lunedì 30 giugno 2014

Lamento di massa

A Palermo, a chi sale sull’autobus o si ritrova in fila alla posta per pagare una bolletta, non sarà sfuggito un dato di costume. Mentre altrove si parla del tempo, i palermitani parlano tra loro solo per lamentarsi di qualcosa: dell’autobus che non passa in orario, delle tasse, del governo che “non dà lavoro”. I motivi per essere scontenti non mancano: però dispiace davvero che il lamento di gruppo, praticato con  tenacia e convinzione come se avesse una ricaduta civile e politica, sia il prevalente, se non l’unico, modo di confronto e di socializzazione dei miei concittadini. Il problema è che, scesi dall’autobus e pagata la bolletta, i palermitani non trovano altre maniere per dare sostanza al  lamento collettivo, esaurito il quale tutto rimane come prima. Dopo l’inutile sproloquio verbale, nessuno muove un dito per cambiare. E si continua a vivere con atavica rassegnazione in una città  rabberciata e imperfetta.
                                                    Maria D’Asaro (“Centonove” n. 25 del 27.6.2014)




giovedì 26 giugno 2014

Seduta




Seduta  
sulla riva,
fragile e umida,
della mia spaziale solitudine,
sorrido.

sabato 21 giugno 2014

Un lavoro per Marco

Lo chiamo Marco, ma si potrebbe chiamare Francesco, Salvo o Giuliano. E’ un ragazzo palermitano di trent’anni, con una storia simile a quella di tanti suoi coetanei: un’infanzia difficile, l’istituto superiore lasciato a metà, una qualifica di elettricista conseguita in un corso di formazione regionale. Marco non sa fare solo l’elettricista: sa fare anche l’imbianchino, s’intende di idraulica, sa persino piastrellare un garage. Vorrebbe solo una cosa, adesso: lavorare. Anche pulire le scale, piantare pomodori o lavare i cessi: purché sia un lavoro onesto. Ma nella Palermo di oggi la sua è una richiesta da sogno e Marco continua a rimanere disoccupato. E’davvero assurdo e ingiusto che un trentenne volenteroso non abbia un lavoro e un reddito propri:  è come se la società lo tenesse in prigione, nella prigione invisibile della sua dipendenza dai familiari. Marco è innocente, ha diritto di vivere libero. Cosa aspetta la buona politica ad aiutarlo?
                                                 Maria D’Asaro (“Centonove” n. 24 del 20.6.2014)


giovedì 19 giugno 2014

Tic-tac tra stragi e mondiali di calcio

     (Avrei voluto scriverlo io. Quasi tutto quello che scrive Roberto Alajmo vorrei scriverlo io.)

