La foto vincitrice del World Press Photo Contest del 2024, scattata nella striscia di Gaza dal fotografo dell’agenzia Reuters Mohammed Salem,mostra una donna palestinese che abbraccia una bambina morta – sua nipote, uccisa insieme alla mamma e alla sorella dai bombardamenti israeliani – avvolta in un sudario. Si tratta di una foto che si inserisce nella storia delle immagini di guerra, sulle quali è necessario farsi ancora le domande fondamentali che si è posta Susan Sontag davanti al dolore degli altri: “Si sarebbe potuto evitare? Abbiamo finora accettato uno stato delle cose che andrebbe invece messo in discussione? Sono queste le domande la porsi, nella piena consapevolezza che lo sdegno morale, al pari della compassione non è sufficiente a dettare una linea di condotta” (Davanti al dolore degli altri, 2021).
Lo stato delle cose, in questo varco stretto della storia, vede il progressivo precipitare dell’umanità in una guerra mondiale, rispetto alla quale il discorso pubblico ha bandito, a tutte le latitudini, le pratiche e i linguaggi di pace, nel delirio delle ritorsioni reciproche, dell’escalation degli armamenti perfino nucleari, dell’impossibile annientamento del “nemico”. Delirio bellicista dentro al quale è annullata ogni iniziativa politica europea e italiana.
Eppure proprio nella Costituzione italiana nata dalla Resistenza antifascista ci sono precise, quanto ignorate, indicazioni per andare oltre il solo “sdegno morale” per le morti in guerra, nella loro sostanziale accettazione, per adottare linee di condotta fondate sul solenne ripudio della guerra, proprio come “mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Erano passati poco più di tre mesi dal 25 aprile al 6 agosto del 1945, data nella quale la vittoria contro il nazifascismo si trasformò in una nuova sconfitta, quella dell’umanità nei confronti dell’arma atomica, “distruttrice di mondi”, capace di realizzare la “soluzione finale” dell’umanità.
L’Assemblea costituente fu eletta ad appena dieci mesi di distanza da Hiroshima e Nagasaki e, con grande lungimiranza, ancorò l’articolo 11 – il più antifascista dei Principi fondamentali – all’etica della responsabilità, indicando la ricerca di mezzi e strumenti alternativi all’ormai inutilizzabile ferrovecchio della guerra per gestire e risolvere i conflitti internazionali. Con la consapevolezza che la guerra e la sua preparazione hanno un impatto negativo anche sulla vita civile e democratica.
Ne avrebbe scritto a lungo anche Aldo Capitini – passato per le galere fasciste dopo essere stato cacciato dalla Normale di Pisa, in quanto obiettore alla tessera fascista, dall’oggi osannato direttore Giovanni Gentile – insoddisfatto anche di una democrazia che, nonostante la Costituzione, non riusciva a liberarsi dalla guerra: “Si sa che cosa significa, oggi specialmente, la guerra e la sua preparazione: la sottrazione di enormi mezzi allo sviluppo civile, la strage degli innocenti e di estranei, l’involuzione dell’educazione democratica e aperta, la riduzione della libertà e il soffocamento di ogni proposta di miglioramento della società e delle abitudini civili, la sostituzione totale dell’efficienza distruttiva al controllo dal basso”.
Per queste ragioni, una democrazia aperta, fondata sul “potere di tutti” – secondo il filosofo della nonviolenza – si manifesta “nella capacità di impedire dal basso le oppressioni e gli sfruttamenti; ma questa capacità delle moltitudini ha il suo collaudo nel rifiuto della guerra, intimando un altro corso alla storia del mondo”.
Tuttavia, perché il rifiuto della guerra diventi effettivo e non rimanga mera aspirazione utopica, è necessario che la resistenza alla guerra si dia un’organizzazione. Quell’organizzazione che è invece mancata nella fase di avvento del fascismo: i Gobetti, i Matteotti, i Gramsci vedevano chiaro e denunciavano il pericolo, scrive Capitini, ma non poterono organizzare un’ampia “non collaborazione dal basso” per fermarne l’ascesa, perché “non avevano intorno quella preparazione e quella maturità che li assecondasse” (Il potere di tutti, 1969).
E oggi? Oggi che i poteri costituiti, nazionali e internazionali, alimentano ancora la guerra fino ad aver portato nel 2023 a 2.443 miliardi di dollari la spesa militare mondiale con un aumento record di 200 miliardi rispetto all’anno precedente (Rapporto Sipri 2024, appena pubblicato) – anziché costruirne gli strumenti alternativi – saremmo capaci di contrastarla? Se, di questo passo, si arrivasse a una mobilitazione nazionale per parteciparvi direttamente con uomini e donne sul terreno, i cittadini italiani – pur in grande maggioranza contrari – sarebbero pronti a resistere?
Un mezzo costituzionale, consapevole e responsabile, in questo senso è fornito dalla campagna di “Obiezione alla guerra” promossa dal Movimento Nonviolento, nella quale ciascuno, aderendovi, dichiara la propria obiezione di coscienza alla guerra e alla sua preparazione, esplicitando l’assoluta indisponibilità rispetto a qualunque “chiamata alle armi”. Non si tratta di sottrarsi al dovere di difendere la comunità (articolo 52 della Costituzione) ma – come l’esperienza storica dimostra possibile ed efficace – di essere disponibile a farlo senza le armi, nel rispetto del ripudio della guerra, attraverso i metodi della nonviolenza organizzata.
Oggi dunque, più che mai, la Liberazione si chiama disarmo e la resistenza si chiama nonviolenza, per cui non è sufficiente farne le sole celebrazioni il 25 aprile ma è necessario organizzarsi ogni giorno dell’anno. A partire dall’esercizio della personale obiezione alla guerra.
Pasquale Pugliese, Movimento nonviolento, da il Fatto Quotidiano
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