Ogni tanto le capitava. Di svegliarsi di soprassalto, la notte. E di chiedersi se c’era qualcuno, lassù. Oltre a quel vegliardo di universo con la sua enorme barba, lunga tredici miliardi di anni. Universo che pure era stato bambino, nell’era di Planck, in un istante così breve che lei non riusciva a capire: dieci alla meno 34, diceva il figlio scienziato. Poi un pugno di molecole avevano partorito nello spazio miliardi di stelle.
Ma lei, di notte, in quello spazio infinito che avrebbe allungato la sua barba almeno una dozzina di miliardi di anni ancora, si sentiva perduta. Se Dipsy non poteva più guaire carezzandole i piedi, se Sally era stata inghiottita da un buco nero, che senso aveva abitare il ventre arido e silenzioso di quell’universo? Un tempo pensava che un Dio l’avrebbe salvata e qualcuno l’avrebbe amata per sempre. Ma suo padre l’aveva lasciata. Altri padri guardavano ormai costellazioni diverse. E non era sicura che Dio fosse nato. Né a Betlemme, né altrove. Così le campane dell’angoscia, di notte, suonavano a festa. Fino a straziarla, in quel confine sottile tra dolore e pazzia.
Ma poi l’urlo delle campane era spazzato via dalla promessa di un nuovo mattino. E c’era sempre una creatura che le chiedeva dell’acqua. Un vestito, un pezzo di torta. Un’altra madre, che le offriva un guscio più dolente del suo, un vuoto che lei riusciva miracolosamente a riempire. E il basilico, da annaffiare ogni giorno.
Però ogni tanto scrutava il cielo, di notte. Cercava sempre qualcosa. Una stella. La sua. La sua piccola, personale stella cometa.
Ma poi l’urlo delle campane era spazzato via dalla promessa di un nuovo mattino. E c’era sempre una creatura che le chiedeva dell’acqua. Un vestito, un pezzo di torta. Un’altra madre, che le offriva un guscio più dolente del suo, un vuoto che lei riusciva miracolosamente a riempire. E il basilico, da annaffiare ogni giorno.
Però ogni tanto scrutava il cielo, di notte. Cercava sempre qualcosa. Una stella. La sua. La sua piccola, personale stella cometa.
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