In America tutti quelli che hanno una certa età sanno dove erano e cosa facevano quando uccisero Kennedy. Sia il primo sia il secondo Kennedy. Oppure quando il primo uomo sbarcò sulla luna. E l’undici settembre, ovvio. Sono le tappe storiche che si combinano con la vita privata di ognuno e la spartiscono in modo che anche a distanza di tempo si possa distinguere un prima e un dopo. 
Per il maschio latino esiste un modo meno traumatico/ eroico di scandire l’esistenza: i mondiali di calcio. Ogni quattro anni il tempo batte un colpo, e il maschio latino è portato a sincronizzarsi con questa scansione. In fondo la vita di tutti gli italiani può intendersi suddivisa in blocchi quadriennali compresi fra un campionato del mondo e un altro. Prima di Italia-Germania (Messico) eravamo piccoli, dopo il rigore sbagliato di Baggio (Stati Uniti) siamo diventati vecchi. Con Lippi Primo (Germania) ci siamo innamorati, con Lippi Secondo (Sudafrica) ci siamo disillusi.
Un metodo di scansione del tempo, questo, che a noi siciliani dev’essere parso troppo poco articolato e drammatico, per cui ne abbiamo escogitato più o meno consapevolmente un altro, più consono alla nostra indole e in linea col problematico rapporto che intratteniamo con la morte. Il secondo metronomo che si sforza di incolonnare il nostro tempo è quello dei delitti di mafia. Non che soppianti il primo metronomo, ma lo affianca e lo raffina. Per dire: la mia generazione distingue molto precisamente un prima delle stragi e un dopo le stragi. Non c’è nemmeno bisogno di aggiungere «del ‘92», per quanto quell’annata rappresenta un trauma. Giusto in mezzo ai mondiali d’Italia e d’America, siamo diventati tutti più grandi/ vecchi/consapevoli/incazzati/ depressi/reattivi. Di sicuro i capelli di tutti i palermitani sono diventati più bianchi, nel 1992.
Nessun siciliano riesce a sfuggire a questo riflesso condizionato. Tanto che il ventennio e oltre che è passato da Falcone e Borsellino ci pare una specie di marmellata informe di eventi difficilmente collocabili temporalmente. Niente grandi delitti, niente senso del tempo. È la falsa benedizione che tocca ai siciliani in questi anni. Un lungo dopoguerra che ci sforziamo di scambiare per pace. Un periodo in cui la guerra l’abbiamo solo esportata in casa d’altri.
Dalla combinazione di queste due scansioni (mondiali più grandi delitti) si ricava che l’anno più annoso che si ricordi, almeno per noi siciliani, è il 1982. Impossibile dimenticarlo proprio per il crocevia di eventi tragici e ludici che andò a crearsi proprio allora. L’anno che tutti gli italiani ricordano come quello della metamorfosi di Paolo Rossi, da brocco irredimibile (nella fase preliminare) a implacabile goleador (nella fase finale), assume per i siciliani un sapore agrodolce che lo rende ancor più indimenticabile. Di nessun altro anno sappiamo riassumere l’incedere come per il 1982. Anno crudelissimo ma anche squisito, come tutti quelli in cui l’Italia diventa campione del mondo. Da quell’altalena di emozioni compresa fra primavera ed estate noi palermitani siamo rimasti segnati per sempre. Basta contestualizzare: la corsa a squarciagola di Tardelli (11 luglio) è incastonata fra il delitto La Torre (30 aprile) e il delitto Dalla Chiesa (3 settembre).
La vittoria ai mondiali di Spagna ebbe l’effetto di una rivitalizzazione nazionale che in Sicilia venne annacquata per il fatto stesso di coincidere con la stagione più cruenta della guerra di mafia. Un anno durissimo in mezzo ad anni durissimi, durante i quali i corleonesi rampanti segnavano il territorio di conquista marcando col sangue tutti gli angoli della città. Tutti ricordano sempre che il giornale L’Ora teneva il conto dei morti ammazzati nelle strade di Palermo. Tutti ricordano almeno un titolo: “La morte ha fatto cen-to”, quando venne raggiunta la cifra simbolica dell’ecatombe. Il riflesso condizionato delle istituzioni aveva assunto un ritmo forsennato, persino ridicolo: non si faceva in tempo a indignarsi per un delitto, e subito toccava indignarsi per un altro ancora più grave o feroce. (…)
Su tutto questo pulviscolo di cronaca campeggiano i due morti eccellenti, La Torre e Dalla Chiesa, di cui la Grande Storia si è fatta carico. A suo tempo, un paio di anni dopo i fatti, il regista Giuseppe Ferrara ha contato quei giorni torridi compresi fra fine aprile e primi di settembre, riassumendoli nel numero approssimativo di cento. “Cento giorni a Palermo”, si intitola il film con Lino Ventura. Ma un film non basta, e nemmeno cento giorni bastano per contenere questa città dove la tragedia è sempre contenuta nella commedia, che è contenuta nella tragedia che è contenuta nella commedia. Eccetera.
                                                           (Roberto Alajmo, "La Repubblica" )

martedì 17 giugno 2014

Attimi di silenzio

 

Si entra in un negozio per comprare una maglietta e si è inondati da musica a tutto volume; si va dal parrucchiere e c’è la radio accesa, con i notiziari locali e le pubblicità; persino dal salumiere e in panificio si trova ormai un mega schermo che ci subissa di note e notizie. Il chiacchiericcio mediatico di sottofondo non manca neppure dal dentista. Certo, talvolta la musica può essere gradevole; il fatto è, come canta  Franco Battiato, che certe volte avremmo bisogno “di attimi di silenzio”. E, invece, è come se l’ambiente che ci circonda congiurasse per stordirci, per rendere il silenzio alieno e nemico. Ecco che Battiato, da tempo, ci avverte che se stiamo “su divani, abbandonati, con telecomandi in mano, con storie di sottofondo, con i Dallas e i ricchi che piangono, la sera ci prendono malesseri speciali. E non servono tranquillanti o terapie, ci vuole un’altra vita”.
                                      Maria D’Asaro (“Centonove” n. 23 del 13.6.2014)

domenica 15 giugno 2014

Sii tu la rivoluzione che vuoi vedere nel mondo ...

