosenstrasse di Margarethe von Trotta (Germania, 2003) tratto dal libro di Nina Schroeder, Le donne che sconfissero Hitler (Pratiche 2001).

martedì 17 ottobre 2023

Vittorio Arrigoni: restiamo umani

       “Un bel giorno, diversi anni fa, riuscì ad entrare un italiano nella Striscia di Gaza. Appena lo si guardava non si poteva non provare fiducia, speranza. Non era un attivista qualunque, non era l’eroe (…) era l’attivista forte, sensibile, tenace, coraggioso che non temeva Israele ma anzi, metteva paura ad Israele. 
      In pochi anni questo attivista, insieme al Free Gaza Movement, alla Freedom Flotilla, hanno reso nota la situazione del popolo palestinese molto più di quanto si fosse fatto in anni di chiacchiere e giornali (…). Era la costanza, il carisma, la concretezza, il modo di porsi, la dote innata della comunicazione, all’arrivare a spaccare qualsiasi muro.
    Se ci fosse un grafico in grado di dimostrare la crescita del livello di speranza palestinese in quegli anni, negli anni in cui quell’uomo decise di rimanere insieme a pochi altri internazionali in condizioni disumane in questa striscia di terra e farne la sua casa, il grafico mostrerebbe un picco che uscirebbe fuori dai contorni.
     Nonostante la distruzione di Piombo fuso, nonostante le ferite a morte nei cuori, nonostante l disperazione, ci si svegliava con un desiderio assurdo di confrontarsi con le iniziative, i pensieri, i sogni di questo uomo che trascinava un popolo intero.
Non esistevano più nemici esterni come Israele, o nemici interni come Hamas e Fatah che potessero impedire alle giovani e ai giovani palestinesi di sognare.
      L’Utopia era approdata a Gaza, l’Utopia aveva contagiato ogni cuore e non come quei sogni che dimorano per qualche ora o qualche giorno nell’anima, no! L’Utopia era così forte da convincerci che il mondo che avevamo dentro, i sogni che avevamo dentro fossero il mondo reale e che ciò che era fuori, la guerra, i soldati, il razzismo, i diritti violati, fossero un’alterazione della realtà che con la nostra determinazione potevano essere abbattuti”

Faiza Jasmine, Palestina, 2012 da “Il viaggio di Vittorio” di Egidia Beretti Arrigoni

      


        Domani, mercoledì 18 ottobre. si parlerà anche di Vittorio, durante la presentazione del libro Una sedia nell’aldilà, dalle ore 18.30 alle 20, a Palermo, presso la Casa dell’Equità e della bellezza, in via Garzilli 43/a. 


domenica 15 ottobre 2023

Padre Pino Puglisi: quale impegno, trent'anni dopo?

