giovedì 24 giugno 2010

L'arte di annacarsi

(Un libro che andrebbe letto da tutti:
dai non siciliani, perché possano capire un po' di più i siciliani;
dai siciliani, perché il libro li aiuta a capire meglio se stessi)


     Diciamoci la verità: la lettrice che ha radici in terra di Sicilia, “L’arte di annacarsi” (Laterza, Roma/Bari, €16) avrebbe voluto scriverlo lei.
    Non certo, per carità, perché lo avrebbe scritto meglio di Roberto Alajmo, capace di armonizzare con sapienza la prima mano di colore del giornalista e la seconda mano di precisione dello scrittore sagace. La lettrice avrebbe voluto scriverlo lei, questo libro, solo per benevola invidia. Anche perché il viaggio - reale e metaforico – in tanti luoghi della sicilitudine proposti da Alajmo, lei lo aveva già fatto. 
   Anche per lei Castelbuono “è una nicchia di iniziative al riparo del peggiore immobilismo siciliano” (p.163) dove “non si ritrova quello stile architettonico a sé stante che è l’Incompiuto siciliano: le case lasciate incomplete (…) Qui chi si è costruito la seconda casa per il tempo della pensione, quando va in pensione ci torna a vivere veramente (…) senza dovere fare i conti con quel sentimento di amore-odio che a quanto pare è inevitabile, quando i siciliani della diaspora si misurano con la loro terra di origine.” (p.167,168). 
    Anche lei è d’accordo con lo scrittore che, a proposito delle millanta processioni siciliane, ci ricorda: “In Sicilia gli opposti non solo convivono, ma si attraggono, e si mescolano, e diventano una cosa diversa, che non si sa bene come etichettare (p.144). Anche per lei, ad Agrigento: “Il tratto pirandelliano, cioè causidico sino alle soglie della perversione razionale, continua a essere distintivo dei suoi abitanti” (p.77). E anche lei riconosce “Il latente senso di colpa meteorologico che accomuna gli abitanti dell’isola. I siciliani se c’è brutto tempo si sentono in colpa, si giustificano (…) Come se con tutte le cose che hanno da farsi perdonare dal mondo, dovessero farsi carico pure di un’ordinaria giornata di pioggia” (p.79 e 80). 
    E sa che a Palazzo Adriano “I maschi adulti parlano tra loro, oppure rimangono in silenzio, cercando di trascorrere in strada, all’aperto, più tempo possibile. Come se a casa ci fosse qualcosa di spaventoso e quotidiano (…) da affrontare il più tardi possibile” (p.157).
Felice mistura di gossip, di grani di storia, di antropologia spicciola ma non banale, di venature psicologiche, di pennellate intense di sicilianità, con spruzzate ad effetto di termini dialettali: “L’arte di annacarsi” andrebbe letto dai non siciliani, perché possano capire un po' di più i siciliani; dai siciliani, perchè possano capire meglio se stessi. 
    Un libro che rallegra con gl’incipit dei suoi capitoli: “Fra gli effetti collaterali che comporta l’abitare su un’isola, prevalente è quello di sentirsi, appunto, isolati” (p.36). E con le sue chiuse: “I siciliani esperano. Esperano quel domani che nell’isola è la scadenza più ricorrente, in omaggio alla specie di fatalismo che pervade i suoi abitanti, per i quali il tempo tende a essere una nozione soggettiva. Aspettano che il tempo dia i suoi frutti. Aspettano, sperano” (p.157)
    “L’arte di annacarsi” ci rivela forse uno scrittore meno onirico e scoppiettante rispetto ad altri suoi scritti. Più pensoso e riflessivo: come quando commenta la vicenda dell’inchiesta sulla percezione della legalità in alcune scuole siciliane o esamina il modello mazarese d’integrazione. E come quando ci ricorda che “essere continuamente sorpassati dalle automobili mentre si fa una passeggiata nella natura può effettivamente suscitare qualche malumore. Il viaggiatore è indotto a pensare di essere l’unico cretino nel giro di molti chilometri. Tuttavia, se si riesce a entrare in un certo ordine di idee, l’onestà praticata nel deserto delle regole può divenire fonte di una certa leggerezza (…) e c’è l’orgoglio di essere una persona perbene, magari anche l’unica rimasta in circolazione.” (p.129).
    Uno scrittore che non perde comunque la sua vena caustica e ironica:   ”Quando certi giorni il caldo non lascia scampo e si pensa che l’apocalissi climatica sia arrivata, per i siciliani sarebbe un onore poter dire che il giudizio universale sia arrivato proprio qui: quando tutto ha iniziato a finire noi c’eravamo ed eravamo in prima fila.”(p.83). E continua a essere autore poliedrico e leggero, di quella leggerezza che Calvino ci ha insegnato a gustare. E fa il tifo per quei siciliani “capaci di tirare la corda pazza senza strapparla mai, e anzi intrecciandola con quella civile fino a farne una gomena a cui ancorare le proprie utopie” (p.204).

Maria D’Asaro, "Centonove", 30 luglio 2010

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