“Devi essere tu quel cambiamento che speri di vedere nel mondo”, affermava Gandhi nel secolo scorso. In armonia con l’esortazione del Mahatma, Augusto Cavadi nel saggio La rivoluzione, ma a partire da sé  (IPOC, Milano, 2014, € 16) si chiede se anche nella società odierna, “liquida” e senza certezze, valga ancora la pena impegnarsi per cambiare in meglio il mondo. 
Augusto Cavadi
La sua risposta è senz’altro positiva. Ed è argomentata in modo tale da parlare alla mente e al cuore del lettore, con un apprezzabile “understatement” comunicativo,  che evita toni e pretese da “guru”: è come se infatti l’autore ci prendesse amichevolmente per mano, proponendoci, quasi sottovoce, le sue ponderate riflessioni esistenziali. 
Cavadi registra innanzitutto la crisi, nel mondo occidentale, di tutti i massimi sistemi: religioni storiche, ideologie politiche, fede nelle potenzialità degli individui. Ma, nonostante il crollo delle “grandi narrazioni”, con Vasco Rossi che mette persino in musica questa nostra incertezza “voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa  vita (e questa storia) un senso non ce l’ha”, l’uomo contemporaneo continua ad avere un’enorme “fame di senso”, come sottolineava con sagacia lo psicoanalista Victor Frankl, sopravvissuto ai lager nazisti. Ecco allora l’urgenza di trovarlo, un senso alla vita e di darsi anche un progetto per realizzarlo, perché non siano gli altri a decidere per noi: “è importantissimo prendere coscienza di ciò che, oggi, ispira la nostra esistenza (…): se scopriamo che si tratta di un valore reale (…) cercheremo di vivere con più coerenza il nostro progetto esistenziale; se al contrario scopriamo che si tratta di un valore troppo esiguo … gli concederemo minor spazio nell’economia della nostra esistenza”. Fondamenti essenziali su cui poggiare il proprio impegno nel mondo sono allora la fedeltà al reale, intesa come fedeltà alla Terra e alla Storia, la fiducia nell’essere umano, nonostante i suoi limiti e fallimenti, e la fiducia nell’Amore, anche senza un preciso e codificato orizzonte religioso confessionale. 
Ci sono poi alcune condizioni necessarie perché la dimensione personale dell’impegno possa avere radici solide e profonde: la vigilanza intellettuale: “osservare ciò che accade nella storia; documentarsi (…), riflettere per farsi un giudizio critico”; la capacità di fruire della bellezza: “a che scopo liberare gli uomini della miseria economico-sociale se non per aprire loro una prospettiva sulla bellezza in tutte le sue manifestazioni?”; la cultura della sobrietà e del rispetto ecologico; il dialogo senza riserve fra tutti gli uomini. Perché possiamo mettere una “giunta” alla società e lasciarla un po’ migliore di come l’abbiamo trovata (il termine “giunta” è mutuato  dal vocabolario del nonviolento Aldo Capitini) Augusto Cavadi sottolinea poi l’opportunità che ognuno di noi rifletta, secondo la sua formazione e sensibilità, sulle parole e sugli esempi di vita di maestri quali Socrate, Buddha o Gesù Cristo,  e ricerchi in se stesso e stimoli negli altri “ciò che significa giustizia o bellezza, amicizia o santità”: perché una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”.
L’autore ci esorta anche a impegnarci - nel nostro quartiere e nella nostra città, come in associazioni con un respiro e un raggio d’azione nazionale e internazionale - con un atteggiamento interiore contraddistinto dalla gratuità, dalla continuità, dalla socialità, dall’attenzione privilegiata agli ultimi, nella consapevolezza però che “se sono uno studente che non studia, un docente che non si aggiorna, (…) un commerciante che evade il fisco, un funzionario che accetta tangenti … non ho il diritto di illudere me e gli altri attraverso alcuna forma di volontariato”
E, dopo aver sottolineato con le toccanti parole di Giacomo Ulivi, il partigiano ucciso a 19 anni per il suo impegno antifascista, la necessità della partecipazione di tutti alla gestione della cosa pubblica, l’autore suggerisce alcuni criteri per restituire lievito e sostanza all’impegno politico: l’importanza di scegliere rappresentanti politici dotati di un buon bagaglio intellettuale e morale, capaci di operare delle scelte coraggiose, pronti a rischiare l’insuccesso (“ciò che dobbiamo cercare è la vittoria delle cause giuste, non la vittoria in quanto tale”), decisi a scegliere la nonviolenza come metodo ordinario di lotta, capaci di coniugare la micro-politica con gli orizzonti internazionali. 
Nelle ultime pagine del saggio, davvero illuminanti  le riflessioni con cui l’autore ci invita a superare, proprio al fine di realizzare la rivoluzione a partire da sé, “la schizofrenia sociale per cui si è cristallizzata una rigida divisione del lavoro fra ‘contemplativi’ e ‘tecnici’ (…) mentre: “un’antropologia lucidamente attenta a tutte le sfaccettature dell’essere umano non può esimersi dall’elaborare una sempre più approfondita filosofia della prassi: non per contrapporre contemplazione e azione, ma per evidenziare la loro comune radice, la loro reciproca appartenenza e il loro unico fine”.
Alla fine Cavadi ci presenta alcuni “compagni di viaggio”: testi letterari, filosofici e religiosi ai quali è debitore per le sue scelte “rivoluzionarie”. A questo punto, per approfondire adeguatamente modelli, metodi e prospettive della rivoluzione a partire da sé, forse alle cento pagine del libretto se ne sarebbe addirittura dovuta aggiungere qualcuna in più. Il testo è comunque un ottimo spartito in cui la partitura musicale dell’impegno è suggerita con grande maestria. Sta a noi lettori arricchire i suggerimenti di Cavadi con le nostre consapevoli “note” esistenziali.                                               
                                     Maria D’Asaro (“Centonove” n.23 del 13.6.2014, p.32)

