"Qui occorre far fronte a un'obiezione: talvolta si scrive (o si parla) non per comunicare, ma per scaricare una propria tensione, o una gioia, o una pena, ed allora si grida anche nel deserto, si geme, ride, canta, urla.
Per chi urla, purché abbia motivi validi per farlo, ci vuole comprensione: il pianto e il lutto, siano essi contenuti o scenici, sono benefici in quanto alleviano il dolore. Urla Giacobbe sul mantello insanguinato di Giuseppe; in molte città il lutto gridato è rituale e prescritto. Ma l'urlo è un ricorso estremo, utile per l'individuo come le lacrime, inetto e rozzo se inteso come linguaggio, poiché tale, per definizione, non è: l'inarticolato non è articolato, il rumore non è suono.
Per questo motivo, mi sento sazio delle lodo tributate a testi che (cito a caso) "suonano al limite dell'ineffabile, del non-esistente, del mugolio animale". Sono stanco di "densi impasti magmatici", di "rifiuti semantici" e di innovazioni stantie. Le pagine bianche sono bianche, ed è meglio chiamarle bianche; se il re è nudo, è onesto dire che è nudo.
Personalmente sono stanco anche delle lodi elargite in vita e in morte a Ezra Pound, che forse è pure stato un grande poeta, ma che per essere sicuro di non essere compreso scriveva a volte perfino in cinese, e sono convinto che la sua oscurità poetica aveva la stessa radice del superomismo, che lo ha condotto prima al fascismo e poi all'autoemarginazione: l'una e l'altro germinavano dal suo disprezzo per il lettore.
Forse il tribunale americano che giudicò Pound mentalmente infermo aveva ragione: scrittore d'istinto, doveva essere un pessimo ragionatore, e lo confermano il suo comportamento politico ed il suo odio maniacale per i banchieri: ora, chi non sa ragionare deve essere curato, e nei limiti del possibile rispettato, anche se, come Ezra Pound, si induce a fare propaganda nazista contro il proprio paese in guerra contro la Germania di Hitler: ma non deve essere lodato né indicato ad esempio, perché è meglio essere sani che insani.
L'effabile è preferibile all'ineffabile, la parola umana al mugolio animale. Non è un caso che i due poeti tedeschi meno decifrabili Trakl e Celan, siano entrambi morti suicidi, a distanza di due generazioni. Il loro comune destino fa pensare all'oscurità della loro poetica come ad un pre-uccidersi, a un non- voler- essere, ad una fuga dal mondo, a cui la morte voluta è stata coronamento. Sono da rispettarsi, perché il loro " mugolio animale" era terribilmente motivato: per Trakl, dal naufragio dell'impero Asburgico, in cui egli credeva, nel vortice della Grande Guerra; per Celan, ebreo tedesco scampato per miracolo alla strage tedesca, dallo sradicamento, e dall'angoscia senza rimedio davanti alla morte trionfatrice. Per Celan soprattutto, perché è un nostro contemporaneo (1920-70), il discorso deve farsi più serio e responsabile.
Si percepisce che il suo canto è tragico e nobile, ma confusamente: penetrarlo è impresa disperata non solo per il lettore generico, ma anche per il critico. L'oscurità di Celan non è disprezzo del lettore né insufficienza espressiva né pigro abbandono ai flussi dell'inconscio: è veramente un riflesso dell'oscurità del destino suo e della sua generazione, e si va addensando sempre più intorno al lettore, stringendolo come in una morsa di ferro e di gelo, dalla cruda lucidità di Fuga di morte (1945) al truce caos senza spiragli delle ultime composizioni. Questa tenebra che cresce di pagina in pagina, fino all'ultimo disarticolato balbettio, costerna con il rantolo di un moribondo, ed infatti altro non è. Ci avvince come avvincono le voragini, ma insieme ci defrauda di qualcosa che doveva essere detto e non lo è stato, e perciò ci frustra e ci allontana.
Io penso che Celan poeta debba essere piuttosto meditato e compianto che imitato. Se il suo è un messaggio, esso va perduto nel "rumore di fondo": non è una comunicazione, non è un linguaggio, o al più è un linguaggio buio e monco, qual è appunto quello di colui che sta per morire, ed è solo, come tutti lo saremo in punto di morte. Ma poiché noi vivi non siamo soli, non dobbiamo scrivere come se fossimo soli. Abbiamo una responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno.
Del resto, parlare al prossimo in una lingua che egli non può capire può essere malvezzo di alcuni rivoluzionari, ma non è affatto uno strumento rivoluzionario: è invece un antico artificio repressivo, noto a tutte le chiese, vizio tipico della nostra classe politica, fondamento di tutti gli imperi coloniali. E' un modo sottile di imporre il proprio rango: quando padre Cristoforo dice "Omnia munda mundis" in latino e fra Fazio che il latino non lo sa, a quest'ultimo, "al sentir quelle parole gravide d'un senso misterioso, e proferite così risolutamente… parve che in quelle dovesse contenersi la soluzione di tutti i suoi dubbi. S'acquietò, e disse: 'Basta! Lei ne sa più di me'".
Neppure è vero che solo attraverso l'oscurità verbale si possa esprimere quell'altra oscurità di cui siamo figli, e che giace nel nostro profondo. Non è vero che il disordine sia necessario per dipingere il disordine; non è vero che il caos della pagina scritta sia il miglior simbolo del caos ultimo a cui siamo votati: crederlo è vizio tipico del nostro secolo insicuro.
Finché viviamo, e qualunque sia la sorte che ci è toccata o che ci siamo scelta, è indubbio che saremo tanto più utili (e graditi) agli altri ed a noi stessi, e tanto più a lungo verremo ricordati, quanto migliore sarà la qualità della nostra comunicazione. Chi non sa comunicare, o comunica male, in un codice che è solo suo o di pochi, è infelice, e spande infelicità intorno a sé. Se comunica male deliberatamente, è un malvagio, o almeno una persona scortese, perché obbliga i suoi fruitori alla fatica, all'angoscia o alla noia.
Beninteso, perché il messaggio sia valido, essere chiari e inutili, chiari e bugiardi, chiari e volgari, ma questi sono altri discorsi. Se non si è chiari non c'è messaggio affatto. Il mugolio animali è accettabile da parte degli animali, dei moribondi, dei folli e dei disperati: l'uomo sano ed intero che lo adotta è un ipocrita o uno sprovveduto, e si condanna a non avere lettori. Il discorso fra uomini, in lingua d'uomini, è preferibile al mugolio animale, e non si vede perché debba essere meno poetico di questo.
Ma, ripeto, queste sono mie preferenze, non norme.
Chi scrive è libero di scegliersi il linguaggio che più gli si addice, e tutto può darsi: che uno scritto oscuro per il suo stesso autore sia luminoso ed aperto per chi lo legge; che uno scritto non compreso dai suoi contemporanei diventi chiaro ed illustre decenni e secoli dopo."
Primo Levi: Dello scrivere oscuro, in L’altrui mestiere, Einaudi, Torino, 2018 pagg.54-57
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