giovedì 29 aprile 2010

Haiti è lontana ...

Era lì, sul banco.
Accanto ad altri due, dall’aspetto più umile e dimesso. Aveva un mantellino color porpora e un’elegante abbottonatura dorata. E un’aria abbandonata. Era rigido, quasi immobile. Completamente chiuso in se stesso. Nessuno si curava di lui. Pareva dimenticato. Solo. Chissà cosa provava… Di sicuro non gli importava che qualcuno si prendesse cura di lui.
Era quasi buio, fuori. C’era freddo e pioveva. Le goccioline di pioggia, trasportate da un accenno impertinente di vento, andavano a morire oblique sulle grandi finestre, dissolvendosi lentamente nell’incavo dei vetri appannati. Era uno di quegli interminabili pomeriggi invernali in cui tutto pare sopito, rallentato, sospeso. Quasi che la nebbiolina umida e il grigio del cielo e dell’aria stendessero una coltre ovattata su gesti, movimenti e parole. Anche il ronzio di sottofondo della città pareva smorzato.
Il basso continuo del chiacchierio dei colleghi - le nuove tecnologie la didattica on-line perché venti ore il collegio non c’ero ci sentiamo sicuro i messaggi la chat domani quanti crediti avremo ti è arrivata la password che ora è ce ne andiamo – la sfiorava appena, come un’onda lieve e accennata che, sulla spiaggia, lambisce appena i piedini dei bimbi che giocano sulla battigia. Ma lei in quella spiaggia non c’era. Era nella sua fortezza invisibile. A danzare una sua affascinante danza segreta, sulle note masticate di una vecchia canzone. Con la litania delle solite domande esistenziali - che ci faccio io qui che senso ha la mia vita da dove veniamo dove andiamo e soprattutto che cucino stasera – lesta a imporsi, furtiva e molesta, interrompendo le sue musicali, innocenti evasioni.
Fu un momento. Un impulso irrefrenabile. Lo prese, quasi in un abbraccio. Lo portò via con sè. Nessuno disse qualcosa. Lui, come era facile intuire, non reagì. Non disse una sola parola. Guardandosi attorno, lei scese velocemente i gradini che la separavano dall’atrio in penombra, ormai quasi deserto. Aprì velocemente la portiera dell’automobile. Lo poggiò delicatamente sui sedili posteriori. Via.
Non accese la radio. Le piaceva quel silenzio, nuovo e raccolto. Le piaceva quella nuova, silenziosa compagnia. Si chiese se la sua vita, adesso, sarebbe cambiata. In fondo, era questo che voleva. Un nuovo inizio. Guidava piano, assorta nelle volute dei freschi, promettenti pensieri. Fuori, ancora la pioggerellina cortese, con il tergicristallo che andava lentamente su e giù e spostava le piccole anime d’acqua, per un attimo sospese di fronte al suo viso.
A casa se ne sarebbero accorti? Forse no. Ognuno viveva la sua vita ed era raro che aprisse le sue finestre su quella degli altri. Sulla sua specialmente. Prima, ne aveva sofferto. Ora no. La mancanza di sguardi le aveva regalato una libertà nuova e insperata. Le aveva dato il tempo, l’urgenza e la voglia di guardare dentro se stessa. E, dopo aver tolto ragnatele intricate e spazzato via cocci ingombranti, che strano … si era piaciuta. Era paga della sua solitudine, piena di balli nascosti, di risatine segrete, di incontri celati, di infiniti discorsi interiori.
Ciao ragazzi… - Ciao. Qualcuno rispose, distratto, dentro la sua carreggiata telematica.
Lo depose delicatamente sul divanetto, all’ingresso. Rimase lì, fermo e silenzioso, come il suo karma gli imponeva. Con lui la sua vita sarebbe cambiata? Forse si. E non in peggio. Ma forse era cambiata già prima di quel martedì di gennaio.
In fondo, quella sera aveva solo rubato un ombrello.
Maria D'Asaro (II classificato nel concorso di racconti brevi VolanZine,
portale Scripta Volant)

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