giovedì 12 giugno 2014

37° 40’ N; 13°14’ E

Oggi nostra Signora ha chiesto permesso ed è andata  a Giuliana, suo borgo natio.

(Fonte: Wikipedia): Giuliana è un comune italiano di 2.032 abitanti, della provincia di Palermo, in Sicilia. Dista 77 km da Palermo (non è vero: sono quasi 90, secondo il conta km. della mia auto …) e si erge a circa 700 metri sul livello del mare.
Sembra, per certi versi, che a Giuliana il tempo si sia fermato.
La cittadina, posta nell'estrema parte meridionale della provincia di Palermo, era protetta dal maestoso castello di Federico II svettante sulla Rocca,  castello che rappresentava  un ottimo osservatorio per dominare l'ampia vallata della costa agrigentina, fino al mare.  Ancora oggi, con le sue viuzze, le sue case in pietra ed i suoi monumenti, Giuliana dà l'impressione di emergere dal lontano medioevo.
Fino al 1185, sul monte dov'è adesso il paese, sorgeva un casale, che apparteneva alla «gens Julia» (da qui il nome, pare che il nucleo iniziale del paesino risalga all’epoca romana). Proprio quell'anno l'imperatore Guglielmo il Buono lo cedette, insieme ad altri casali, al vescovo di Monreale.  L’identità urbanistica del borgo, invece, si sviluppa a partire dal XIV secolo. Nel 1543, l'imperatore Carlo V elevò la cittadina al grado di marchesato. Nel 1640 il paese passò dai Cordona ai Gioeni, fino al 1812, quando venne abolito il sistema feudale.
Oltre al castello, a Giuliana si possono ammirare altri monumenti: i resti della costruzione araba, chiamata «Cuba», l'ex monastero della SS. Trinità, costruito nel 1655 dai monaci olivetani, la chiesa di San Calogero (XVI secolo), la chiesa di San Nicolò di Bari, chiamata anche Badia, l'ex chiesa degli Agonizzanti (XVII secolo), la chiesa del SS. Rosario (XVII secolo).
Giuliana, infine, ha dato i natali al pittore di scuola raffaellita Giacomo Santoro, detto Jacopo Siculo.






