“E’ necessario analizzare le ragioni per cui rilevanti componenti della Chiesa (… ) hanno potuto, e per molto tempo, sottovalutare la realtà della mafia, hanno potuto conviverci senza una reale opposizione, rendendo debole la parola profetica della Chiesa nella società”. “Una teologia che … riconducesse al progetto originario di Dio l’intangibilità della dignità di ogni persona, la sua irriducibilità a qualsiasi forma di schiavitù e la sua intrinseca vocazione alla fraternità solidale, non costituirebbe per ciò stesso una riserva critica rispetto alla teologia dei mafiosi, anzi a qualsiasi teologia anche solo analogamente mafiosa?”.
Le parole pronunciate da Caselli, capo della Procura della Repubblica a Palermo, poco dopo l’omicidio di don Puglisi, e l’interrogativo posto dall’autore a fine libro (rispettivamente pag.219 e 216 del testo) esemplificano in modo chiarissimo l’obiettivo del saggio di Augusto Cavadi: Il Dio dei mafiosi (San Paolo, Milano, 2009): capire per quali intrecci perversi un mafioso ritiene normale farsi il segno della croce prima di commettere un omicidio o leggere la Bibbia. E, per converso, capire perché la Chiesa, nel suo complesso, è stata spesso silenziosa e tollerante verso la signoria mafiosa.
Il testo mantiene egregiamente quel che promette.
L’autore, a pag. 142, precisa che sarebbe un errore grave individuare un rapporto di causalità diretta tra teologia cattolica e fenomeno mafia, ma è pur vero che non è possibile sostenere la totale estraneità del cattolicesimo romano-mediterraneo rispetto alla mafia, in quanto “in alcuni casi gli elementi cattolici presenti nella cultura meridionale hanno suggerito (ai mafiosi) alcune idee-guida e alcuni modelli di comportamento” o esplicitamente o obliquamente o negativamente. Mentre una riflessione teologica e una comunità ecclesiale impegnate a costruire una spiritualità incarnata, sobria, conviviale, nonviolenta, nella quale “il criterio ispiratore di ogni possibile istituzionalizzazione non può essere che la migliore disposizione alla diaconia (…) dove non ci sia altro modo di esercitare la signoria che mettendosi in ginocchio e lavando i piedi agli ultimi” (pag.167) “non avrebbe neppure bisogno di guardarsi da infiltrazioni mafiose (…) sarebbero i mafiosi … a tenersi lontani mille miglia da una Chiesa simile. La sfuggirebbero come la peste perché sarebbe, culturalmente e operativamente, la negazione della loro cultura e della loro prassi.” (pag.198).
Fa veramente piacere che tale testo, che ogni cristiano minimamente interessato all’adultità della sua fede e alla consapevolezza dei suoi comportamenti dovrebbe leggere e meditare, sia stato oggetto, tra le altre, anche di una recensione del filosofo Gianni Vattimo su “L’Espresso” del 29.10.2009 e sia presentato da Corrado Augias, nella trasmissione televisiva di Rai 3“Le storie. Diario italiano” il 9.2.2010.
Ancora due notazioni positive. La prima riguarda la ricca e composita bibliografia proposta a fine volume, la seconda la fluidità e la scorrevolezza di quella che oserei definire struttura narrativa del libro. Che è un saggio necessario, corposo e nutriente, ma che si legge comunque come un romanzo. Arricchito da note, che il prof. Cavadi definisce opportunamente “finestre” di approfondimento. Qualcuna forse sarebbe potuta diventare “mattone” del testo stesso, ma tutte, per chi avrà la cura di leggerle, sono foriere di ulteriori “aperture” di luce alla casa/libro già ariosa e soleggiata. D’altronde l’autore (pag.214) ci ricorda con Erasmo da Rotterdam che “ogni buon libro, ispirato dalla fede autenticamente biblica, dovrebbe risultare veramente prezioso e non meno benefico che gioioso”. E, leggere per credere, tali parole calzano a pennello per il saggio di Cavadi.
Maria D’Asaro ("Centonove", 5.11.2010)
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