        Palermo – Su padre Pino Puglisi, a trent’anni dal suo assassinio per mano mafiosa e a dieci anni dalla sua beatificazione da parte della Chiesa cattolica, si può scrivere ancora qualcosa di nuovo e di significativo? Questa domanda se l’è posta la scrivente, unita al timore che si approfittasse della ricorrenza per ripetere il già detto, quando si è trovata tra i testi freschi di stampa anche Padre Pino Puglisi (Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, settembre 2023), scritto a quattro mani da Augusto Cavadi, filosofo laico, e da don Cosimo Scordato, teologo cattolico.  
La lettura ha dissolto le remore e l’irriverente sospetto: il libro, infatti, fornisce punti di vista preziosi e inediti, utili a promuovere la maturazione umana e spirituale di chi legge e a favorirne un più convinto e rinnovato impegno sociale. A ragione, nella breve presentazione, l’editore sottolinea che il testo a quattro mani risulta “una sorta di dittico che spinge un po’ avanti la riflessione”. 
     Quali dunque, a grandi linee, le novità e i punti di forza del testo? 
C’è da evidenziare innanzitutto che il libro non dà di don Pino un ritratto edulcorato, quasi fosse un santino da mettere nel portafoglio; il testo analizza invece in modo rigoroso la sua tragica vicenda per tentare di rispondere alla domanda cruciale del perché un prete ‘normale, nell’esercizio del suo ministero in una terra tradizionalmente cristiana, sia stato ucciso e perché tale assassinio connoti l’ucciso come beato.
    A questo proposito, nella prima parte del libro, Cavadi offre analisi sociologiche convincenti e propone all’attenzione di chi legge la scomoda categoria dei ‘mandanti inconsapevoli’: secondo le fonti giudiziarie e le confessioni di alcuni pentiti, gli affiliati a Cosa nostra sarebbero in Sicilia non più di cinquemila, fiancheggiati però da circa un milione di siciliani e seriamente combattuti da un numero uguale di isolani. E gli altri? Sono loro i cosiddetti ‘mandanti inconsapevoli’: “restano nel mezzo tre milioni di siciliani: sono la maggioranza, perseguono un’impossibile neutralità e, di fatto, condizionano irrimediabilmente l’esito della partita”. Tre milioni di siciliani, la maggior parte dei quali, se non praticanti convinti, sono comunque cattolici. Dunque, il martirio di don Puglisi attesta “l’acquiescenza di troppa parte del mondo cattolico al sistema di dominio mafioso sino ai nostri giorni”. Infatti “Se tutti i preti di quartiere a più alta densità mafiosa fanno finta di non vedere e di non sentire, appena un prete denunzia diventa bersaglio di esecuzione esemplare (…) È il compromesso di noi ‘maggioranze silenziose’ a rendere pericolose le minoranze critiche.
    A questo proposito, l’autore riporta un’intervista a Luigi Patronaggio, uno dei due magistrati che hanno condotto l’inchiesta sull’assassinio di don Puglisi: “In questa terra disgraziata fare il proprio dovere, affermare la legalità più elementare, praticare le regole della democrazia, spesso significa diventare malgrado tutto un eroe, un eroe piccolo e per caso, come don Pino”.
La diagnosi dell’autore può sembrare dura, ma è purtroppo realistica; l’ultima relazione della DIA denuncia infatti il ‘consensualismo sotterraneo’ di cui gode tuttora Cosa nostra presso ampi settori della popolazione siciliana.
    Quali le possibilità per uscire dall’esiziale pantano dell’indifferenza? In primo luogo, la formazione di una ‘morale basica’ o spiritualità laica (necessità di cui era convinto lo stesso don Puglisi): una sorta di alfabetizzazione etica di base, che comprenda il desiderio di giustizia, il rispetto della dignità di ogni uomo, il perseguimento del bene comune. Bisognerebbe capovolgere quello che Cavadi definisce ‘angelismo’: “l’impostazione per cui la vita spirituale di un soggetto si costruisce procedendo dall’alto verso il basso: dalla fede in senso specifico alla religiosità in senso generico sino, eventualmente, a una grammatica di spiritualità umana, antropologica”. La ‘morale basica’, patrimonio ineludibile di ogni buon cittadino, dovrebbe poi essere alimentata da una formazione che favorisca pratiche di ‘legalità integrale’: percorso le cui tappe principali sono la conoscenza critica dei testi fondamentali della convivenza umana, l’esercizio dell’obbedienza alle leggi eque e l’eventuale disobbedienza civile a quelle inique, con conseguente impegno politico per renderle eque, la conoscenza della storia della mafia e dell’antimafia. 
   Chi è inserito nel mondo cattolico, dovrebbe poi incarnare la catechesi (e i preti le loro omelie) nel territorio in cui opera, mentre la Chiesa dovrebbe attualizzare il culto dei santi e avere il coraggio di rivedere criticamente certi gesti di devozione popolare, come, in qualche processione, gli ‘inchini’ delle statue della Madonna o di Gesù davanti alla casa di un boss mafioso.
     Nella seconda parte, don Cosimo Scordato riflette sull’uccisione di don Pino da un’ottica teologica: afferma subito che “padre Puglisi è stato ucciso dalla mafia per il modo in cui faceva il prete; la sua fedeltà al Vangelo gli ha fatto comprendere la responsabilità di promuovere una comunità libera da ogni oppressione e aperta alla resurrezione e alla vita; la risposta dei mafiosi ha manifestato, al di là di ogni mistificazione, il suo vero volto di violenza, di oppressione e di morte”.
     Sulla base degli studi rigorosi dello storico don Francesco Michele Stabile, don Cosimo analizza la posizione della Chiesa cattolica sulla mafia, dall’unità d’Italia a oggi, evidenziando, grosso modo, tre fasi: la compromissione diretta, la coabitazione e la presa di distanza e la denunzia profetica, ma quest’ultima si è verificata solo negli ultimi decenni, quando una Chiesa più consapevole ha denunziato la mafia come “struttura di peccato” e l’impossibilità di essere cristiani e mafiosi insieme. 
    Tutto questo don Pino lo aveva chiaro: nella sua parrocchia di Brancaccio, si muove in direzione del servizio, della dignità e della libertà dei suoi parrocchiani, coniugando, da buon pastore, evangelizzazione e promozione umana: “Don Pino ha testimoniato il volto nuovo di Cristo, diverso dal sistema di potere e di morte detenuto dalla mafia; nel suo esempio fulgido è venuto all’evidenza che tra mafia e Vangelo, tra mafia e Chiesa cattolica c’è incompatibilità assoluta”
   Ma i mafiosi continuano a operare con il metodo del dominio e della violenza e “considerano la sua pastorale come un’invasione di campo nel luogo dove sono consolidati la loro presenza e i loro interessi”. “Se la reazione della mafia contro don Pino sfocia nella sua uccisione è perché don Pino si trova a operare coerentemente con la dimensione ‘territoriale’ della sua missione; ogni suo passo ‘pesta i calli’ alla mafia”. “L’annunzio del parroco rende inutile la presenza di un padrino”
      Quando alla prima presentazione pubblica a Palermo del testo, la giornalista Alessandra Turrisi ha chiesto al teologo quale è il significato oggi di aver dichiarato padre Pino martire e beato, don Cosimo ha fornito una risposta spiazzante: “La santità la si vive in vita… non so quale possa essere il senso delle proclamazioni postume…don Pino era già beato nella sua parrocchia di Brancaccio, a Palermo, perché ha preso sul serio le Beatitudini e le ha incarnate nella missione di parroco: Beati i miti, beati i misericordiosi, beati gli operatori di pace, beati coloro che hanno fame e sete di giustizia…”.
    E don Cosimo sottolinea infine che la proposta pastorale di don Pino “imponeva il ripensamento dell’immagine di Dio: l’onnipotenza di Dio va compresa alla luce dell’impotenza della croce e quindi di un amore che è onnipotente, nel senso che è capace di fare tutto per salvare l’uomo… la disponibilità a donarsi diventa dunque il criterio di maturità dell’esistenza cristiana.  (…) La realtà della mafia è all’opposto di tutto questo”.
     Ma la comunità cristiana è pronta per questo serio cambio di rotta? Un giornalista siciliano, Francesco Palazzo, amico di don Puglisi, in un articolo in questi giorni si chiedeva: “Se Don Puglisi tornasse oggi nella chiesa di San Gaetano a Brancaccio belle parole e retorica a parte, concretamente e quotidianamente sarebbe ancora solo nella sua lotta a Cosa nostra dentro la Chiesa palermitana?” 
     Le riflessioni di Cavadi e Scordato servono a scongiurare questa terribile, ipotetica solitudine…

Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano 15 ottobre 2023











venerdì 13 ottobre 2023

Cara Anna

 
 Cara Anna,
             
                       per migliorare un po' il mondo bisognerebbe intanto cambiare la toponomastica delle città: eliminare i nomi dei generali e dei capi di stato guerrafondai e intitolare piazze e vie a persone che si sono spese per gli altri; ad esempio, ai giornalisti – come te, come Daphne Caruana Galizia, Natal'ja Ėstemirova, come Pippo Fava e Giancarlo Siani… - uccisi perché scrivevano la verità. 
      “L’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede”. 
    Tu e Natal'ja avete avuto la determinazione e il coraggio di denunciare crimini e violazioni dei diritti umani in Cecenia; a Malta, Daphne ha scoperchiato i segreti di inconfessabili evasioni fiscali; Pippo e Giancarlo, in Sicilia e in Campania, hanno fatto i nomi di chi era colluso o faceva affari con la mafia e la camorra.
    Cara Anjuska, chissà cosa c’era nelle due buste di spesa che ingombravano le tue mani, mentre stavi rientrando nella tua casa di Mosca, la sera assassina del sette ottobre… 

(dalla lettera ad Anna Politkovskaja, in "Una sedia nell'aldilà", Diogene Multimedia, Bologna, 2023)

Per chi volesse saperne di più: 

martedì 10 ottobre 2023

Caro papà ...