(a Giuliana, in un suo fazzoletto di terra, nostra Signora ha raccolto alcune ciliegie. Nei campi vicini, ginestre e caprifoglio:)

martedì 10 giugno 2014

Nostra Signora e le vite di scorta

     C’era un tempo in cui  Nostra Signora si rifugiava nei profumi di vite parallele, perché la realtà sapeva troppo di amaro. Quando era piccina, le mancava tanto sua madre, che lavorava all’ufficio postale e poi non aveva tempo abbastanza da poterle donare. Allora Maruzza indossava una camicia da notte della sua mamma, si adornava di tante collane, di un copricapo regale e si guardava allo specchio: ecco, era ormai la regina di un regno fatato ... 
Da ragazzina era brava e buona, ma non proprio bella, con quel suo naso davvero sgraziato; allora il sogno di un principe azzurro viaggiava sui binari paralleli del tran tran quotidiano impastato di greco, latino e pasti da preparare.  Da giovane Signora le era sembrato che la sua vita avesse abbastanza colore e aveva riposto in soffitta le vite di scorta, sperando di non doverle più rispolverare.
Invece, a un certo punto, si era trovata con le gomme dell’esistenza miseramente tagliate. Certo, poteva socchiudere gli occhi e volare di nuovo in posti da favola. E invece Nostra Signora ormai gli occhi voleva tenerli aperti e cercare un senso a quest'esistenza, di per sé piuttosto insensata.
E della vita voleva tenere il volante, anche se per viaggiare in direzione ostinata e contraria.
  

domenica 8 giugno 2014

Elezioni … ecologiche

Alle ultime elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, in Italia sono andati a votare il 57,22% degli elettori. A Palermo hanno votato 221.792 persone, solo il 40,34% degli aventi diritto. Purtroppo nella mia città, già dall’inizio di aprile, campeggiavano poster giganti con le facce dei candidati e con slogan davvero demenziali. Ma il primo dovere di una persona che si candida al governo della cosa pubblica - locale, nazionale o europea - non dovrebbe essere  forse quello della congruità tra mezzi e fini? E poi: la scelta di voto è davvero così legata ai volti dei candidati? Mi auguro che in futuro il retaggio di una consultazione elettorale sia di minor impatto ambientale, senza cartacce per strada e con meno manifesti e murales dei candidati. I cui inutili sorrisi sbiadiscono in fretta, quasi a segnare l’ancora grave distanza tra politica e società civile, con i suoi reali, inascoltati bisogni.
                                             Maria D’Asaro (“Centonove” n. 22 del 6.6.2014)

venerdì 6 giugno 2014

Una musica può fare ...

Quante volte siamo stati “salvati” dalla musica? Dalla ninnananna che ci cantava nostra madre, da una canzone struggente durante le burrasche dell’adolescenza, dalle note sempreverdi di Beethoven e Mozart, dalle parole/verità di un cantautore ispirato, dal ritmo allegro di un tormentone estivo. 
Dalla musica speciale che ci dedica oggi la persona amata ...

P.s. Grazie a Claudia che ha condiviso questo video su FB e alle sue mani che ci regalano note preziose.



martedì 3 giugno 2014

La donna che sussurrava alle piante ...

Lavanda
Geranio

Palma canariensis (piantata quando Luci aveva 4 anni)
Euphorbia

Basilico, appena piantato!



Nostra Signora da sua madre aveva ereditato il pollice verde: a lei bastava guardare una pianta per stare contenta. Il suo sogno era di avere un giardino. Si sarebbe forse avverato, in una qualche esistenza. Intanto godeva lo spazio verde del suo balcone. Annusava la menta e la profumata lavanda, coltivava il basilico.






Menta
Alberello di chorisia (piantato 14 anni fa da Luciano)

domenica 1 giugno 2014

Se ognuno fa qualcosa …

     Un anno fa, il 25 maggio 2013, la Chiesa cattolica ha proclamato padre Puglisi beato per la sua efficace azione di evangelizzazione e promozione umana nel quartiere di Brancaccio, che, anche grazie a lui, aveva cominciato a ribellarsi a Cosa nostra. Così la mafia lo uccise il 15 settembre 1993. L’anno scorso a padre Pino Puglisi fu appunto riconosciuto il martirio “in odium fidei”. Cosa è cambiato nella Chiesa cattolica a un anno dalla sua beatificazione? Non ho la competenza e le frequentazioni giuste per azzardare giudizi. Non credo però che il cambiamento dei comportamenti e la conversione delle coscienze voluti da padre Pino possano essere favoriti dall’esposizione delle sue reliquie. Temo che 3P non avrebbe molto gradito questa discutibile pratica medioevale. “Se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto” – era solito ripetere. Solo se ognuno farà qualcosa di giusto e di buono per Palermo, 3P continuerà a sorriderci.
                                                                Maria D’Asaro (“Centonove” n. 20 del 30.5.2014)