      Caro papà,
qualcuno potrebbe trovare ridicolo che una nonna pensi ancora con affettuoso rimpianto a suo padre.      Invece, sebbene abbia già trascorso circa metà della mia vita senza di te, continui nel profondo a mancarmi.
Sarà perché è difficile trovare uomini della tua statura: non fisica, eri bassino come me, ma della tua statura umana, politica, morale, affettiva. Con te potevo parlare di tutto e mi sentivo capita nei miei pensieri e nei miei sentimenti.
    Come saresti stato contento di sapere che, lasciata la scuola, ora scrivo, sono pubblicista e collaboro con un giornale (un editore generoso ha anche pubblicato un mio libro) e cerco di fare qualcosa per la società: assieme ad Augusto – che hai conosciuto prima di me! – e ad Adriana mi occupo di formazione per la diffusione di una cultura antimafia e nonviolenta. Se ci fossi ancora, sono certa che avresti partecipato con piacere alle riunioni della scuola ‘Falcone’  e del gruppo nonviolento, tu che contro la mafia e per la nonviolenza lo eri per costituzione e per scelta etica e mi consigliavi di leggere gli scritti di Giorgio La Pira e di M.L.King.
     Caro papà, oggi viviamo in un mondo pazzo e violento, oserei dire peggiore di quello che hai lasciato il 10 ottobre di circa trent’anni fa, quando vivevamo con la speranza di un’Europa e di un mondo più giusto e in pace, caduto il muro di Berlino e sgretolatasi l’URSS. Oggi in Europa c’è una guerra – nel mondo continuano a essercene circa trenta – e la situazione in Medio Oriente è drammatica, con una nuova orrenda carneficina tra Israeliani e Palestinesi. 
      In questo contesto, noi umani non capiamo che l’unica battaglia che uniti dovremmo combattere è quella per salvare la vita nel nostro pianetino, sconvolto dal cambiamento climatico dovuto all’aumento esponenziale di anidride carbonica nell’aria. 
     Papà, sono triste e scoraggiata, temo che, nonostante l’impegno di alcune persone di buona volontà, non ci sia salvezza per il mondo e per le nostre vite: non ho il dono della tua fede granitica e salda.
     Tu però desideravi che io somigliassi a una donna forte della Bibbia: Sara, Debora, Giuditta… Non è facile, ma prometto che ci provo. Ma tu mandami un po’ di forza da lassù. E tanti abbracci e sorrisi.

domenica 8 ottobre 2023

Criminalità in Italia: la DIA tiene alta la guardia

      Palermo – L’arresto di Matteo Messina Denaro, già nel 1993 uno dei dieci latitanti più ricercati nel mondo, ma catturato solo il 16 gennaio 2023 e poi morto in carcere il 25 settembre scorso, non deve indurre a eccessivo ottimismo: anche se non sparano, in molte regioni italiane le mafie detengono ancora il controllo del territorio e condizionano pesantemente il tessuto economico.
      Lo afferma la recente relazione della Direzione Investigativa Antimafia (DIA), riguardante il secondo semestre 2022: 513 pagine di dati sull’andamento della criminalità organizzata nel nostro Paese.
Eccone alcuni significativi passaggi: 
       “Gli elementi investigativi finora raccolti confermano che le organizzazioni criminali di tipo mafioso, nel loro incessante processo di adattamento alla mutevolezza dei contesti, hanno implementato le capacità relazionali sostituendo l’uso della violenza, sempre più residuale, con strategie di silenziosa infiltrazione e con azioni corruttive e intimidatorie. Oggi, le mafie preferiscono rivolgere le proprie attenzioni ad ambiti affaristico-imprenditoriali, approfittando della disponibilità di ingenti capitali accumulati con le tradizionali attività illecite. Si tratta di “modi operandi” dove si cerca sia di rafforzare i vincoli associativi mediante il perseguimento del profitto e la ricerca del consenso approfittando della forte sofferenza economica che caratterizza alcune aree, sia di stare al passo con le più avanzate strategie di investimento, riuscendo a cogliere anche le opportunità offerte dai fondi pubblici nazionali e comunitari (Recovery Fund e PNRR).”
      Particolarmente grave la situazione nelle regioni meridionali, in particolare in Calabria, Puglia, Campania e Sicilia. Ecco cosa succede in Campania: “Per quanto riguarda la criminalità organizzata campana o camorra, essa continua ad essere caratterizzata da una pluralità di sodalizi, ciascuno con un proprio ambito territoriale di influenza, prevalentemente caratterizzati da una spiccata propensione alla duttilità ed alla stretta interazione con la società, con la politica e con le istituzioni. Tali peculiarità hanno anche consentito alle organizzazioni camorristiche di mimetizzarsi agevolmente e di acquisire un crescente controllo degli apparati economico-finanziari attuando articolate strategie di mediazione politico-imprenditoriali”.
     Nella relazione si evidenzia che in Sicilia la cattura del super latitante Messina Denaro ha sì privato cosa nostra di una rilevante figura di riferimento, ma tale evento non avrebbe inciso “sull’operatività dell’organizzazione nel suo complesso, né si ritiene possa attenuare la pressione criminale nel territorio isolano; le organizzazioni siciliane, infatti, si confrontano con contesti ancora fortemente cedevoli alle intimidazioni mafiose, realizzando un “sotterraneo consensualismo”, mediante il quale la vittima spesso intravede una sorta di corrispettivo per il servizio prestato in suo favore da cosa nostra. In generale, oltre alle pressioni estorsive nei confronti di commercianti e imprenditori, talvolta concretizzate anche con modalità più o meno dissimulate d’imposizione di manodopera e forniture, le famiglie continuano a mantenere un atteggiamento improntato alla cosiddetta ‘sommersione’, rifuggendo, ove possibile, dal compiere eclatanti azioni anche violente per meglio infiltrarsi nel tessuto dell’economia legale, avvalendosi frequentemente di infedeli pubblici funzionari e rappresentanti delle istituzioni, proiettando gli investimenti anche in territori ultraregionali ed all’estero.”
In particolare poi “se nella Sicilia centro-orientale l’assetto mafioso si presenta più articolato, in virtù della coesistenza di consolidate famiglie di cosa nostra, di compagini stiddare e di altri sodalizi gerarchicamente subordinati alle più note e strutturate famiglie, la propensione di tutte le organizzazioni mafiose, anche nella Sicilia occidentale a formazione più omogenea delle sue compagini, rimane quella di condizionare il comparto imprenditoriale e produttivo con modalità diffuse, sistematiche e sempre più redditizie”. 
    Anche in Sicilia, dunque, la criminalità utilizza poco la violenza per evitare allarme sociale e privilegia consolidata strategia di “sommersione”. I principali interessi delle mafie siciliane continuano a essere il traffico di stupefacenti, le estorsioni, l’infiltrazione nei comparti della pubblica amministrazione, nell’economia legale, nel gioco e nelle scommesse online “settore quest’ultimo che garantisce una singolare modalità di controllo del territorio, strumentale anche per il riciclaggio dei capitali illecitamente accumulati.” 
   La relazione sottolinea ancora che il traffico della droga permette a cosa nostra di instaurare relazioni commerciali e di stringere alleanze cooperative con altre organizzazioni malavitose, quali ‘ndrangheta e camorra.
    Si apprende poi che la mafia siciliana esercita ancora una “capacità attrattiva” sui giovani, coinvolgendo non solo i rampolli delle famiglie mafiose ma reclutando anche tanti ragazzi per ampliare la ‘manovalanza’ criminale.
     Infine, anche le mafie stanno anche adattandosi alla società digitale: nella relazione si legge che i criminali usano i cripto-telefoni per cifrare le conversazioni e sanno muoversi nel ‘dark web’.
Allora, per quanto impegnate, da sole le Forze dell’Ordine non potranno farcela ad avere la meglio sulla criminalità organizzata. “La mafia sarà sconfitta da un esercito di maestre elementari”, ha scritto una volta Gesualdo Bufalino. Certo, è fondamentale il ruolo educativo: ma se Forze dell’Ordine e Docenti non avranno al loro fianco imprenditori, funzionari pubblici, politici e la maggior parte dei cittadini, sconfiggere le mafie sarà davvero difficile.

Maria D'Asaro, 8.10.23, il Punto Quotidiano

sabato 7 ottobre 2023

La via Maestra, la via dei Maestri...

Con il Movimento Nonviolento a Roma il 7 ottobre
insieme per la Costituzione che ripudia la guerra

    Il cammino della nonviolenza è lungo, a volte faticoso e solitario, ma quando lo si fa insieme ad una moltitudine, diventa festoso e leggero.   
    Abbiamo aderito e parteciperemo alla manifestazione nazionale  del 7 ottobre a Roma La via Maestra: insieme per la Costituzione; con le bandiere della nonviolenza che spezza il fucile saremo dietro lo striscione di Europe for Peace per sostenere “una politica di pace  intesa come ripudio della guerra e con la costruzione di un sistema di difesa integrato con la dimensione  civile e nonviolenta”. 
                                                                              (continua qui: Movimento nonviolento Palermo)